Omelia nella Solennità del “Venerdì Bello”

Pennabilli (RN), Santuario della Madonna delle Grazie, 15 marzo 2024

Prv 8,22-31
Sal 44
Ef 1,3-6.11-12
Lc 1,26-38

Siamo riuniti per rinnovare la tradizione del “Venerdì Bello”. Era venerdì 20 marzo 1489, quando l’immagine della Vergine, qui custodita, fu vista versare lacrime. Il fatto, suffragato da molte testimonianze, fu riconosciuto e venne approvato dal Vescovo diocesano, Celso Mellini. Il fatto, da subito, fu interpretato come un segno di premura materna, sostegno, difesa della Beata Vergine delle Grazie verso queste nostre comunità.
La festa del “Venerdì Bello” coincide con l’arrivo della primavera, inizio di un nuovo ciclo, con lo sbocciare di nuovi germogli e gemme, con la gioielleria delle viole, delle primule e dei narcisi. Sono molto lunghi gli inverni di quassù, anche se quest’anno l’inverno è stato molto mite (purtroppo, per altri versi…). La celebrazione del “Venerdì Bello” sostiene i giorni decisivi della Quaresima e prepara alle solenni liturgie della Settimana Santa. Per noi sacerdoti costituisce una piccola sosta nelle fatiche pastorali che, in questo tempo, si fanno più gravose: visita e benedizione alle famiglie (esperienza bellissima!), catechesi, liturgie, formazione degli adulti (incontri, predicazioni, ritiri), Vie Crucis, Veglia missionaria. Una sosta, una pausa, un sollievo, ma dove? Ai piedi, anzi sulle ginocchia, ancora di più, tra le braccia della Madre. Amo pensare Maria nella casa di Giovanni: la Madre ceduta da Gesù al discepolo agapetos (“amato”); Maria, da allora, sta ad Efeso, accanto al discepolo. E noi? Siamo qui per prendere Maria nella nostra casa. Le lacrime sono il segno di una umanità, la sua, risorta, ma vera, coinvolta, emozionata. Maria ci sollecita ad avere con lei un rapporto altrettanto vero, profondo, corrispondente a quello che lei ha per noi. Non siamo troppo prudenti nell’abbandonarci anche al sentimento (la devozione non dev’essere un sentimentalismo, sia ben chiaro!), nella fede portiamo anche i nostri cuori: «Sotto la tua protezione cerco rifugio, Santa Madre di Dio, non disprezzare le suppliche di me che sono nella prova, ma liberami da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta».
Siamo qui questa mattina – mi rivolgo particolarmente ai miei presbiteri – per affidarle tre eventi che stiamo vivendo. Il primo: l’arrivo, nel nome del Signore, del nuovo Vescovo Domenico. Come vivere questa attesa? Con la contemplazione del dono della successione apostolica. Per noi il Vescovo Domenico non sarà un funzionario mandato dal Vaticano. È un apostolo, o meglio un successore degli apostoli. Lui stabilirà con tutti, ma soprattutto con noi sacerdoti, un legame sacramentale, occasione di rimessa a fuoco del nostro rapporto col Vescovo. È l’accoglienza del Vescovo anche come persona, con la sua storia, la sua cultura, il suo cuore, i suoi sentimenti. Mi ha sempre fatto impressione quanto disse san Giovanni Paolo II: «Non è senza un disegno della divina Provvidenza che sul soglio di Pietro siede un polacco, con tutto quello che questo comporta: la sua storia, la sua cultura…». Come vivere questo evento straordinario per la nostra Chiesa? Nella tensione alla comunione, sempre di più.
Un altro avvenimento che abbiamo vissuto in questi giorni è stata la Visita ad limina: vi ho portato tutti con me nelle quattro Basiliche Maggiori, sulle tombe degli apostoli Pietro e Paolo. Lì ho confermato la mia e la vostra fede sulla roccia di Pietro. Ho consegnato la vita della nostra Chiesa (70 pagine di relazione!), con trepidazione (c’erano molte domande!), e ho ricevuto incoraggiamento.
Il terzo evento che dobbiamo vivere è la Terza Giornata Eucaristica, il 7 aprile. Guai a chi manca! È stato bello, quest’anno, mettere al centro l’Eucaristia. Non importa il numero delle persone che siamo riusciti a coinvolgere. Abbiamo gustato i quattro “verbi eucaristici”: «Gesù prese il pane, benedisse il pane, spezzò il pane, lo diede». Poi, la peregrinatio dell’icona della Cena di Emmaus. In tutte le comunità è un avvenimento edificante e gradito. La Terza Giornata Eucaristica sarà la penultima tappa del Cammino Sinodale di quest’anno.

Oggi la liturgia ci fa spalancare orecchi, cuore, mente, su due stupendi inni, due liriche, che hanno la forza di rapirci al Cielo della Trinità.
La prima, dal libro dei Proverbi di Salomone, e la seconda di san Paolo nella Lettera agli Efesini.
Chi è la sapienza di cui canta Salomone? Di lei si parla altre volte nei testi biblici, come di un bene spirituale, desiderabile, prezioso, ma qui la sapienza è personificata, è lei stessa che parla di sé, racconta della sua origine: «Generata prima di ogni creatura, coinvolta come parte attiva nella creazione, incaricata di una missione da svolgere verso gli uomini: condurli a Dio». Quello contenuto nell’inno del libro dei Proverbi è un identikit appena sbozzato, ma, nel Nuovo Testamento, quell’intuizione avrà uno sviluppo nuovo e decisivo, diventerà rivelazione: la sapienza è il Verbo di Dio, Gesù Cristo.
La liturgia applica questo testo alla Vergine Maria; non è un’eccedenza, Maria è collaboratrice del Redentore come la sapienza lo è del Creatore, nella duplice veste di parte attiva, nel mistero della Redenzione, e per la sua missione verso di noi.
Alcuni anni fa dedicai una Lettera pastorale alla Madonna. Aveva questo titolo: «Maria Cielo di Dio». Con questo titolo non intesi formulare un’iperbole devozionale, né avere tantomeno la presunzione di attribuirle un privilegio nuovo. Maria, però, è il Cielo sul quale, per pura grazia, il Padre dona il suo splendore, l’irradiazione della sua gloria, il Verbo.
Che cosa deve fare Maria? Nulla. Soltanto accogliere l’iniziativa dell’Amante nel suo eterno generare l’Amato, il Figlio, e il reciproco donarsi che è lo Spirito Santo.
Il racconto evangelico dell’Annunciazione è la più significativa tra le pagine di Rivelazione trinitaria. Tutta la Trinità si affaccia sulla casa di Nazaret e vive in Maria il suo Cielo. In Lei, l’Eterno entra nel tempo. Il suo abbandonarsi è totale. Il senso vero della sua domanda: «Come accadrà questo?» equivale ad un «Signore, cosa vuoi che io faccia?». Maria lascia da parte tutte le ragioni, sicuramente valide: c’è di mezzo Giuseppe, che cosa dirà? C’è di mezzo il chiacchiericcio della gente: una ragazza incinta fuori dal matrimonio… C’è di mezzo la sua piccolezza, ma è proprio alla sua piccolezza che l’Altissimo rivolge lo sguardo. Trovo molto suggestiva la preghiera di san Bernardo davanti all’Annunciazione. L’angelo ha parlato. Maria ascolta. C’è un attimo di profondo silenzio. Cosa risponderà? Cosa dirà all’angelo? È come se il tempo si fermasse… Bernardo – è un’esegesi discutibile – entra sulla scena, si fa voce dell’umanità che implora quel “sì”. È Bernardo che prega, ma è voce della mia preghiera e di quella di ciascuno di noi. Mi piace immaginare sulla scena anche il lebbroso del Vangelo che chiede il “sì” di Maria. Sa che, se lei dirà “sì”, Gesù lo risanerà. Immagino la donna peccatrice che attende di essere liberata da sette demoni. Immagino Zaccheo, capo dei pubblicani, desideroso di farla finita col suo comportamento mafioso. Penso al ladrone che sulla croce chiede solo che Gesù si ricordi di Lui.
Riprendo le parole di san Bernardo: «Perché tardi? Perché temi? Credi all’opera del Signore, dà il tuo assenso ad essa, accoglila. Nella tua umiltà prendi audacia, nella tua verecondia prendi coraggio. In nessun modo devi ora, nella tua semplicità verginale, dimenticare la prudenza, perché se nel silenzio è gradita la modestia, ora è piuttosto necessaria la pietà della parola. Apri, Vergine Beata, il cuore alla fede, le labbra all’assenso, il grembo al Creatore. Levati con la fede, corri con la devozione, apri con il tuo “sì”». «Eccomi – risponde – sono la serva del Signore, avvenga in me quello che hai detto». Nostra Signora del “sì” insegnaci a discernere la volontà di Dio, ad accoglierla nella fede e a corrispondere alla grazia. Tu, la piena di grazia, dicci in che modo imitarti. Ci rendiamo conto che non possiamo essere cristiani se non essendo mariani». Chiediamo a Maria di farci altri “Cielo di Dio”, dimore della Trinità, grembi di Dio nella storia.
Al termine di questo anno eucaristico è cresciuta in noi sacerdoti la consapevolezza dell’analogia che ci lega a Maria. Anche noi, per così dire, mettiamo al mondo il Signore Gesù. L’Eucaristia è la continuazione dell’incarnazione del Verbo. Nell’intraprendere il cammino dell’anno liturgico – ricorderete – la nostra preghiera, i nostri sospiri erano rivolti all’avvenimento che poteva sembrare nient’altro che un sogno: «Che Dio squarciasse i cieli e scendesse tra gli uomini». Il sogno, nella pienezza dei tempi, è divenuto realtà e il Figlio di Dio è comparso tra noi, nostro Emmanuele, nato da una Vergine. E quel fatto non è relegato in un momento della storia, duemilaventicinque anni fa; l’incarnazione perdura, il nostro Dio è con noi, tutti i giorni, sino alla fine dei secoli.
L’Eucaristia costituisce la continuazione dell’incarnazione, la permanenza del Signore tra noi sino ad oggi, ma la sua entrata nella storia del mondo, allora, fu per tutta l’umanità passata, presente e futura, per tutta l’umanità in generale. L’Eucaristia, in un certo modo, presenta qualche cosa di più. L’Eucaristia è l’incarnazione del Signore in ognuno di coloro che credono in Lui e di Lui si cibano, della sua carne e del suo sangue. Non è lui che si trasforma in noi, ma siamo noi che veniamo trasformati in Lui (sant’Agostino). Ciascuno di noi, mediante l’Eucaristia diventa Cristo, può dire: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Noi siamo fatti membra di Cristo. Di più, noi siamo Cristo. In questo tutto è grazia, soltanto grazia. Rapiti da questa bellezza, facciamo nostro l’inno che apre la Lettera agli Efesini, l’inno che Paolo innalza mentre è in catene: «Benedetto sia Dio, Padre del Signore Nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione nei Cieli in Cristo; in Lui ci ha scelti per essere santi e immacolati, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi, secondo il beneplacito del suo volere». Così sia.