Omelia nella XXII domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 28 agosto 2022

Sir 3,17-20.28-29
Sal 67
Eb 12,18-19.22-24
Lc 14,1.7-14

Gesù ha un rapporto speciale con i banchetti: tante parabole hanno questa location! Molte volte fa del banchetto un segno del Regno di Dio, dell’amore fraterno, del perdono, della gioia, della festa… Gesù andava ai banchetti, partecipava, ne faceva addirittura il pulpito dell’annuncio del Regno di Dio. Talvolta, invitare Gesù al banchetto poteva essere compromettente o destabilizzante, come quella volta che Gesù era andato a casa del fariseo Simone ed era entrata la donna peccatrice; per noi è una scena bellissima di accoglienza, di riconciliazione e prospettiva di vita nuova, ma per il fariseo che aveva preparato il banchetto fu un momento veramente sconcertante. Così accade anche quando, nel Vangelo di Matteo, si racconta che Gesù va a casa di Levi, l’esattore delle imposte; fu un momento di gioia e di festa, ma suscitò infinite critiche: «Gesù va a mangiare con i peccatori… è un mangione e un beone!» (Mc 2,15; Mt 11,19). All’Ultima Cena Gesù interrompe il clima di festa pasquale e dice: «Prendete, mangiate questo è il mio corpo dato per voi… Prendete, bevete, questo vino è il calice del mio sangue» (cfr. Mt 26,26-28).
In uno di questi banchetti Gesù nota lo stile delle persone. C’è una strategia per cercare di andare nel posto più in vista: tutto questo non è altro che metafora della vita, dove si sgomita per avanzare di carriera, per avere i primi posti, per essere onorati. Addirittura, c’è chi arriva in ritardo, soprattutto le persone più importanti, per attraversare la sala, perché l’invitante faccia accomodare al primo posto. A Gesù certamente non interessa dare lezioni di galateo o norme per il buon vivere. Gesù parte dalla situazione reale che constata per fare un discorso più elevato: vuol dire qualcosa sul nostro modo di relazionarci con Dio. Gli invitati della parabola, infatti, rappresentano gli uomini nel loro rapporto con Dio. C’è chi esibisce il suo medagliere delle virtù: non ha bisogno di essere salvato, purificato e va orgoglioso davanti a Dio (cfr. Lc 18,9-14 la parabola del fariseo e del pubblicano). Invece dovrebbe ricordare le parole del Salmo di Davide, il Miserere: «Tu, o Dio, gradisci un cuore umile, che riconosce la propria povertà» (cfr. Sal 50). Ancor meglio, dovrebbe fare suo il Magnificat, dove la Vergine dice che Dio «abbassa i superbi, innalza gli umili» (Lc 1,52).
Consentitemi una digressione sulla virtù dell’umiltà. I maestri spirituali, pur precisando che si tratta di una virtù morale, quasi la annettono alle virtù teologali (fede, speranza, carità), perché è una virtù regolatrice del rapporto con Dio. L’umiltà ha tre caratteristiche.
L’umiltà è verità. Occorre prendere coscienza di quello che si è davanti agli altri e davanti a Dio: humus (terra) è la radice della parola “umile”. La condizione umana è di caducità e povertà con pregi e difetti: occorre sapersi accettare e accettare ogni fratello. Ci sono anche contraffazioni dell’umiltà, l’umiltà finta, che ci fa sminuire perché gli altri dicano che non è vero. C’è l’umiltà di chi non entra nel gioco, non accetta di rischiare per paura di perdere, perché inconsciamente vorrebbe vincere.
L’umiltà è dono, gratuità. Quando uno è umile è libero, non si ferma al parere degli altri su di lui e depone tutto quello che è zavorra: titoli, crediti, riconoscimenti. È semplicemente se stesso. In questa libertà gli è più facile essere dono, fare dono di sé.
L’umiltà è gratitudine. Quello che abbiamo l’abbiamo ricevuto. Il ringraziamento va alla nostra famiglia, alle persone che ci hanno plasmato. Hanno fatto quel che hanno potuto, con i loro difetti, ma ci hanno voluto, ci hanno pensato e fatto crescere. La gratuità è soprattutto quella di Dio, che «fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5,45). «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8).
Fin qui Gesù ha dato un insegnamento prendendo come paradigma “tu quando sei invitato”. Nella seconda parte Gesù dà insegnamenti “a te che inviti”. Gesù non vuole che tu faccia come fanno tanti, che chiamano le categorie più rassicuranti: fratelli, parenti stretti, amici importanti, vicini ricchi. Si riferisce ad una situazione che constatava al suo tempo, dove c’erano colazioni di lavoro, cene tra persone che avevano interessi comuni… Invece Gesù invita ad allargare la tua tavola. Nel linguaggio semitico, usato da Gesù, non si fa uso delle disgiuntive: le disgiunzioni sono espresse in maniera assoluta. «Non chiamare fratelli, parenti, amici, vicini ricchi, ma chiama…» significa: «Va bene che chiami fratelli, parenti, amici, vicini ricchi, ma non dimenticare le quattro categorie di persone che sono svantaggiate e possono mettere in imbarazzo: poveri, storpi, zoppi, ciechi (quelli che venivano scartati persino dal servizio liturgico!).
Sottolineo il valore della gratuità: le quattro categorie indicate da Gesù non possono contraccambiare.
Quando al banchetto ti metti all’ultimo posto, sia simbolo di uno stile della tua vita, il saper stare con gli ultimi. Proprio lì incontrerai Gesù, perché lui è vicino agli ultimi, ai poveri, a chi è in difficoltà per una strada sbagliata… Se ti avvicini col cuore a questi fratelli ti capiterà di incontrare Lui.
Gesù non ha niente contro il desiderio di progredire, di migliorare nell’ambito lavorativo o sportivo; non ha risentimenti contro “i primi posti”. Ma qual è il primo posto? Il primo posto è quello nel quale puoi amare di più. Tante volte coincide con l’ultimo posto sulla scena, ma in realtà è il primo. Andiamo a scoprire Gesù presente in quelli che noi chiamiamo “gli ultimi”.