Omelia nella IV domenica di Quaresima

Pietracuta (RN), 10 marzo 2024

2Cr 36,14-16.19-23
Sal 136
Ef 2,4-10
Gv 3,14-21

Un paradosso: Nicodemo, di notte, quando è buio, va da Gesù per un incontro personale che riguarda il senso della sua vita, e trova una luce abbagliante! Qualcuno pensa sia andato di notte perché si vergognava di farsi vedere: «Tu che sei un fariseo vai a trovare Gesù?», avrebbero potuto dirgli. Nicodemo “era nella notte”. Altre volte l’evangelista Giovanni ama evidenziare: «Era notte». Accade così, ad esempio, quando Giuda tradisce il Signore e, durante la Cena, prende il pane ed esce dal Cenacolo per contrattare la cattura di Gesù; in quel momento Giovanni ribadisce: «Era notte». Non è soltanto un’informazione cronologica, ma lo sfondo di quello che c’è dentro quella coscienza. Nicodemo è in un momento di oscurità, si sta domandando quale sia il senso della vita, tant’è vero che la discussione con Gesù riguarda «una nuova nascita»: Nicodemo, infatti, sente che la sua vita è su un binario morto e chiede come si fa a rinascere.
In questa situazione di buio c’è una parola luminosissima, accecante (ci abbiamo fatto l’abitudine, ma è straordinaria): «Dio ha tanto amato il mondo». Non sappiamo che cos’abbia capito Nicodemo, che cosa sia successo nel suo cuore, però ritroveremo Nicodemo nel racconto della Passione di Gesù, perché sarà tra quelli che avranno cura di Gesù deposto dalla croce. Il cuore di Nicodemo, avvolto dall’oscurità, viene attraversato da questo bagliore.
Ricordo l’esperimento che, al Deutsche Museum di Monaco di Baviera, fanno vedere ai visitatori: la formazione dei fulmini. Per guardare occorrono occhiali particolari. Questa l’intensissima luce che travolge Nicodemo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare suo figlio». Mi auguro che tutti voi siate nella luce, ma se per caso ci fosse una persona che sta attraversando un momento di buio, per i più svariati motivi: diagnosi infauste, delusioni nella vita affettiva, dispiacere per i propri peccati, fatti della cronaca, dopo questo annuncio torni a casa con questa luce e con questa certezza: «Dio mi ama immensamente».
Nella conversazione con Nicodemo, Gesù cita una pagina della Bibbia, presa dal Libro dei Numeri (uno dei cinque libri del Pentateuco), che riporta un episodio che Nicodemo conosceva benissimo (Giovanni presuppone la conosciamo anche noi lettori), l’episodio detto “dei serpenti velenosi”. Durante il cammino nel deserto gli ebrei vedono il moltiplicarsi di serpenti velenosi dove hanno posto l’accampamento. Si tratta di serpenti molto velenosi; il Vangelo precisa: «Serpenti brucianti», un’allusione alla febbre causata dal morso dei serpenti. Nelle tende si trovano serpenti, alla fontana ci sono serpenti, nel cortile dove i bambini giocano appaiono serpenti… Ma cosa sono, in verità, i serpenti? Gli ebrei sono insoddisfatti; avevano vissuto il passaggio del Mar Rosso, un fenomeno straordinario, però si lamentano per la fatica di camminare nel deserto; hanno visto l’acqua sgorgare dalla roccia, hanno ricevuto la manna, il «pane del cielo», ma lo giudicano addirittura nauseante. I serpenti stanno a significare la loro mormorazione, la scontentezza che avvelena la loro vita. Mosè compie, allora, un gesto simbolico, che Gesù descrive molto bene. Mosè fa costruire un serpente di bronzo e lo innalza in modo che tutti lo possano guardare. Chi guarda il serpente viene risanato.
Che cosa vuol dire? Si vorrebbero offrire al Signore virtù, esperienze edificanti, cose belle e invece non si hanno che limiti, inconsistenze, peccati e difetti, tutte cose che avvelenano la nostra vita. Allora sono invitato a non guardare me stesso, a non lamentarmi, a non mormorare per uscire da me e guardare il “serpente di bronzo”.
Gesù dice: «Quel serpente di bronzo sono io; guarda me, crocifisso e innalzato da terra, butta in me ogni negatività, tutto quello che avvelena la tua vita e sarai risanato».
Vi dico come faccio nei momenti di buio. Quando ho qualche dispiacere, ad esempio sono deluso da qualcosa, cerco di non restare nella piaga, nella ferita, nel veleno, nella delusione, ma dico: «Sei tu, Gesù, il deluso». Anche Gesù è stato deluso… A volte vivo dei fallimenti. Esco da quella situazione guardando il Crocifisso: «Gesù, sei tu il fallito». Gesù in croce è il fallito. Anche ad un vescovo può capitare di pensare, mentre celebra la Messa, davanti al pane: «Mio Dio, come puoi essere in questo pezzo di pane?». Questi dubbi sono una grazia, perché fanno fare uno scatto nella fede, permettono di uscire dall’abitudine. Anche Gesù sulla croce si è sentito abbandonato, anche se non era solo, e ha gridato: «Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?» (cfr. Mc 15,34). Gesù ha sentito nel suo cuore umano quello che provano quelli che sono in ricerca. Allora mi dico: «Sei tu, Gesù, l’abbandonato». Invito tutti a vivere questa alchimia interiore.
Nella settimana che sta per iniziare propongo questi due pensieri. Il primo, nella notte un lampo di luce: «Dio mi ama immensamente». Lo devo credere soprattutto nei momenti di buio, nella notte oscura. Tutti siamo mistici, chiamati ad un’esperienza forte di vita cristiana. Il secondo: quando attraversiamo situazioni difficili, cattive, “velenose”, guardiamo il Crocifisso; anche Gesù è stato provato e in Lui siamo stati salvati.