Festa del Castello di Domagnano

Omelia Mons. Andrea Turazzi
At 12,1-11
Sal 33
2Tm 4,6-8.17-18
Mt 16,13-19
E’ festa grande per la vostra comunità ed io vi faccio tanti auguri.
Davanti a me c’è lo staff della festa. Questa sera dovete mettere tanti germi di bontà e di amore: a questo serve la festa vissuta da voi. Colgo l’occasione della festa dei Santi Pietro e Paolo anche per dare un annuncio: la nostra diocesi di San Marino-Montefeltro, insieme alle altre sei diocesi della Regione Emilia Romagna, andrà in pellegrinaggio a Roma per incontrare Papa Francesco nel prossimo Ottobre.
E’ suggestivo per la nostra vita spirituale ripercorrere l’itinerario dell’apostolo Pietro. Propongo di fissare l’attenzione su tre momenti.
Il primo: Pietro è sulla barca che ha ritrovato la sua navigazione sull’acqua del lago ormai placata dalla burrasca. In lontananza Pietro e gli altri apostoli vedono Gesù che avanza camminando sull’acqua. Non è un fantasma, ma Pietro non si fida: «Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque». E Gesù disse: «Vieni» (cfr. Mt 14, 28-29). Pietro scende dalla barca e si incammina. Poi comincia a sprofondare e grida: «Signore, salvami!». La sua fede, nel bisogno e nel pericolo, si fa preghiera. E’ una fede piccina quella a cui si ricorre nei momenti difficili? Al Signore va bene anche questa. Non diciamo più, per giustificare il nostro disimpegno: è troppo comodo gridare a Dio quando si è nel bisogno. Sottrarsi alla preghiera, in questo caso, è una forma velata di orgoglio.
C’è poi, nell’itinerario spirituale di Pietro, l’atto di fede più maturo, quello suggeritogli dal Padre: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (cfr. Mt 16, 16). Qui, Pietro è, per così dire, portato ad affermare qualcosa di più grande di lui, l’obbedienza ad una professione di fede di cui si assume la responsabilità.
Infine, vorrei fermare la mia e la vostra attenzione su un’altra tappa del suo cammino. Gesù, il Risorto, è apparso agli Apostoli sulle rive del lago. Dopo la pesca prodigiosa, Gesù ferma il suo sguardo su Pietro e chiede: «Mi ami?» (Cfr. Gv 21, 16). Meraviglia considerare come Gesù Risorto, dopo il passaggio dalla Passione alla morte, dopo l’esperienza della discesa agli inferi e il ritorno al Padre, vada in cerca dell’amore di Pietro: «Mi ami?». Gesù avrebbe potuto “raccontare” ai filosofi e a coloro che indagano su queste cose i misteri dell’aldilà e, invece, torna a chiedere all’amico: «Mi ami?».
Per Pietro scocca l’ora di un’adesione personale e totalmente fiduciosa all’amore di Gesù: «Signore, tu sai tutto; tu sai che io ti amo» (cfr. Gv 21, 17).
Dal grido nel momento del pericolo, all’obbedienza di fede, al sì definitivo: crede, spera, ama!

 

 

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi nella veglia di preghiera per e con i politici

Chiesa dei Santi Pietro, Marino e Leone di Murata, 21 giugno 2014

Gv 13, 1-17

Accade spesso che la parola servizio venga legata al sentimento della tristezza; invece è la gioia la prima caratteristica del servizio: «Il Signore ama chi dona con gioia» (cfr. 2Cor 9, 7).
Anche se il contesto di questa preghiera ci riporta alla fine tragica di una persona molto generosa come San Tommaso Moro e la memoria della Lavanda dei piedi è nel contesto dell’Ultima cena di Gesù, tuttavia vogliamo considerare il servizio come una parola di Vangelo, cioè una parola di gioia (il Vangelo della gioia o la gioia del Vangelo).
Sgombrato il campo da questo “equivoco”, entriamo nella situazione che sta vivendo Gesù la sera della sua Ultima cena. E’ scoccata la sua ora. Colgo due piccole suggestioni. La prima: «è giunta l’ora»; è il momento in cui Gesù raccoglie tutti i suoi insegnamenti, sintetizza tutta la sua vita e sta per consegnare il suo testamento. Quello che sta dicendo è la cosa più importante. Sembra quasi dire “dimenticate tutto, ma questa cosa non dimenticatela”, perché è la mia vita.
La seconda suggestione: «è giunta l’ora nella quale il Padre mi glorificherà»; è il momento in cui il Padre gli dona la sua gloria, gli dona il suo potere. Ma qual è il potere di Gesù? Qual è il momento della sua intronizzazione? Il momento in cui lava i piedi ai suoi discepoli.
Ecco il potere di Gesù: il potere di servire. Gesù ci dà l’esempio. Lo vediamo inginocchiato davanti ai discepoli nell’atto di lavare i loro piedi. E’ un gesto forte di servizio; era infatti il compito dello schiavo, l’ultimo della casa.
E’ un esempio da imitare, perché Gesù dice: “Fate anche voi come ho fatto io”.
Queste sono tra le ultime parole che ha detto. Ci coinvolgono. Coinvolgono proprio noi che siamo qui, sia le persone credenti sia quelle di altra convinzione (che ci onorano della loro presenza). E allora, coerenza vuole che ci laviamo i piedi l’un l’altro. E’ ovvio, non si tratta di riprodurre il gesto alla lettera, ma domandiamoci: siamo disposti a lavare i piedi, a metterci sinceramente in relazione di servizio con chi ci passa accanto con i suoi problemi concreti, con la sua povertà, con la sua fragilità? C’è la politica grande, statale, ma c’è anche il rapporto quotidiano con chi ci è più prossimo.
Gesù ci chiama al servizio.
Esistono servizi sociali, associazioni politiche e umanitarie, forme organizzate di volontariato. Essi stanno a ricordare a noi cristiani che non siamo per forza tra i migliori o migliori degli altri.
Qual è la modalità di servizio che chiede Gesù? Gesù chiede di fare come ha fatto lui, chiede di assumere il suo essere totalmente “fuori” di sé, il suo essere totalmente donato per servire l’uomo, tutto l’uomo. Gesù chiede di continuare la sua incarnazione anche oggi per l’uomo d’oggi. Questa è la forma della politica.
Poi c’è il mistero di Giuda. Giuda tradisce la fiducia posta in lui, passa sopra ad ogni scrupolo, mercanteggia… verrebbe da dire “come è possibile?”, Giuda è stato con il Maestro per tre anni, ha mangiato con lui, era entusiasta di lui, ha avuto compagni di viaggio uno più generoso dell’altro… La tentazione è sempre in agguato. Accade che si metta a tacere la coscienza, che allo spirito di servizio subentri l’avidità e all’ideale la corruzione. La corruzione politica esiste, almeno come accusa; è un fenomeno doloroso. Allora noi siamo chiamati a metterci di fronte a questa realtà con spirito evangelico. Come va combattuta? Non dobbiamo aver la pretesa di una società assolutamente perfetta… è utopica, per far riferimento ad un libro scritto da San Tommaso Moro intitolato: Utopia. Però chiediamo un impegno rinnovato per contrastarla. Non ci si può esonerare dalla denuncia del male, soprattutto quando danneggia gli altri, quando ferisce la verità, quando opprime l’innocente e con arroganza calpesta i diritti altrui. Anche la neutralità, in certi casi, è complicità.
E’ sbagliato anche l’atteggiamento di chi pensa che tutti siano corrotti – non è vero, tutti conosciamo carissimi amici che si comportano con rettitudine, per i quali nutriamo stima e riconoscenza. A parte che Gesù ha detto «chi è senza peccato, scagli la prima pietra» (cfr. Gv 8,7). In quella circostanza se ne andarono tutti.
Credo sia pericolosa la forma indiscriminata di critica che genera fatalismo e rassegnazione. E’ importante, a questo proposito, usare un linguaggio attento, serio, non irresponsabile.
Infine vorrei cantare – se fossi capace – i verbi (ben sette) che descrivono minuziosamente l’atteggiamento di Gesù Servo con tutta la simbologia che vi sta dietro: si alza da tavola, depone le vesti, prende un asciugatoio (l’attrezzo che connota il servitore), se lo cinge, versa acqua (per purificare), comincia a lavare, asciuga.
Il servizio comporta dedizione fino alla dimenticanza di sé (in vista del bene). Nel servizio c’è sempre un aspetto di gratuità, intesa come atteggiamento del cuore – anche se, nel caso della politica, la persona va remunerata – e si guarda al raggiungimento della giusta causa anche se c’è da fare un passo indietro, da non far comparire la propria firma, purché vada avanti l’ideale. E poi, quando si è fatta la propria parte, si esce di scena, si ha il coraggio di dire: “missione compiuta”, “servi inutiles sumus”(cfr. Lc 17,10). Certo, chi riceve una delega, ha una responsabilità in più. Inoltre, bisogna mettere in conto, insieme al sacrificio, la possibile ingratitudine. Ma – riprendendo ciò che è stato detto all’inizio – è bello pensare al servizio come gioia, perché un servizio intelligente è sempre fatto “a corpo”, insieme.
Allora, stasera, accogliamo le parole di Gesù: «Avendo amato i suoi, li amò sino alla fine» (cfr. Gv 13, 1). L’amore chiama amore.

Corpus Domini – Prime Comunioni

Santuario della Madonna delle Grazie di Pennabilli

22 giugno 2014

Dt 8,2-3.14-16
Sal 147
1Cor 10,16-17
Gv 6,51-58

Cari ragazzi, immaginiamo che il Signor Sindaco metta all’ingresso della città di Pennabilli un grande cartello pubblicitario con scritto “venite tutti, gratuitamente si offre pane che dà giovinezza e vita, si regala vino che dà salute”. Come è facile intuire, arriverebbero in tanti. Perché allora, quando la domenica suonano le campane che ci invitano a venire all’altare, non siamo così tanti? Oggi siamo tantissimi e facciamo molta festa a voi, ragazzi, perché oggi voi ci fate ritrovare l’entusiasmo e la fede che su quell’altare bianchissimo, rovente, che scotta dell’amore di Gesù, Lui si fa presente nel pane. Con il vostro fervore, con la vostra compostezza, con la vostra fede ci fate riscoprire la bellissima verità che Gesù si dona per noi. Vi racconto un fatto. C’era una signora che aveva un marito molto importante, che aveva fatto carriera ed era stato eletto in Parlamento. Aveva lasciato la sua casa e vi faceva ritorno prima ogni mese, poi ogni due mesi e poi sempre più di rado. La signora brontolava molto per la sua assenza, ma lui aveva tanti impegni e ormai non aveva più il tempo neppure per telefonarle. Un giorno la sua carriera politica finì. Non venne più rieletto e fece ritorno a casa. Mentre tornava si chiedeva tra sé come avrebbe reagito sua moglie. Chissà se l’avrebbe riaccolto o se l’avrebbe preso a schiaffi come avrebbe meritato – meditava tra sé. Infine arrivò davanti al suo palazzo, suonò il campanello e il portone si aprì. Salì le scale e arrivò sul suo pianerottolo. Vide la porta di casa socchiusa e sbirciò dalla fessura. Vide la tavola apparecchiata per due. Quasi stava per andarsene, pensando che la moglie, in sua assenza, si fosse trovata un altro compagno, e invece lei comparì, lo abbracciò e mentre lui cercava di sottrarsi, ritenendosi indegno, lei gli confessò che non aveva mai smesso di apparecchiare per due. Ebbene, anche Gesù non smette mai di apparecchiare, anche quando siamo incoerenti, anche quando ci dimentichiamo di lui. Quando veniamo alla Messa ricordiamo sempre che in chiesa non ascoltiamo il racconto di un evento avvenuto tanti anni fa, ma viviamo “in diretta” il racconto, ogni volta il racconto accade realmente. Il sacerdote non è più don Andrea o don Maurizio, ma è Gesù; per questo motivo il celebrante indossa vestiti particolari, per aiutare la nostra fede. Ad un certo punto della Messa, il sacerdote prende il pane e pronuncia parole che sono la dichiarazione d’amore più coinvolgente che si possa pensare: “Prendete e mangiate, questo è il mio corpo dato per voi”. Esiste una dichiarazione d’amore più grande di questa? Credo proprio di no. E sull’altare – anche se i vostri occhi non vedono – accade quello che dice il racconto. Mi viene in mente un paragone tratto dal mondo dei computer. Quando state scrivendo al computer e volete passare ad un altro file, potete mettere da parte il file su cui stavate scrivendo riducendolo “ad icona”: il file viene sintetizzato in una piccola immagine alla base dello schermo. Poi, se premete sull’icona, il file si riapre istantaneamente e completamente. Quando il sacerdote pronuncia le parole della consacrazione, è come premere sull’icona: si realizza, si apre, accade il racconto e noi diventiamo contemporanei di Gesù durante l’Ultima Cena, quando prese il pane, lo spezzò e lo diede agli amici. Quel gesto stava a significare che era proprio il suo corpo sulla croce che veniva dato per noi, perché Egli stava dando la sua vita per noi. Voi potreste obiettare che si continua a vedere solo del pane e del vino sull’altare…cos’è che è cambiato? Immaginiamo di passeggiare per le vie di Pennabilli e di osservare i giardini. Si vedono delle rose stupende. Se ne recidiamo una e ne facciamo dono, la rosa rimane sempre la stessa, ma ha cambiato il suo significato, è cambiato il suo fine. Se vostro papà la dona alla vostra mamma, quella rosa dice l’amore. Non è più soltanto una rosa. Quella rosa, in mezzo a tante altre, recisa, offerta, sta a significare amore. Così pure, in questi giorni, ci stiamo organizzando per la partita della Nazionale. Se andiamo in merceria e compriamo un pezzo di stoffa bianca, un pezzo di stoffa rossa e una verde, e poi li attacchiamo insieme, che cosa rappresentano? L’Italia. Qui c’è molto di più, perché in quel pane spezzato abita Gesù. Vi auguro allora che possiate fare un bel colloquio con Gesù e che anche noi adulti, aiutati da voi, possiamo vivere un incontro bellissimo con il Signore Gesù. Faremo un grande silenzio, perché può succedere che Lui, con parole dolcissime, vi faccia capire tutto il suo amore.

Corpus Domini

San Marino, 19 giugno 2014
Omelia del Vescovo S.E. Mons. Andrea Turazzi

Mi sono commosso durante il recente incontro del Presidente dell’Italia con le autorità, i cittadini e le istituzioni della Repubblica di San Marino.
E’ accaduto durante il brindisi durante il quale il Presidente ha pronunciato queste parole: “Nel ricambiare i voti augurali che mi sono stati rivolti desidero esprimere la mia viva soddisfazione per essere qui con voi oggi”. Poi proseguiva: “La vista che spazia ampia da questa splendida vetrata induce a guardare con speranza al futuro, ad un orizzonte più ampio di cooperazione”.
Effettivamente lo spettacolo che si apriva davanti al Presidente e agli ospiti dalla grande Sala (al piano superiore) quella mattina era splendido: nubi, squarci di sole, pennellate di azzurro, suggestivi orizzonti sul Montefeltro.
Il pensiero è corso immediatamente ad un midrash sul Salmo 8 («O Signore Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra…»), uno tra i più belli del Salterio. Il midrash racconta la domanda del discepolo e la risposta del maestro: “Perché il poeta nel proclamare la magnificenza della creazione elenca creature notturne come la luna e le stelle e non nomina il sole?”. “Perché Davide – risponde il maestro – compose questo salmo di notte, allorché fu risvegliato dal suono leggero dell’arpa, accarezzata dalla brezza notturna che penetrava dalla finestra. Fu allora che Davide si affacciò e fu ispirato dalla meraviglia della notte d’ Oriente”. A questo punto sorprende la conclusione, del tutto inattesa: “Quando compri una casa o prendi una casa in affitto, prendila con finestre grandi”.
Fuori di metafora: la finestra grande allude alla naturale apertura (predisposizione) del nostro essere verso l’Infinito, verso l’Assoluto. Un’attitudine che, a volte, si esprime in una pacata adesione, altre volte nell’inquietudine del cuore che sembra non trovare pace.
Cari fratelli e sorelle, oggi siamo di fronte al più grande degli orizzonti, siamo di fronte al mistero di “un Dio di pane”. Pane e vino nel quale il Signore Gesù, risorto, si dona; si cela e si manifesta ad un tempo.
Ha scelto la forma più sconcertante e più eloquente per assicurarci la sua presenza. Sconcertante per la piccolezza del segno (un frammento di pane e poche gocce di vino), eloquente per l’universalità del suo significato (cibo e bevanda).
Oggi siamo richiamati a rinnovare insieme, come popolo, l’atto di fede e di omaggio all’Eucaristia, presenza vera, reale, sostanziale del Risorto che, nell’ammirabile conversione della sostanza del pane e del vino nella sostanza del suo corpo, sangue, anima e divinità viene immolato e si offre sull’altare per mano dei sacerdoti. Sublime la missione di noi sacerdoti!
Cari fratelli e sorelle, quale è il significato di questa celebrazione nel giorno del Corpus Domini? Anzitutto, rispondere alla nostra prima e fondamentale vocazione, aprendoci con l’obbedienza della fede all’invito del Signore.
Aggiungo: rimettere in discussione la nostra autosufficienza e presunzione che ci appiattiscono sui nostri piccoli orizzonti. Talvolta, vengo colto anch’io da un brivido di fronte al paradosso della fede: la sproporzione fra il nostro orgoglio e l’umiltà di un Dio che si fa “di pane”.
Non è ammissibile accondiscendere a pensieri di fuga e di rinuncia, alla mediocrità o al disimpegno di fronte ad un Dio che si fa così prossimo e così vicino (indimenticabile il ricordo del tabernacolo nella mia Chiesa tra i calcinacci dopo il terremoto di due anni fa nell’Emilia).
Il sacramento dell’Eucaristia ci abitua e ci educa a risalire, oltre il visibile, all’Invisibile; ci educa a fissare lo sguardo sulla sostanza delle cose e degli eventi (non alla superficie), a resistere alle mode, sfidando questa diffusa antropologia a ribasso; ci educa pure a cercare in ogni circostanza il significato profondo e la finalità ultima, cioè a praticare il giudizio.
Ecco, l’altare e la piazza; altare e piazza diversi ma attraversati e collegati da una stessa parola: “Prendete e mangiate, prendete e bevete è il mio corpo, il mio sangue dato per voi. Fate questo in memoria di me”. C’è una dichiarazione d’amore più coinvolgente di questa? In quella preposizione “per” è racchiuso il senso dell’esistenza.
Dall’altare sprigiona e si alimenta lo stile di vita caratterizzato dal dono di sé, da giocare e da spendere nella complessità del nostro tempo e dei nostri rapporti.
In conclusione: “Volete andarvene anche voi? – “Signore da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna” (Gv 6, 67-68).

 

Festa di Sant’Antonio da Padova Monastero di Sant’Antonio in Pennabilli,

13 giugno 2014

1Re 19,9.11-16
Sal 26
Mt 5,27-32

Chi non desidera la sapienza e che altro è, se non il gusto, il sapore che rende “salata” ogni azione, ogni parola, ogni rapporto? Se uno trova questo “sapore” che condisce le sue giornate è davvero fortunato. Scettri, troni, ricchezze, gemme di valore inestimabile, oro, salute, bellezza, lucentezza… non sono paragonabili al suo valore, sono tutte cose che non riempiono il cuore. Il cuore, il nostro cuore, vuole molto di più! E’ di questo che oggi ci si dovrebbe preoccupare.
Fuori di metafora: c’è una sapienza che dà senso al nostro vivere; sempre, anche quando prendiamo coscienza della nostra fragilità. Anzi tutto potrebbe venirci a mancare, compreso ciò che sembra dare solidità. Solo se c’è questa sapienza restiamo veramente saldi, ben piantati sulla roccia. «Tutto è vanità», ci insegna il Qoelet; «all’infuori che amare e servire il Signore», ci ripetono i grandi maestri della spiritualità cristiana. Infatti, questa sapienza non è altro che il Verbo di Dio a noi comunicato: «Nel quieto silenzio che avvolgeva ogni cosa, mentre la notte era a metà del suo corso, il tuo Verbo è sceso dal trono regale» (Sap 18, 14-15). Allora questa sapienza ha un nome: Gesù! Capisco sant’Antonio che insegnava a “chiedere Dio a Dio”.

Qui, stando in preghiera con voi, nostre sorelle, ci sovviene la testimonianza di Santa Teresa di Lisieux. Non reggeva all’esuberanza dei desideri del suo cuore. Avrebbe voluto essere tutto nella Chiesa, vivere i carismi e i doni di cui San Paolo scriveva nella Lettera ai Corinti: profezia, apostolato, ministero… Fu felice quando trovò la sua vocazione: essere “cuore” dentro la Chiesa. Antonio aveva trovato lo Zenit, il punto d’arrivo del suo cammino. Aveva centrato la sua vocazione: era così libero da sé che Francesco acconsentì alla sua vita accademica; e il suo cuore fu così pieno di Dio da poter attraversare indenne le piazze e le contrade del suo tempo, non meno turbolento del nostro. Antonio ricordava quanto scrive Sant’Isidoro di Siviglia: “L’aquila, dopo aver deposto tre uova nel nido, ne butta fuori una per covarne solo due. Così noi non possiamo alimentare l’amore di Dio, del prossimo e di noi stessi. Il cristiano butta via l’amor proprio”.

Sant’Antonio è caro al popolo perché taumaturgo. Ma perché è taumaturgo? Perché Dio operava insieme a lui e «confermava la Parola con i prodigi che l’accompagnavano» (cfr. Mc 16, 20).
Antonio fu soprattutto missionario. Prima in Marocco (con un viaggio avventuroso) e poi in Europa e nelle nostre terre. Credete fosse più facile la missione in quei tempi? Antonio vive dal 1195 al 1231, tempi duri e, per certi versi, oscuri per la Chiesa e per la società. Come sta un missionario autentico nel proprio tempo e nel proprio contesto? Come “abita” la crisi? Con la coscienza che è mandato e preceduto: «Voi farete cose più grandi di me» (cfr. Gv 1, 50); con l’ardore che gli viene dalla frequentazione costante del giardino nascosto (cura della vita interiore, anima dell’apostolato); con la serenità di chi pone solo in Dio la sua confidenza: «Omnia possum in eo qui me confortat» (Fil 4, 13).

Veglia di Pentecoste

7 giugno 2014

Novafeltria

Gv (7, 37-39)

Siamo qui per vivere un’ora di Cenacolo (il cenacolo è la sala adornata, al piano superiore, nella quale Gesù riunisce gli amici) e qui portiamo tutte le sorelle e i fratelli della nostra Chiesa diocesana. Li consideriamo tutti presenti! Vorremmo che quest’ora non finisse mai…
In questo momento, qui, è la “Domus ecclesiae”: «Come è bello che i fratelli stiano insieme» (Sal 133). E’ utile, è necessario, è bello ritornare al Cenacolo (tutti insieme, pur diversi). E’ utile perché abbiamo di che meditare: il Cenacolo, infatti, ci riporta all’essenziale. Abbiamo gustato la sequenza delle letture, dall’episodio della Torre di Babele fino al grido di Gesù che dice: «Chi ha sete venga a me e beva» (cfr. Gv 7, 37). E’ necessario ritornare al Cenacolo, perché abbiamo la gioia di rinnovare l’incontro che ci emoziona sempre, l’incontro con Gesù Risorto che dice: «Pace a voi»! Bisognerebbe non farne mai l’abitudine, talvolta sembra quasi tutto scontato: entriamo in chiesa e usciamo tali e quali. Invece, questa sera imploro lo Spirito Santo di farci tornare a casa – come diceva il Papa domenica scorsa – “ubriachi di Spirito”. E poi è bello ritornare al Cenacolo, perché questo luogo, questa compagnia di amici, questa fraternità, ci dispongono ad accogliere una nuova effusione di Spirito Santo, Spirito che noi professiamo essere la Terza Divina Persona della Trinità, Dio Amore. Ricorderete tutti quel passaggio degli Atti degli Apostoli in cui viene proposta ad alcuni discepoli questa domanda: «Avete ricevuto lo Spirito Santo quando siete venuti alla fede?». Gli risposero: «Non abbiamo nemmeno sentito dire che ci sia uno Spirito Santo». «Quale battesimo avete ricevuto?». «Il battesimo di Giovanni» (cfr. At 19, 1-6). La nostra spiritualità, la nostra preghiera, spesso ignora il Dio di Gesù Cristo, che è un Dio Trinità di Persone: la Prima Divina Persona, che noi chiamiamo, con parola umana dolcissima, “Padre”, la Seconda Divina Persona che conosciamo, perché si è fatta uomo ed è venuta in mezzo a noi, Gesù di Nazaret, la Terza Divina Persona, lo Spirito. Una parola equivoca, Spirito. Quando si dice “Spirito” si pensa spesso agli spiriti, a qualcosa di evanescente, invece lo Spirito è parola che sta ad indicare la potenza di Dio, il suo respiro, il suo amore. Noi lo invochiamo qui, dentro il Cenacolo, e consideriamo il clima che lo avvolge attorno e dentro, i personaggi che lo abitano (gli apostoli, le donne, Maria madre-sorella-discepola), lo Spirito Santo Creatore che scende con potenza, Avvocato, Maestro interiore, e poi le porte del cenacolo già spalancate sulla città degli uomini. Il cenacolo è il luogo a cui Gesù riconduce i discepoli, perché vivano intensamente la Pasqua, l’Esodo: è la sala grande e addobbata, al piano superiore, in cui si gusta l’Eucaristia, in cui si fa memoria della lavanda dei piedi e della istituzione del ministero presbiterale, lo spazio nel quale si è compiuto l’evento della Pentecoste. Nel cenacolo Gesù ha pronunciato i discorsi di addio nei quali ha annunciato lo Spirito Santo Persona. Che cosa potevano sapere gli Apostoli dello Spirito Santo? Fu Gesù a rivelarne la presenza, fu Gesù che fece comprendere ai discepoli che l’Antico Testamento tante e tante volte alludeva allo Spirito Santo; dal momento della Creazione: «lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (cfr. Gn 1,2); poi Dio plasma l’uomo, prende la creta come abile vasaio, infonde il suo spirito soffiando nelle narici e l’uomo diventa un essere spirituale. E a seguire tutta la storia della salvezza, in cui lo Spirito guida Israele verso la Terra promessa, prima come nube e poi come fuoco; lo Spirito che scende sui profeti – anzi i profeti stessi diranno che lo Spirito sarà spirito di vita che farà rivivere ossa aride e sostituirà il cuore di pietra con un cuore di carne. Infine Gesù dice: «E’ bene che io me ne vada, altrimenti non verrà a voi lo Spirito» e ci saranno Giovanni, l’amico del cuore, e Maria, la mamma di Gesù, a raccogliere – come rappresentanti di tutti noi – lo Spirito che Gesù dona, lo Spirito che esce dalla spaccatura della sua umanità, da un amore indicibile che non poteva più contenerlo, effuso nel momento del suo grande dolore. Quando poi dirà «ho sete, tutto è consumato» consegnerà lo Spirito al Padre.
Inoltre Gesù, nel cenacolo, ha consegnato ai discepoli il comandamento nuovo, il suo testamento. Dal Cenacolo, apparendo a porte chiuse, inaugura la missione, inviando alle genti gli apostoli equipaggiati dei suoi stessi poteri per la remissione dei peccati. Il Cenacolo ci ripropone l’atmosfera per una intimità profonda; fu là che risuonavano queste parole: «rimanete in me e io in voi … non vi chiamo più servi ma amici» (cfr. Gv 15, 4.15); là c’era stata l’apertura dei cuori: Giovanni che posava il capo sul petto di Gesù, Tommaso che metteva la mano nella ferita del cuore; c’era stata la rivelazione piena: «mostraci il Padre e ci basta» – e Gesù che risponde: «chi vede me vede il Padre» (cfr. Gv 14, 8)…mentre un altro apostolo dirà: «sì, adesso parli apertamente» (cfr. Gv 16, 29).
Sì, il cenacolo prepara alla missione; in esso si vive una trepida attesa. Se paragoniamo la vita cristiana al battito del cuore, il cenacolo rappresenta il primo movimento, la missione fuori del cenacolo il secondo. II sangue viene richiamato al suo centro e poi mandato ad irrorare ogni parte del corpo: momenti diversi e successivi, ma inseparabili in un organismo vivo.
La stessa logica ritroviamo nelle cose della vita: l’alba prepara il pieno giorno, la gestazione la nascita, il fidanzamento il matrimonio, lo studio la professione, l’allenamento la gara …
A dire il vero, ogni persona conosce il suo cenacolo, lo spazio per l’intimità e il raccoglimento, il tempo per il radicamento degli ideali per cui vivere. Non ci sono imprese autenticamente umane che non siano precedute dalla contemplazione. Come non c’è vera comunicazione senza il silenzio. Non possiamo lasciare questo Cenacolo senza avere imparato una virtù di cui non si parla mai – la virtù della solitudine (ben intesa) – una virtù disprezzata perché non conosciuta. Non si tratta della solitudine sofferta o della solitudine che è privazione degli affetti (queste solitudini vanno eliminate o sopportate, se necessario, per la propria crescita), ma di quella creata in noi dalla vita interiore e necessaria alla vita interiore. È la virtù che fa spazio, assicura condizioni, crea capacità di accoglienza, di accumulo e di custodia, come una conca con l’acqua, in cui essa sale pian piano e tracima. E di che cosa se non di amore? Solitudine per amore. Solitudine per l’amore. Solitudine piena d’amore, perché piena di Dio.
La diocesi sta vivendo in questo mese le celebrazioni delle Cresime. Anche la diocesi è un grande Cenacolo. Il vescovo, come gli apostoli, stende le mani e compie il sacramento. I ragazzi completano così l’Iniziazione Cristiana; le famiglie si mobilitano, è un momento importante per loro (per qualcuno è occasione per un felice ritorno, che sia sempre una festa accogliente!); la parrocchia è in festa; i parroci e i catechisti sono pieni di trepidazione e di gioia. I ragazzi – come le volpi di Sansone – sono inviati ad incendiare d’amore i luoghi in cui vivono. Su tutta la diocesi scende la potenza del Signore con la ricchezza dei doni. Allora mi viene da domandare: “Ne siamo consapevoli?”. Davvero: «Un fiume e i suoi ruscelli rallegrano la città di Dio» (cfr. Sal 45). Riprendiamo entusiasmo da quanto accade?
Non cediamo alla tentazione delle lamentele. Il Signore è all’opera: «Io faccio una cosa nuova. Non ve ne accorgete?» (cfr. Is 43, 19).
Con questa fede-certezza si vive assai diversamente la responsabilità del discepolo “nella città degli uomini”. Si va in missione con un animo diverso, positivo: si va a raccontare l’incontro che ha cambiato la nostra vita; si va a riconoscere quanto lo Spirito va facendo prima e molto meglio di noi; si va per un ministero di consolazione. Viviamo tempi difficili. Ma quando mai i tempi sono stati facili? E’ certo che oggi c’è una cultura, un’antropologia, un modo di pensare l’uomo, che sono radicalmente cambiati, che fanno sentire diversamente il rapporto con Dio e le cose dell’anima. La tentazione è quella di rinchiudersi, di viaggiare per nostro conto (è come se i binari del nostro treno fossero convenzionati con altre misure rispetto ai binari del mondo). Allora è facile cadere nella tentazione della strategia della fuga. Gesù invece ha preferito la strategia di ingresso: essere lievito nella pasta, sale sciolto nell’acqua.
Nella nostra Chiesa diocesana vi sono molte associazioni, gruppi e movimenti. Una ricchezza formidabile. Non diremo mai grazie abbastanza. Associazioni, gruppi e movimenti nelle parrocchie, oppure, se si tratta di aggregazioni d’ambiente, accanto alle parrocchie, mai alternative o contro. Associazioni, gruppi e movimenti che hanno il grande pregio di favorire la formazione, con le loro tappe, le verifiche, la comunicazione aperta, lo scambio di esperienze, la vitalità, tutti in relazione tra loro, non in concorrenza. Tutti fedeli al carisma ispiratore, alla propria genialità. Carisma significa dono di Dio per l’utilità di tutti. I carismi appartengono allo Spirito e per questo vanno sottoposti al discernimento della Chiesa.
Vorrei dire grazie in particolare a tutti voi qui presenti, per quello che fate e per quello che siete, per la prossimità che, come laici, sapete esprimere a noi sacerdoti. Insieme al grazie, ripetiamo ora, insieme, il nostro “eccomi”!

Omelia Ascensione del Signore

Carpegna, 1 giugno 2014
At 1,1-11
Sal 46
Ef 1,17-23
Mt 28,16-20

Per tutti è una giornata straordinaria. E’ il giorno dell’Ascensione di Gesù al Cielo.
Gesù, il figlio di Maria e – come si riteneva – del carpentiere di Nazaret è il figlio di Dio fatto uomo. Con l’Ascensione si fa manifesta la sua duplice natura umana – divina. Gesù – come dice la formula di fede che proclamiamo ogni domenica – ora «siede alla destra del Padre». «Mediatore fra Dio e gli uomini – così recita il prefazio – giudice del mondo e Signore dell’universo, non si è separato dalla nostra condizione umana, ma ci ha preceduti nella dimora eterna, per darci la serena fiducia che dove è lui, capo e primogenito, saremo anche noi, sue membra, uniti nella stessa gloria». Gesù porta in Cielo la nostra umanità, la nostra umanità viene divinizzata. E tutto ciò che fu del nostro Redentore passa nei segni sacramentali (S. Leone Magno). Così il Signore Gesù ci fa suoi per sempre.
Con i sacramenti dell’iniziazione cristiana questi ragazzi toccano con mano il suo amore. Gesù li chiama a seguirlo da persone consapevoli. Ora si accingono a rispondere «sì»; ma non sarà sempre facile essere fedeli. Al fonte battesimale sono state dette su di loro le stesse parole pronunciate su Gesù dal Padre: «Tu sei il Figlio mio»… «tu sei l’amato»… «tu sei motivo della mia gioia». Che cosa c’è di più consolante che avere un Dio per papà? Che cosa c’è di più emozionante che sapersi da lui amati immensamente? E aggiungo: essere motivo della sua gioia!
Lo Spirito Santo scenderà su di loro come profumo (crisma), farà prendere a loro la forma di Gesù e sarà loro forza e loro luce. Potranno contare su di lui nei momenti difficili e nei momenti delle scelte: li assisterà.

Ho parlato del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; è il mistero di Dio Trinità d’Amore. Concetti difficili? Non sono concetti, ma il volto stesso di Dio come ce lo ha presentato Gesù. Dio è amore, relazione di persone; persone che non vivono per sé, ma l’una per l’altra. Quando facciamo il segno della croce e la mano sfiora prima il capo e poi il cuore e le spalle: non facciamo altro che riconoscere che siamo partecipi della vita dei «Tre»; i «Tre» si amano tanto da essere «Uno», e noi «uno» con loro per grazia, perché avvolti dal loro Amore. La vita cristiana non è altro che stare in Gesù, rivolti verso il Padre con quell’infinita fiducia e quell’infinito abbandono che lo Spirito Santo mette in noi. Sono solito dire che il Padre è l’Amante, il Figlio è l’Amato, lo Spirito Santo il Bacio! Sarebbe bello ricordarsi, ogni mattina, che ci siamo svegliati con il Bacio di Dio!

Cose troppo grandi? Eppure Gesù le ha insegnate proprio per noi. Sono la verità della nostra vita e segnano la qualità e lo stile dei nostri rapporti. Alla fine ci verrà chiesto se avremo vissuto sulla terra come si vive in Cielo. La famiglia, lo studio, il lavoro, i vicini di casa… non sono altro che terra da trasformare in Cielo.
Bisogna cominciare subito con la forza dello Spirito Santo.
Intanto viviamo il momento presente con amore e dedizione. Facciamo comunione eucaristica; facciamo comunione con la Parola del Vangelo. Teniamo i contatti con la parrocchia, Chiesa viva e vicina. Se ti sembra di non trovarvi sempre amore, dico: «mettilo tu»!

Omelia alle esequie di Luca Fantini

Chiesa di Serravalle, maggio 2014

Lam 3, 17-26

Sal 129

Gv 14, 1-6

Cari fratelli, care sorelle,

queste parole prese dal libro delle Lamentazioni sembrano scritte proprio per noi: «Il ricordo del mio vagare e della mia miseria è come assenzio e veleno. Ben se ne ricorda la mia anima» (Lam 3,19).

Sulla rupe di Pennabilli c’è una pianta di assenzio. Ho provato a stringerne tra le dita alcune foglioline; ho portato alla bocca le dita: l’assenzio è amarissimo!

«E’ scomparsa la mia gioia, la speranza che mi veniva dal Signore» (Lam 3,18).

Il dolore va rispettato. Non giovano le frasi fatte. Sono di troppo anche le parole. E dal dolore non si scappa. Hai due possibilità: vivere il dolore con Gesù o viverlo senza. La vita può essere interpretata come vagabondaggio o come pellegrinaggio. La differenza sta nella meta. Vagabondo è chi non ha meta, pellegrino chi ha meta. La scelta della famiglia di Luca di celebrare qui, nella chiesa parrocchiale, l’ultimo saluto è una conferma che abbiamo scelto di essere pellegrini: abbiamo una meta. Le parole di Gesù lo dicono esplicitamente: “Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto vi prenderò con me (Gv 14, 2-3).

Negli anni del seminario – permettete questo ricordo – a ciascuno di noi studenti, veniva assegnato un posto: un posto in cappella, in refettorio, a scuola, in studio e persino nella fila. Gli educatori, di tanto in tanto, cambiavano il posto: era sempre un avvenimento con sorprese. L’unica eccezione era prevista per il sabato sera, quando nel teatro, si assisteva alla proiezione del film. Non c’erano posti assegnati. Erano liberi. Ricordo la gioia quando qualcuno dei compagni mi teneva il posto. Mi capitava di sentire: «E’ occupato per Turazzi!» (si usava chiamare col cognome). E’ ormai un lontano ricordo, ma mi serve per descrivere l’effetto che provo nel rileggere le parole rassicuranti di Gesù: Nella casa del Padre mio vi sono molti posti… vado a prepararvi un posto… Ce n’è uno che Gesù riserva anche per Luca: «Occupato per Luca»!

Una terribile disgrazia l’ha portato via lasciando tra noi un vuoto incolmabile. Anche al tempo di Gesù vi fu una disgrazia (cfr. Lc 13, 1-5): diciotto galilei furono coinvolti nel crollo di una torre a Siloe. Il fatto venne riferito a Gesù, con il tono della provocazione: di chi la colpa? Gesù smascherò la duplice insidia: il giudizio su quei diciotto, il giudizio su Dio che ha permesso la disgrazia. Né l’una né l’altra interpretazione era giusta secondo Gesù. «Credete che quei 18 fossero i più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No…» e Gesù continuò con un forte invito alla conversione. Viene in mente un passaggio di un celebre romanzo: «Quando senti i rintocchi di una campana a morto, non chiederti per chi suona la campana. Suona per te!»

Preghiamo per Luca.

Preghiamo perché il mistero della sua morte non sia inutile.

Lo uniamo al sacrificio di Gesù morto ancora giovane sulla croce per la nostra redenzione. Lo facciamo nostro condividendo il dolore dei suoi cari e accettando di bere qualche goccia almeno di questo calice amaro. Lo sentiamo come appello che invita a considerare il grande valore della vita e la preziosità della giovinezza. Un appello rivolto specialmente ai giovani qui presenti.

«Questo intendo richiamare alla mia mente; e per questo voglio riprendere speranza. Le misericordie del Signore non sono finite, non è esaurita la nostra compassione, esse sono rinnovate ogni mattina» (Lam 3, 21-23).

 

Quinta Domenica di Pasqua Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

17 maggio 2014

Chiesa di Murata
GMG diocesana

At 6, 1-7
Sal 32
1 Pt 2, 4-9
Gv 14, 1-12

«Dove sono io, siate anche voi» (cfr. Gv 14, 3).

«Signore, mostrami il tuo volto». Cari ragazzi, a chi non è venuto in mente di rivolgere questa domanda? Ogni giovane, credente e non, cerca quel volto e lo pensa come luogo della sua salvezza: «Illustra faciem tuam, et salvi erimus»! (Sal 80). Quel volto darebbe senso alla vita, slancio ai percorsi, forza ai progetti più arditi. Filippo, l’apostolo, ha lasciato tutto per seguire Gesù, il Gesù che ora sembra incamminato verso una grande sconfitta…per questo chiede: «Signore, mostraci il Padre e ci basta» (cfr. Gv 14,8).
La domanda di Filippo ricorda quella di Mosè. Anche Mosè ha intrapreso un cammino rischioso e discusso dai suoi stessi compagni di viaggio. A Mosè Dio dice: «Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo. Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano, finché non sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere» (cfr. Es 33, 20-33). Invece a Filippo viene data una risposta. Gesù dice che è giunto il momento in cui il volto di Dio può essere visto: «Guarda me! Chi vede me, vede il Padre». Il volto di Gesù di Nazaret, volto del figlio del falegname, del figlio di Maria, è volto di Dio. Per vedere Dio non c’è altra strada che seguire Gesù, il Cristo. Ma è soprattutto ai piedi della croce che i discepoli contempleranno il loro Signore: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (cfr. Zac 12,10).
«Perché – si chiedeva un grande maestro spirituale (San Giovanni della Croce) – un tempo Dio si manifestava con visioni e sogni ed ora non più?». Rispondeva così: «In Gesù crocifisso e risorto Dio ha detto tutto. Non c’è altro da aggiungere». Inchiodato sulla croce Gesù ha mostrato tutto l’amore di Dio. Gesù crocifisso e risorto è la via per andare a Dio.
E’ inutile sprecare energie pensando di farcela da soli. Il Padre ci viene incontro, viene fino a noi, donandoci il suo Figlio. Ci sono momenti di prova. Mi rivolgo specialmente a chi, in questo momento, è in un periodo di crisi, di difficoltà, di ricerca. Mi rivolgo a chi si trova ad una svolta importante, a chi soffre di nostalgia e ha bisogno di quel “volto” per avanzare.
Gesù dice: «Dove sono io, siate anche voi». E’ come se dicesse: mettiti con me! Io non ti tolgo nulla, ti do tutto… non aver paura.
Dove sei Signore? Dove ti nascondi? Gesù risponde: «A chi mi ama, mi manifesterò». Come amarti se non ti vedo? Sentite:
«Avevo fame e mi hai dato da mangiare; avevo sete e mi hai dato da bere; ero forestiero e mi hai accolto, ero ammalato e mi hai curato…» (cfr. Mt 25,35). Ecco dove sei Signore, ecco dov’è la tua carne.

C’è una beatitudine che sintetizza e riassume le altre nove: «Beato, se metterai in pratica…» (cfr. Gv 13, 17), cioè se amerai concretamente – passi l’espressione – se amerai “con i muscoli”! Con i muscoli dell’anima: è la progressione interiore; con i muscoli del corpo: nel servizio; con i muscoli della mente: l’esercizio della dimenticanza di sé (mettere l’altro davanti a sé). Cari ragazzi, Francesco d’Assisi, pregava così: «Maestro, fa’ ch’io non cerchi tanto di essere consolato, quanto di consolare; di essere compreso, quanto di comprendere; di essere amato, quanto di amare».
«A chi mi ama, mi manifesterò». Permettete una metafora un po’ sbarazzina: «Pedala! La dinamo farà luce». Più ami, più vedrai!
Vale anche per chi fa fatica a credere, per chi è in ricerca… come l’apostolo Tommaso.
Riprendiamo la domanda: «Dove sei Signore?»…
Oggi c’è la tendenza ad esibire tutto, c’è la pretesa di una trasparenza totale in politica, nella finanza, perfino nella famiglia, nella coppia. La riservatezza viene giudicata con sospetto. Nell’era di Facebook e dei social network il confine tra vita privata e vita pubblica è diventato esile, perfino inesistente… La prepotenza delle immagini e dei suoni fanno dell’anima un mercato!
C’è posto per un piccolo angolo di giardino segreto dove poter prendersi cura dell’anima? Il giardino segreto è la sede dei pensieri più intimi, dei desideri profondi, dei sogni più coraggiosi. E’ qualcosa di vitale! La custodia di questo giardino è indispensabile per la nostra vita. E’ una sorgente viva che domanda d’essere alimentata. I sentimenti, la natura, le letture, la contemplazione, nutrono e vivificano l’interiorità. Anche le prove… configurano i confini di questo spazio interiore, condizione di un dialogo profondo con Dio nella preghiera. Non è intimismo, ma la responsabilità per la nostra vita interiore. La gioia che si espande da questo giardino è, per gli altri, il segno che è accaduto un incontro. Cari ragazzi, vi faccio due proposte: sceglietevi una guida spirituale che vi ascolti, vi aiuti a mettere in ordine i pensieri, vi incoraggi nel cammino di fede. L’altra proposta è la seguente: dedicate ogni giorno dieci minuti alla lettura del Vangelo. Lasciate inzuppare la vostra giornata dalle parole di Gesù.
Nelle prime pagine della Bibbia, si legge che Dio, sul far della sera, scende nel giardino a cercare Adamo ed Eva ed è lui che fa la domanda all’uomo: «Dove sei?». Il fruscio delle pagine sfogliate è il rumore dei passi di Dio nel nostro giardino segreto.
«Dove sei tu, Signore, ci sono anch’io».

 

Omelia Messa di Pasqua

20 aprile 2014, Cattedrale di San Leo

Lasciarci amare. Lasciarci salvare. Lasciarci trasformare.

Di trasformazione in trasformazione: miracolo della risurrezione di Cristo, potenza di Dio che “ricostruisce ciò che è distrutto, rinnova ciò che è invecchiato e fa tornare tutto alla sua integrità, per mezzo del Cristo che è principio di tutte le cose” (orazione nella Veglia Pasquale).

Trasformazione che è da intendere come splendore e compimento dell’origine, promessa e alleanza mantenuta – dal diluvio in poi nessun annullamento o tradimento di ciò che esisteva.

La trasfigurazione di Gesù sul monte è il paradigma della trasformazione pasquale. Ne abbiamo contemplato gli aspetti mistici e sacramentali nel corso della Veglia Pasquale.

Da schiavi a liberi, come nella notte dell’Esodo, dietro alla colonna di fuoco, il cero pasquale. Da cuori di pietra a cuori di carne, il percorso su cui c’ha condotto la lettura della storia della Salvezza dalla creazione alla redenzione. Da una amara condizione di morituri alla destinazione di una vita indefettibile ed eterna, in virtù del battesimo che in noi svela e fa rivivere il germe di immortalità di figli di Dio. Dalla lontananza alla stupefacente prossimità, quasi una immanenza di noi in Cristo e di Lui in noi, in virtù della comunione eucaristica, sua presenza reale, sostanziale, vera nel dono di un dono spezzato.

Dalla dispersione all’essere Chiesa, suo corpo e sua presenza nel mondo: il congedo proclamato dal diacono tra gli alleluia al termine della liturgia pasquale è un invio. Cristo cede a noi il suo stesso donarsi, cioè si dona attraverso il nostro donarci.

Di trasformazione in trasformazione, di splendore in splendore: chiamati a libertà perché restiamo liberi; fatti di cielo perché non restiamo come perle prigioniere nella conchiglia; perché Cristo viva in noi; perché non siamo più spaventati dalla morte, ma guardiamo il futuro con la speranza; per essere Chiesa, suo popolo.

La novità con la risurrezione è entrata in circolo e rinnova le fatiscenti strutture del vecchio mondo. E’ la vera modernità.

Trasformazione da intendere bene. Non è trasformazione, ma tradimento semmai, quando il Vangelo non viene sviluppato secondo la sua vitalità o le sue esigenze, ma viene piegato alle nostre pretese e alla nostra misura. Non è sviluppo la verità della fede quando si tramuta in un’altra (cfr. Commonitorium di Vincenzo di Lerin).

Non è trasformazione, ma tradimento quando il progetto originario sulla famiglia, fondato sull’amore e sulla comunione di vita e d’amore fra un uomo e una donna – fondamento del vivere sociale – diventa unione fra persone dello stesso sesso; non è più matrimonio ma altro.

Non è trasformazione, ma sfruttamento, quando la natura che è stata affidata alla nostra custodia viene manipolata, inquinata, spremuta per il nostro egoismo.

Buona Pasqua! Ma soprattutto una Pasqua Buona. La nostra risurrezione sarà trasformazione di tutto il nostro essere senza perdita di identità: nuovi della novità di Cristo Risorto.