Omelia nella festa di Sant’Andrea Apostolo

Caprazzino (PU), 30 novembre 2020

Rm 10,9-18
Sal 18
Gv 1,35-42a

Quando sono venuto tra voi per la Visita Pastorale ho dedicato una serata al Programma pastorale della Diocesi. Quel Programma era agli inizi, cominciava a configurarsi (il Vescovo non si mette a tavolino a scrivere il Programma: il progetto si costruisce insieme nei vari incontri diocesani). Perché un progetto? Non basta il fervore nella preghiera, praticare la carità, testimoniare la fede ed amare il Signore con tutto il cuore? No. È necessario che il pastore provi a tenere unite le “pecorelle”, per camminare tutti insieme verso una direzione. C’è il grande Programma della Chiesa che è l’Anno liturgico: ogni anno la Chiesa ci prende per mano e ci offre un percorso di spiritualità, di evangelizzazione, facendoci gustare la vita di Gesù e il suo “mistero”. Sempre più in profondità, come una spirale che si avvita. Vorremmo abbracciare tutto, tutto in una volta, tutto in un solo momento, il Signore Gesù, ma siamo sulla terra e dobbiamo svolgere e distendere il mistero della sua vita nel cerchio di un anno: questo è il Programma della Chiesa universale. Poi, c’è un altro Programma, quello che ci dà il Santo Padre papa Francesco: ci sta dicendo, ad esempio, che dobbiamo avere a cuore i più svantaggiati, i poveri. Lui ha il punto di vista di tutto il pianeta; parla tutti i giorni con personalità internazionali.
Anche la Diocesi ha il suo Programma pastorale e bisogna che le parrocchie cerchino di camminare in accordo con esso. Siamo partiti dalla constatazione che moltissimi sono cristiani senza aver mai deciso di esserlo. Siamo nati qui, ci hanno dato il Battesimo quando eravamo molto piccoli, ci hanno insegnato religione a scuola, abbiamo fatto la Prima Comunione e la Cresima… Ma abbiamo veramente incontrato Gesù?
Allora è scattato nella nostra Diocesi il bisogno di andare all’essenziale: credere in Gesù, vivo e risorto. Il nucleo incandescente del cristianesimo, del Vangelo, è che Gesù è risorto. Dodici uomini e un gruppo di donne che Gesù ha radunato attorno a sé hanno portato quel grido: «Gesù è vivo!». Se leggiamo il Vangelo in maniera disincantata vediamo che attorno a quella tomba vuota c’è tutto un movimento, un correre, un sussurrare e poi un proclamare ad alta voce: «È vivo!». Da allora il cristianesimo si è propagato in tutta la faccia della terra.
Abbiamo dedicato due anni a riconsiderare la risurrezione di Gesù e a farla nostra, a ricordarci che c’è un sacramento che ci fa vivere la risurrezione: il Battesimo. Dopo aver ricevuto il Battesimo possiamo dire con san Paolo: «Siamo morti tornati alla vita» (Rm 6,13). Così pensavano di sé i primi cristiani.
Quest’anno abbiamo sottolineato molto il tema della missione: annunciare Gesù, darci da fare, organizzare eventi… Poi è arrivato il Coronavirus e i nostri programmi, convegni, assemblee sono stati annullati.
Questa mattina, meditando la figura di sant’Andrea, ho notato in lui una forma di apostolato, di missione, adattissimo per questi giorni di distanziamento sociale: la missione “a tu per tu”.
Andrea – annota il Vangelo – è rimasto con Gesù in quel giorno benedetto del suo primo incontro; ha accolto l’invito: «Venite e vedrete». «È andato e ha visto» (v.39). Tutto è cominciato con quella giornata di intimità con il Signore.
Andrea non tiene per sé l’esperienza vissuta; ci furono molta luce e molta gioia per lui in quel giorno.
«Chi trova un amico trova un tesoro» (Sir 6,14): Andrea ha trovato il tesoro, la perla. Quella sosta dalla fatica di pescatore vale per lui più di una rete piena di pesci (cfr. Mt 13,44-47). Corre subito da suo fratello Simone (che Gesù chiamerà Pietro) per comunicare quello che ha vissuto e imparato: scatta una comunione d’anima. Con quali parole? Con quale grado di confidenza? Andrea ha lo slancio che vedremo nelle donne e nei discepoli il mattino di Pasqua. Non porta dei ragionamenti, non dice “verità astratte”, racconta di un incontro: «Abbiamo trovato il Messia» (v.41). Da una parte questo dimostra l’intensità dell’esperienza vissuta e dall’altra il suo entusiasmo.
Si direbbe che Andrea fosse preparato a questo incontro. Tutto lascia pensare che facesse parte di coloro – puri, semplici, aperti – che «aspettavano la redenzione di Israele» (cfr. Lc 2,38), come Anna, Zaccaria, Giovanni Battista, Giuseppe, Maria. Andrea frequentava Giovanni Battista; fu a causa della sua indicazione che si mise sulle tracce di Gesù. Potremmo pensarlo come uno di quegli “anawim” che attendono tutto dal Signore, “i piccoli” di cui parlerà Gesù (cfr. Lc 10,31; Mt 10,25,40, 42; ecc.).
Andrea è affettuoso: racconta tutto al fratello. La notizia dell’incontro, la novità, non passa come un verbale, ma scorre sui toni dell’affetto, della confidenza, dell’amicizia. Quanto sono importanti i rapporti! Davvero la missione è un atto di amicizia: è perché vuoi bene a quella persona e a quelle persone che le metti a parte della tua scoperta. Così Andrea presenta suo fratello Simone a Gesù.
Questa attitudine di Andrea ad essere “conduttore a Gesù” affiora altre volte nei Vangeli: quando porta a Gesù il ragazzo coi cinque pani e i due pesci (Gv 6,9), quando introduce presso Gesù i greci che desiderano incontrarlo (Gv 12,21-22).
Pietro si arrende e aderisce subito all’invito di Andrea: si fida di lui. Andrea è un missionario affidabile! Pietro è un impulsivo, lo si vede dai racconti evangelici, ma non è superficiale. Si fida di Andrea e basta!
È lecito immaginare che tra i due fratelli ci sia stato uno scambio di opinioni con domande e risposte. Alla fine, Andrea conduce Simone direttamente da Gesù: sarà il Maestro a parlare al cuore di Simone. È tipico del vero missionario non essere invadente e mettersi da parte come fanno, ad esempio, il Battista (cfr. Gv 3,30) e il diacono Filippo (At 8,39).
Andrea «guidò il fratello alla sorgente stessa della luce con tale premura e gioia da non aspettare nemmeno un istante» (Giovanni Crisostomo, Om 19,1).
Chiedo l’intercessione dell’apostolo Andrea perché faccia di ognuno di noi un missionario che conduce a Gesù. Possiamo fare tanto anche in questo periodo in cui non ci sono assemblee, convegni, raduni, catechesi pubbliche. Basta non avere paura di dire quella parola, di esprimere quel gesto affettuoso, quella carezza, o di compiere quel servizio nel nome di Gesù. Così sia.

Adorazione Eucaristica per le Vocazioni

Omelia nella I domenica di Avvento

Fiorentino (RSM), 29 novembre 2020

Ingresso del nuovo parroco don Achille Longoni

Is 63,16-17.19; 64,2-7
Sal 79
1Cor 1,3-9
Mc 13,33-37

Stiamo vivendo, pur nella trepidazione, una domenica speciale.
Inizio di un nuovo anno liturgico: i cristiani vorrebbero abbracciare lo Sposo, il Signore, tutto, tutto in una volta, tutti insieme, ma non è possibile quaggiù; il suo mistero è disteso nel tempo e ritorna ogni anno ciclicamente, come una spirale ascensionale.
Inizio dell’Avvento: quattro settimane che ci preparano a vivere il mistero del Natale del Signore e ci aiutano a mantenere viva la spiritualità dell’attesa.
Inizio di una stagione nuova per la liturgia: l’introduzione della nuova edizione del Messale Romano nella traduzione italiana; il nuovo Messale è il libro della preghiera che unisce tutta la Chiesa; è uno scrigno che contiene tesori di fede e di preghiera bimillenari; è in una veste nuova, perché il popolo di Dio è in cammino nel tempo e aggiunge nuove memorie e feste dei santi.
È un inizio particolare per Fiorentino, la parrocchia intitolata all’apostolo san Bartolomeo: l’ingresso del nuovo parroco, don Achille.
Compiremo insieme con lui alcune azioni che significano la sua presa di possesso: consegna delle chiavi della chiesa e del tabernacolo, imposizione della stola violacea al confessionale; introduzione al fonte battesimale e infine l’accompagnamento alla sede da dove il nuovo parroco presiederà l’assemblea. Il tutto viene preceduto dalla solenne rinnovazione delle promesse sacerdotali da parte di don Achille.

2.

L’evangelista Marco ci accompagnerà nel corso di questo anno liturgico. Oggi abbiamo letto una pericope presa dal capitolo 13. È una pericope (vv. 33-37) doppiamente importante.
È importante anzitutto perché chiude il discorso escatologico pronunciato da Gesù, concluso con un forte invito alla vigilanza ed alla perseveranza nell’attesa del suo ritorno. Per i lettori di Marco l’attesa ed il ritorno del Signore sono due parole dense di significato.
L’attesa. Pochi avevano visto Gesù Risorto, ma era una promessa per tutti: «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20).
Il ritorno evocava il rientro dall’esilio, ma il popolo si era domandato: «Il Signore è tornato davvero tra noi?». Nel momento dell’esilio gli israeliti avevano sperimentato la presenza del Signore, ma ora erano sconfortati per il quotidiano piuttosto deludente.
I versetti 33-37 letti poco fa sono una chiave di lettura per tutto il Vangelo ed una ouverture al racconto della Passione, morte e risurrezione del Signore. L’attesa del Signore e il suo ritorno, per chi crede (Marco è l’evangelista del catecumeno), hanno il loro compimento nella Pasqua di Gesù.

3.

Si capisce bene allora il peso del verbo che apre la pericope: «Guardate bene». Verbo che allude ad una sorta di illuminazione: se fate attenzione (sguardo di fede), sarete illuminati riguardo all’attesa e al ritorno del Signore. Il Signore tornerà anche se non sapete quando e come: lo dovrete scoprire. Ai suoi servi il padrone «ha lasciato la sua casa e ha dato pieni poteri, a ciascuno il suo compito» (cfr. Mc 13,34). Dovrà essere una fedeltà vigile. Sono elencati quattro momenti della veglia. Corrispondono esattamente al modo in cui i romani dividevano la notte. Potremmo ritrovare qui un riferimento alla Passione di Gesù: arrestato la sera (Mc 14-17), interrogato dal sommo sacerdote nella notte (Mc 14,60-62), rinnegato da Pietro al canto del gallo (Mc 14,72), interrogato da Pilato la mattina (Mc 15,1). Tutta la Passione ruota su queste quattro scansioni temporali.
Marco non fa nulla per attenuare lo “scandalo” della Passione: è proprio lì che si manifesta il Signore. Al centurione romano sarà affidata la professione di fede: «Veramente quest’uomo era figlio di Dio» (Mc 15,39).

4.

La nostra prima esperienza di Dio è la sua assenza: Deus absconditus. Vediamo segni ma lui non l’abbiamo visto (cfr. Gv 1,18): ne abbiamo nostalgia, «se tu squarciassi i cieli e scendessi» (Is 63,19). Ma quando? Gesù è tornato e torna nella sua risurrezione.
«Voi non conoscete il momento» (Mc 13,33). Vegliate se volete cogliere “il momento”. Rimanete sulle sue tracce. Lo riconoscerete nelle pieghe dei nostri giorni. L’evangelista adopera il termine kairòs per indicare il momento favorevole in cui riconoscere il Signore e incontrarlo là dove ci dà appuntamento. Potremmo domandarci: quali sono i segni della sua presenza nella nostra vita? Che cosa ci sta dicendo su quanto stiamo vivendo?
È decisivo per la vita cristiana cogliere l’appello e la presenza del Risorto. In ogni circostanza. In quelle difficili e dolorose ancora di più… sono quelle in cui riconoscerlo crocifisso! È bello imparare a dirgli: «Sei tu Gesù!».
Ancora una precisazione. Marco si serve dell’immagine dei servi che, in assenza del loro Signore, devono eseguirne gli incarichi. Ci parla anche di un portinaio che deve attendere, vegliando, l’arrivo del padrone. Il tempo dell’arrivo è ignoto agli uni e all’altro, ma l’attesa deve restare viva. I servi sono i discepoli che hanno ricevuto incarichi da Gesù da vivere nel servizio (cfr. Mc 9,35; 10,44): la casa appartiene al Signore!
L’opera del portinaio è di primaria importanza. Se il potere dato ai servi fa pensare ad una assenza che si protrae, invece la veglia del portinaio fa presagire un sollecito ritorno: praticamente ogni momento della notte potrebbe essere quello decisivo.

5.

«A ciascuno il suo compito» (Mc 13,34). Questa parola illumina quanto stiamo vivendo oggi: l’ingresso del nuovo parroco nella comunità di Fiorentino. A tutti è richiesto l’unico atteggiamento sensato ed opportuno: saper cogliere l’attimo della presenza del Signore che viene immancabilmente. Ma ci sono compiti diversi.
A voi, cari parrocchiani, viene chiesto di essere vigilanti da «cristiani nel mondo, laici nella Chiesa». Rileggo con voi qualche tratto della Lumen gentium (Vaticano II) sulla missione dei laici nel mondo. Si parte dalla dignità ricevuta nel Battesimo con l’esercizio delle prerogative regali, sacerdotali e profetiche proprie del cristiano. È «proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Essi vivono in mezzo agli impegni e alle occupazioni del mondo e dentro le condizioni ordinarie della vita famigliare e sociale di cui è intessuta la loro esistenza. Lì sono chiamati da Dio a contribuire dall’interno, a modo di fermento, alla santificazione del mondo, mediante l’esercizio della loro specifica funzione, guidati dallo spirito evangelico» (LG 31). Essere lievito nella pasta del mondo; animare le realtà temporali; consacrare il mondo…
A voi laici il compito di portare nella Chiesa le istanze del mondo: «Perché le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo» (LG 1).
Secondo il vostro compito siete all’interno della comunità non solo esecutori, ma collaboratori del vostro parroco. Vorrei dire di più: siete corresponsabili. Partecipate attivamente alla vita della parrocchia. Non tiratevi indietro quando viene chiesta partecipazione. Penso ai Consigli parrocchiali e ai tanti servizi: dalla catechesi alla liturgia, dalla carità all’animazione pastorale delle famiglie, dalla cura della gioventù alla custodia degli ambienti e della vostra chiesa.
E a don Achille, vostro parroco, dico: «Sii un “custode” premuroso nella “casa” del Signore. Sei stato posto da lui a vegliare su questo gregge».
«Fioriscano sempre in questa comunità, fino alla venuta del suo Sposo, l’integrità della fede, la santità della vita, la devozione autentica, la carità fraterna» (Messale Romano, Messa per la Chiesa locale, Post Communio). Siano questi i cardini della tua azione pastorale. Ti sono chieste competenze in proposito, ma soprattutto tanta prossimità e tanto cuore. Così sia.

Convegno Settore giovani AC

Iniziative Avvento famiglie 2020

Omelia nella XXXIV domenica del Tempo Ordinario

Solennità di N.S. Gesù Cristo Re dell’Universo

Pennabilli (RN), Cattedrale, 22 novembre 2020

Benedizione e consegna della Terza Edizione del Messale Romano

Ez 34,11-12.15-17
Sal 22
1Cor 15,20-26.28
Mt 25,31-46

Un saluto anche a tutti coloro che ci seguono in streaming e partecipano a questa liturgia solenne che avrà il suo momento culminante nella benedizione e nella consegna alle comunità cristiane della Diocesi della nuova edizione del Messale Romano.
Questa domenica, Solennità di Cristo Re, più di ogni altra è dominata dalla figura del Signore Gesù nella sua signoria, nella sua regalità. È una festa, quella di Cristo Re, istituita da non molto tempo per contestare il secolarismo invadente, le dittature, per richiamare alla coscienza dei cristiani la considerazione della trascendenza di Cristo. Egli è l’Altissimo («Tu solo l’Altissimo»), è la Luce delle genti (Lc 2,32), è il Re dell’Universo e di tutti gli sterminati mondi creati, conosciuti e sconosciuti, per i secoli eterni.
Che Cristo sia re lo affermiamo continuamente, sia nella proclamazione della Parola di Dio, sia nelle preghiere liturgiche. La Sacra Scrittura, la predicazione di Gesù, la Rivelazione, sono tutte intessute di metafore, esplicite o equivalenti, che trattano il tema della regalità. Sono metafore ed espressioni ricorrenti anche nei testi racchiusi nel Messale. Appena qualche rimando. Nel Credo diciamo: «E di nuovo verrà nella gloria a giudicare i vivi e i morti, e il suo Regno non avrà fine». Nel Padre Nostro una delle invocazioni è: «Venga il tuo Regno» e, nell’acclamazione successiva, «tuo è il Regno, tua la potenza e la gloria». Poi, nella conclusione delle orazioni, diciamo ogni volta: «Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio che è Dio e vive e regna con te». Quante volte! Ma spesso, abituati o distratti, non ci pensiamo. Di questa verità che ne sanno la nostra fede, la nostra preghiera, la nostra vita?
Ci aiuta la meditazione della Seconda Lettura; inizia così: «Se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo». Cristo, dunque, è il nuovo Adamo. Cristo è il nostro Re, il nostro Redentore! Notate: Cristo è nostro Re nella sua umanità. Delicatezza, sorpresa del disegno divino che vuole l’uomo salvatore dell’uomo, salvatore di se stesso e che, a tal fine, ha disposto che il Verbo eterno, il Figlio, si spogli della sua dignità e si faccia uomo: «Pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso» (Fl 2,6-11). Quel Gesù, che si è spogliato delle sue prerogative per assumere la nostra umanità e farsi povero, è il Re. L’umanità assunta dal Verbo è la via di mediazione stabilita per il ritorno al Padre dei figli dispersi (cfr. Gv 11,52). Dunque, c’è una mediazione umana esercitata in due modi: quello della lotta, della riduzione a nulla di ogni principato, potestà, potenza e della vittoria sulla morte, frutto del peccato, e quello della infusione di una vita nuova in coloro che sono con Cristo e di Cristo: «Coloro, infatti, che sono con Cristo e in Cristo, risorgono con lui». La stessa mediazione si esercita anche in due tempi: quello terreno, contrassegnato appunto dalla spoliazione di sé e dalla lotta, e quello celeste, quando Cristo, avendo sottomesso tutto a sé, consegnerà il Regno a Dio Padre. Allora «Dio sarà tutto in tutti». Tutto, tutti colmi della pienezza divina, beatificante, per sempre! Stupendo è contemplare e pregare il nostro Re, Gesù, re di cuori.
San Paolo, nella Prima Lettera ai Corinti, dice che tutto questo avverrà per la risurrezione di Gesù dai morti. Abbiamo dedicato anni a mettere al centro della nostra meditazione e del nostro impegno pastorale, il “Big Bang della nostra fede”, che è la risurrezione: «Cristo è risuscitato dai morti» ed è la «primizia di coloro che sono morti». Cristo è il primo anello di una catena, il capofila. Quanti sono con Lui e in Lui riceveranno la vita, costituiranno il Regno eterno che il Figlio presenterà al Padre.
Accogliamo la Vita: Cristo! Saremo risuscitati alla sua venuta, proprio perché siamo con Lui. Anzi – sentite cosa dice san Paolo in un’altra pagina delle sue Lettere – consideriamoci già dei «morti tornati alla vita» (cfr. Rm 6,13). Eravamo morti e abbiamo già cominciato la vita nuova, ma la nostra vocazione, la vocazione di ciascuno di noi, è quella di essere «sacerdoti e regno per il nostro Dio (Ap 1,6; 5,10)».
Chiediamoci: Cristo – che è il Re – regna in noi, regna nella nostra mente? È nostro il suo modo di pensare (cfr. 1Cor 2,15)? Se è il nostro Re, siamo Cristo-dipendenti!
Regna nel nostro cuore? È nostro il cuore di Cristo (Fil 1,8)?
Regna nei nostri sentimenti? Si agitano in noi, non i nostri, ma i sentimenti di Cristo (cfr. Fil 2,5)?
Regna nella nostra vita? Viviamo con noi stessi, oppure è Cristo che vive in noi (cfr. Gal 2,20; Col 3,4)? Chi vede noi, vede Cristo?
Regna nella nostra tensione missionaria? Il nostro vivere annuncia e genera Cristo (cfr. Fil 1,28)? «Bisogna che lui regni», così sta scritto nella Prima Lettera ai Corinti, soprattutto nei cuori.

In chiusura di questo anno liturgico – da domenica prossima inizierà un nuovo ciclo liturgico e si profilano nuove grazie, nuove suggestioni, nuove ricchezze spirituali – mi sento di fare un ringraziamento all’evangelista Matteo che ci ha preso per mano, ci ha accompagnati; in particolare è l’evangelista che ci ha dato messaggi forti su Gesù come re. Di Gesù ci ha ripetuto che è il «Dio con noi, l’Emmanuele», così ci riferisce dell’Annunciazione dell’Angelo a Giuseppe (Mt 1,23), così nel congedo del Risorto sul monte: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni…» (Mt 28,20). E soprattutto, nel cuore del Vangelo: «Dove due o più sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20).
In questa Solennità di Cristo Re san Matteo si congeda da noi con una pagina stupenda, che ora non posso commentare.
Sottolineo solo tre “effetti sorpresa” contenuti nel brano.

  1. Il contrasto fra la grande manifestazione (teofania), quando viene il Figlio dell’uomo sulle nubi e attorno a lui gli angeli, poi si siede sul trono della gloria, e davanti a lui vengono convocate tutte le genti. Di che cosa parla il Re celeste attorniato dalla corte splendente? Si richiama alle realtà più comuni del nostro vivere quotidiano: la fame, la sete, l’aver freddo, l’essere straniero, l’essere malato, l’aver sbagliato…
  2. Sorprende quando il Signore dice: «Io ho avuto fame, io ho avuto sete, io ho avuto freddo… ». Ci si aspetterebbe, essendo Gesù il giudice: «Essi avevano fame, essi avevano sete, essi avevano freddo…». Invece Gesù proclama che quelli sono carne sua: Lui si vede in loro. Dobbiamo considerare Lui in loro. È un esame difficile quello che fa e, nello stesso tempo, facile perché sappiamo tutte le domande.
  3. All’inizio il personaggio celeste viene chiamato Figlio dell’uomo, poi Re, poi appare come Giudice, alla fine si identifica con un piccolo: «… ad uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Si autoproclama un piccolo, un re in cerca di uomini!

Ringrazio per la vostra presenza. Accoglierete voi, a nome di tutti i diocesani, il gesto che farò tra poco: benedirò i volumi del nuovo Messale (una nuova edizione) e lo consegnerò simbolicamente ad ogni comunità eucaristica della nostra Diocesi. A partire dalla prima Domenica di Avvento (28 novembre) entrerà in uso sostituendo l’attuale. Questo in sintonia con le Diocesi dell’Emilia Romagna.
Il nuovo Messale è un dono di inestimabile valore, frutto di un accurato lavoro di traduzione (dal latino all’italiano), di arricchimento di testi, di aggiornamento di feste e memorie dei nuovi santi, di recente canonizzazione: mai come in questi cinquant’anni sono state fatte tante canonizzazioni di santi. Non ci stavano più nel Messale!
Il nuovo Messale è anche una grande responsabilità, perché esige nuova attenzione al modo di celebrare e di partecipare nello spirito del rinnovamento conciliare.
Presiedere, servire, partecipare alla liturgia è un’arte, ma più ancora uno stile che nasce “da dentro”!
L’aggiornamento e la nuova traduzione testimoniano come il Messale sia qualcosa di vivo che accompagna il santo popolo di Dio nel tempo. L’introduzione del nuovo Messale è un fatto che riguarda tutta la comunità e, direi, tutti (anche quelli che non vengono in chiesa), perché la liturgia ha molto a che fare con la missione evangelizzatrice della Chiesa.
Il Messale è lo scrigno che racchiude un tesoro immenso, patrimonio di duemila anni di fede e di preghiera, ma anche di audace e filiale esperienza di vita trinitaria: si prega rivolti al Padre, attraverso Gesù Cristo, nello Spirito Santo. Insieme!
Concludo con le parole di san Paolo: «Al Re dei secoli, incorruttibile, inviolabile, unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli! Amen» (1Tm 1,17).

Colletta Alimentare

COLLETTA ALIMENTARE 2020: CAMBIA LA FORMA, NON LA SOSTANZA

Quest’anno, date le condizioni di emergenza sanitaria, la Colletta Alimentare sarà realizzata in modalità “dematerializzata”.
Non sarà quindi possibile donare direttamente la spesa, ma si potrà partecipare acquistando una apposita card che verrà trasformata in cibo per Banco Alimentare.
E’ possibile acquistare la card del valore di 2, 5 e 10 euro:

  • sul sito collettaalimentare.it già da ora
  • alla cassa dei supermercati aderenti dal 21 novembre fino all’8 dicembre

Il valore complessivo di tutte le card acquistate online e nei supermercati sarà convertito in cibo non deperibile. Gli alimenti donati verranno distribuiti come sempre alle strutture caritative del territorio che assistono famiglie e persone bisognose, le quali ricevono in questo modo il conforto di un pasto o di un pacco alimentare.
Banco Alimentare pubblicherà sul proprio sito l’elenco dei punti vendita che partecipano alla Colletta cosicché ciascuno possa trovare quello più vicino dove recarsi.
Chi non potesse recarsi in un punto vendita o desiderasse fin da ora partecipare alla Colletta, può farlo acquistando la card online sul sito www.collettaalimentare.it

GRAZIE!

Comunicato degli Arcivescovi e Vescovi dell’Emilia Romagna

Bologna, 13 novembre 2020

Carissimi,
ci ritroviamo tutti di nuovo a dovere confrontare le nostre attività con questa grave ripresa della pandemia. Dobbiamo essere attenti al bene di tutti, del quale siamo responsabili e ridurre il più possibile le occasioni di diffusione del contagio.

Fino al 3 dicembre 2020 in Emilia Romagna sarà in vigore un’ordinanza secondo cui “i corsi di formazione, di qualunque genere o natura, organizzati da soggetti sia pubblici che privati, possono svolgersi solo con modalità a distanza”.

Pertanto, fino al 3 dicembre, è possibile svolgere in presenza gli incontri di catechesi per l’iniziazione cristiana dei bambini e dei ragazzi, ottemperando scrupolosamente tutti i requisiti richiesti, cioè osservando i protocolli già noti ed evitando assolutamente incontri senza il distanziamento necessario.
E’ conveniente sospendere gli incontri in presenza di catechesi e formazione dalla secondaria di secondo grado in poi, preferendo in questa fase la modalità on line. Nel caso si continui in presenza è necessario che siano ottemperate rigorosamente tutte le condizioni di sicurezza, tenendo gli incontri in ambienti grandi come ad esempio le chiese, con il rispetto dei requisiti richiesti dal Protocollo d’intesa con la Confessione Cattolica del 7 maggio 2020 e successive integrazioni, come mascherina igienizzazione personale e dei luoghi, distanziamento, posti assegnati.
Queste disposizioni sono in vigore dalla data odierna.
Ringraziamo i presbiteri, i diaconi i religiosi e le religiose e in particolare i catechisti ed educatori che continuano in questa situazione così difficile a prendersi cura della crescita nella fede dei più piccoli.
Come avvenuto nei mesi passati non mancherà la creatività che permette di garantire il legame e la formazione anche a distanza, anche assistendo da remoto le famiglie che con noi sono responsabili della trasmissione della fede ai loro figli.
Siamo certi che con unità e perseveranza sapremo aiutare a sconfiggere la pandemia. Il Signore protegga tutti e doni guarigione a chi è colpito dal virus.

Gli Arcivescovi e Vescovi dell’Emilia Romagna

Omelia nella XXXII domenica del Tempo Ordinario

Perticara (RN), 8 novembre 2020

Festa di San Martino

Sap 6,12-16
Sal 62
1Ts 4,13-18
Mt 25,1-13

È un racconto di nozze rocambolesco: c’è molto movimento. I personaggi fanno tutti una “magra” figura, compreso lo sposo: come si fa ad arrivare alla festa così tardi? Brutta figura fanno le damigelle del corteo, che si addormentano. Brutta figura fa una parte di loro che sbadatamente non ha preso l’olio per alimentare le lampade. Altrettanto le altre cinque che, alla richiesta di aiuto, rispondono: «Andate a comprarvene». Poi quella porta che si chiude, sprangata, e le parole finali: «Chi siete? Io non vi conosco». Tali parole ricordano quelle di Pietro che, durante il processo a Gesù, a chi gli dice: «Anche tu sei di quelli… la tua parlata ti tradisce», risponde: «Io? Non conosco quell’uomo» (cfr. Mt 26,72-73). Come mai ci sono risvolti così poco edificanti in questa parabola? Gesù vuole la nostra attenzione, vuole creare interesse: c’è in ballo un annuncio decisivo.
Un elemento importante della parabola è l’olio delle lampade. L’olio è segno non solo di qualcosa di simbolico, ma anche di ciò che dev’essere acquistato a caro prezzo, con la fatica quotidiana e la laboriosità. Molto significativo per illuminare questa parabola (c’è solo nel Vangelo di Matteo) è l’ultimo brano del libro dei Proverbi, quello dedicato alla “donna forte”. L’inno dice che la donna è soddisfatta perché i suoi affari vanno bene e aggiunge: «Non si spegne mai, né di giorno né di notte, la sua lampada» (Prv 31,18). Probabilmente l’evangelista Matteo pensava proprio a questa donna del libro dei Proverbi; una donna che si alza di buon mattino e va tardi a dormire, che pensa al bene del marito, dei figli e anche a quello dei poveri, che compra i beni più preziosi, come i tappeti e la porpora, e li conserva con parsimonia. Questa donna, a parere di molti studiosi della Bibbia, è figura della sapienza stessa, è la Sapienza personificata, mentre l’olio conservato nella sua lampada è il concentrato di questa capacità sapienziale di gestire la vita. La sapienza non è una cosa che si fabbrica e nemmeno che si trova per strada, ma va ricercata con pazienza e con tenacia, nel posto giusto e al tempo opportuno. Ecco perché le vergini sagge dicono: «Andate piuttosto dai venditori e compratevene». Le sagge, infatti, sono tali perché mettono in atto le regole della sapienza, che è sempre attiva e concreta. In altre parole, abbiamo un’idea simile a quella della parabola che chiude il primo discorso di Gesù, il discorso della montagna, con il binomio saggezza/stoltezza. L’uomo sapiente è quello che costruisce la casa sulla roccia, quello stolto è quello che costruisce sulla sabbia (cfr. Mt 7,24-27). Ecco allora il grande invito che ci viene dal Vangelo oggi: essere in attesa del Signore che viene all’improvviso, nutrire la lampada. La lampada è simbolo della saggezza che oggi ha il nome della speranza. Come Diocesi quest’anno ci siamo dati come programma la missionarietà, l’essere testimoni. Nel momento della elaborazione del programma come slogan che trasmetta questa idea è stato scelto: «Essere speranza in un mondo ferito». Essere speranza, farci speranza, tenere accesa questa lampada, in famiglia, attorno a noi, con le persone che incontriamo. Mi colpiscono altri dettagli nella parabola. Gesù dice: «Il Regno di Dio è simile a dieci ragazze nella notte…». Quelle dieci ragazze siamo noi, chiamati a mantenere viva nelle nostre relazioni la speranza. Cosa c’è di più fragile di dieci ragazze nella notte? Il Regno di Dio è apparentemente una cosa fragile, come siamo noi, non è eclatante, non attira sguardi. Gesù l’ha paragonato anche ad un seme caduto per terra, a buon grano insidiato dalla zizzania, ad un tesoro nascosto. Ecco la speranza, una lampada con la quale raccontiamo il Signore che non ci abbandona e «che viene». Viene con la sua grazia, viene nella sua Parola, viene nei Sacramenti. L’olio che nutre la speranza è la preghiera, è l’ascolto della Parola, è soprattutto l’Eucaristia. Vi auguro di essere lampade che ardono, lampade viventi della speranza.

Omelia nella XXXIII domenica del Tempo Ordinario

Scavolino (RN), 8 novembre 2020

Giornata del Ringraziamento

Pr 31,10-13.19-20.30-31
Sal 127
1Ts 5,1-6
Mt 25,14-30

C’è un padrone che parte per un lungo viaggio. Ritornerà. Prima di partire affida ai suoi servi i tesori più grandi. L’evangelista Matteo è molto meticoloso quando parla di monete e di denari (faceva l’esattore delle imposte, quindi è piuttosto esperto!). Parla di una fortuna iperbolica che il padrone dà ai suoi servi. Il talento non è una moneta, ma un’unità di misura: un talento equivale a circa a 30/40 chilogrammi di oro (l’equivalente di vent’anni di lavoro!). Il padrone dà cinque talenti ad uno, due talenti ad un altro ed un solo talento ad un terzo servo. Otto talenti sono almeno 250 chilogrammi di oro: pensate che fiducia, che stima e che coraggio ha quel padrone!
Dopo molto tempo – dice la parabola – il padrone tornò. Il genere letterario “parabola” contiene esagerazioni volute dal narratore per attirare l’attenzione, per provocare. A volte Gesù dice: «Che ve ne pare?». E trapunta le parabole con questo interloquire diretto; vuole che si partecipi, ci si stupisca, ci si indigni persino!
Usciamo dalla parabola. Entriamo nella vita. Ci sono tre modi di leggere la parabola. Nel primo modo ci si ferma sul talento. La parola “talento” viene a significare le qualità di una persona: questa è la lettura esistenziale. Allora si dice che bisogna non sprecare i propri talenti. C’è, poi, una interpretazione ecclesiale: il signore che è partito per il lungo viaggio è Gesù e i servi siamo noi, la Chiesa. Che ne facciamo dei doni e delle responsabilità che ci ha affidati? Inoltre, c’è un’interpretazione escatologica, proiettata sul futuro: quando il Signore ritornerà vi sarà un giudizio: come abbiamo vissuto il tempo dell’attesa?
L’ultimo dei servi si dimostra in difficoltà con la sua fede. Ha paura di Dio e glielo dice con schiettezza: «Tu sei un uomo duro, raccogli dove non hai seminato, io ho avuto paura… Non mi è rimasto altro che sotterrare il talento che mi hai dato, l’ho lasciato sottoterra, ora te lo riconsegno. Non ho rubato!». Il padrone risponde che ha fatto troppo poco… Ed è seccato che quel servo abbia un’idea così sbagliata di lui. Quel padrone, prima di andare via per il suo viaggio, ha lasciato tutto. Ha avuto una grande fiducia. C’è poi un dettaglio importante: egli ha lasciato ad ognuno secondo le capacità. Non ha pretese; sa chi ha spalle per fare di più e chi è più gracile, come l’ultimo servo, al quale non impone un peso e una prova al di sopra delle sue forze. Nel cantiere della vita ognuno di noi deve sentire tutta la stima, tutta la fiducia di Dio Padre. Capita anche nei rapporti tra noi: se diamo fiducia ad una persona, se la stimiamo, quella persona si apre, sboccia, cresce. Ma se non le diamo fiducia, non crediamo alle sue possibilità, come fa quella persona a credere in se stessa? Chi fa il maestro, chi è datore di lavoro, chi è una persona di riferimento istituzionale deve dare fiducia per far sbocciare pienamente le persone che gli sono affidate. Un po’ come avviene alle piante.
Questa parabola è adattissima alla Giornata del Ringraziamento che celebriamo oggi. La tentazione è di lasciare a riposo la Creazione. Il Signore ci ha affidato la Creazione per farla germogliare e crescere. In questo momento difficile la preghiera ci aiuta ad essere forti, intraprendenti, caritatevoli, fraterni. Ma dobbiamo credere nella scienza e nelle capacità che il Signore ci ha dato. Ci ha dato cuore, intelligenza e mani giunte. Tutt’e tre sono indispensabili. Non credo che basti fare processioni per fermare il contagio; si deve studiare per trovare l’antidoto: non lasciare a riposo la Creazione. Il Signore vuole che collaboriamo con lui.
Il Santo Padre papa Francesco ci richiama continuamente ai grandi temi della “casa comune” e della fraternità. Ci parla di “ecologia integrale”, di “mistica della fraternità” e di “sviluppo sostenibile”.

  1. Ecologia integrale, nella quale si uniscono la bellezza del territorio e i legami sociali: la terra è la “casa comune” e l’umanità la grande famiglia dei popoli. Ci sono tre “no” che dobbiamo dire: no agli sprechi e alla dispersione; no alle disuguaglianze; no all’inquinamento. Senza acqua non c’è futuro. «L’acqua – dice il Papa – per molti è un bene inesauribile, ma non è così. L’acqua non è inesauribile».
  2. Mistica del vivere insieme: fare della fraternità universale la forma autentica della socialità. Quindi accoglienza e reciproca integrazione delle differenti culture.
  3. Sviluppo eticamente sostenibile, con scelte coraggiose e innovative, non soltanto sul piano tecnologico e gestionale, ma soprattutto sul piano sociale e politico.

Dopo questo incontro rinnovo con voi l’impegno nel campo educativo. Che le nostre parrocchie, i nostri gruppi, sappiano educare alla giusta consapevolezza delle sfide del tempo presente e a nuovi stili di vita.