Omelia III Domenica di Quaresima

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Carpegna, 28 febbraio 2016

Una valanga traditrice, un attentato, un incidente stradale, un’inondazione, un terremoto… pongono inevitabilmente domande: perché? Perché proprio a loro?  Chi è responsabile? C’è chi pensa subito ad un castigo; c’è chi punta il dito contro Dio.
Due fatti di cronaca nera hanno sconvolto Gerusalemme: c’è stata una sommossa di Galilei in zona tempio finita nel sangue; una torre è crollata uccidendo 18 persone. I fatti vengono riportati a Gesù con la richiesta di una spiegazione, anzi con la pretesa di una presa di posizione circa il dogma giudaico della retribuzione; un dogma che legava inscindibilmente delitto e castigo, colpa e punizione. In realtà la domanda è un trabocchetto e denota, in chi la pone, la chiacchera sugli altri. Ma Gesù invita ciascuno a guardarsi dentro. «Dio li ha puniti», sussurra la gente. Gesù replica: «Non pensate che quelle persone siano più peccatori di voi. Guardate a voi stessi. Pensate a convertirvi!».
Gli avvenimenti sono avvertimenti, occasione di discernimento. San Paolo rimproverava le false sicurezze: Chi crede di stare bene in piedi, veda di non cadere.
E noi come reagiamo alle notizie che i media ci somministrano quotidianamente nelle nostre case?  Siamo di quelli che pensano immediatamente ad un castigo di Dio, magari dando giudizi azzardati? Ricordo un commento che venne scritto l’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle; ci si chiedeva dov’era Dio in quel giorno… Questa la risposta che veniva data: e l’uomo dov’era quel giorno? Dio non ha bisogno di difensori d’ufficio. Importante, per ognuno, è guardarsi dentro: Se suona una campana a morto, non chiederti per chi suona; perché suona per te! I suoi rintocchi sono altrettanti inviti alla conversione.
Gesù raccontò poi una parabola. Protagonista è un agricoltore che fa di tutto per salvare un fico che non da frutti. E’ sterile: perché deve occupare spazio inutilmente? Attraverso la parabola Gesù rivela ancora una volta un tratto del volto di Dio e il suo nome: Misericordia. Egli non si perde d’animo per i nostri errori e dei nostri ritardi. Non ci abbandona alla nostra mediocrità. Gli ascoltatori di Gesù conoscevano bene i rimproveri dei profeti contro il loro popolo quando non c’era volontà di conversione. Ma ora è il tempo di Gesù. Egli mette sul nostro cammino segni discreti, ma immancabili, come altrettanti inviti alla conversione. Inviti che ci fanno capire la gravità della nostra sterilità, ma nello stesso tempo sono inviti gioiosi perché davvero la conversione è possibile. Questa quaresima è una chance, come l’anno di straordinario Giubileo che stiamo vivendo. Non abusiamo della pazienza del Signore. Accogliamo la chance che egli ci offre. E, a nostra volta, diamo agli altri – ai nostri debitori – ancora una chance!

24ore per il Signore

Discorso del Vescovo al Convegno promosso dal Forum del Dialogo: “Noi e l’Islam”

 

San Marino (Palazzo SUMS), 27 febbraio 2016

 

  1. Il mese scorso, nel giorno della Memoria, gli studenti del Liceo sammarinese si sono riuniti per un tempo di riflessione a settanta anni dall’olocausto. In quella circostanza fu ricorrente l’invito a non fermarsi alla sola memoria, ma a fare della memoria una risorsa per il presente. Dopo gli interventi dei giovani partecipanti (lettura di brani, relazione di un recente viaggio ad Auschwitz, una loro rappresentazione e un brillante stacco musicale), sono saliti sul palco rappresentanti e leader di diverse confessioni religiose cristiane e non cristiane. C’ero anch’io. La nostra presenza attorno a quel tavolo credo abbia rappresentato un messaggio forte, al di là delle parole. Non era solo cortesia. C’era molto di più. C’era l’unanime condanna alla guerra, specialmente ad ogni guerra in nome di Dio. C’era il desiderio di fissare temi e comuni strategie educative in vista della pace. C’era un’aperta volontà di dialogo. Il tutto esibito chiaramente davanti alla platea. So di qualche critica sulla conduzione dell’evento; ci può stare… Personalmente ho trovato quell’incontro un segnale ed un seme promettente per il futuro; uno “spettacolo” reso ancor più risuonante per la presenza dei giovani interlocutori.
  1. Ho richiamato alla mente il mio motto episcopale: “Cor ad cor loquitur”. Il cuore è unico in ogni essere umano. C’è corrispondenza tra uomo e uomo e questo è un buon punto di partenza. All’inizio del dialogo sta questa prima evidenza affidata alla responsabilità di ognuno. Da cuore a cuore, quasi confidenzialmente, racconto come ha risuonato dentro di me la parola “dialogo”. Ho un vivissimo ricordo di come imparai questa parola attraverso la prima enciclica di Paolo VI, Ecclesiam Suam. Correva l’anno 1964. Ero un ragazzo di Liceo. Certamente condizionato dal clima di quegli anni, fui pieno di entusiasmo per il dialogo assunto come via della Chiesa: “La Chiesa si fa dialogo” (Paolo VI). Il dialogo era visto soprattutto come strumento attraverso il quale giungere ad una più profonda comprensione della verità e ad una apertura a chiunque fosse disposto ad ascoltare il messaggio di Cristo. Dalla mia famiglia avevo imparato a convivere con le differenze… Il mio entusiasmo, come quello di chi mi stava attorno, visto in distanza non fu esente da ingenuità e, talvolta, fu maldestro. Imparai la lezione. Nel dialogo non si abdica alla propria identità, né alle proprie convinzioni. Al contrario, attraverso diverse esperienze, ho compreso che la relazione con chi è diverso da me e la pensa diversamente da me mi chiarisce a me stesso. Altro è l’unità, altro l’uniformità. L’unità è armonia nella diversità. L’uniformità annulla la bellezza originale. L’unità è variopinta, l’uniformità è grigia. Nel mio servizio educativo ho ritenuto indispensabile precisare, ad esempio, come il volto del Dio di Gesù Cristo sia inconfondibile, singolare, non assimilabile al volto di Dio come è tratteggiato da altre esperienze religiose. Dio è uno e unico, ma quando leggo Luca 15, come ho fatto questa mattina, devo confessare con la più grande commozione che prego così: “Signore, vorrei che tutti ti conoscessero così!”. Quando leggo Giovanni 17 capisco qualcosa di più di quella definizione: “Dio è amore”. Dio mi si rivela come Trinità d’amore.
  1. Nell’esercizio del dialogo faccio esperienza di sicurezza. Dialogare è necessario, non è una concessione, perché nell’altro c’è verità. Non ho paura. Ho toccato con mano che c’è una “sicurezza insicura”. La ritrovo in chi gioca in difesa. Si mostra solido, ben piazzato nella sua rocca, ma, in realtà, è per il timore di mettersi in discussione. C’è l’apparente insicurezza di chi è in ricerca, ma è perché non teme l’avventura di aprirsi e la sfida dell’incontro con l’altro. C’è una tradizione patristica (primo testimone, a quanto so, è il santo filosofo Giustino) che fa guardare la realtà, i cammini più diversi, alla luce dei “semi del Verbo”. Io dialogo con te, con la tua cultura, perché voglio scoprire e raccogliere i “semi del Verbo” di cui sei portatore. “Semi del Verbo”: scintille di verità che provengono dall’Uno. “Accogliete la parola seminata in voi” (Giac 1,21). Il dialogo ha un’ascesi: faccio silenzio e ascolto, mi faccio da parte, per così dire, creo spazio. Così metto in condizione l’altro di darsi, di svelarsi e dare il meglio di sé. Accolgo perché chi mi sta di fronte è prezioso e degno di stima (cfr. Is 43,1-6). Ti accolgo non perché non sai dove andare, dove trovare rifugio, ma perché sei un dono per me. Vedo il tuo problema: il tuo problema è mio, mi faccio uno con te. Allora mi metto a tuo servizio.
  1. La fraternità è una delle tre parole chiave della rivoluzione francese (della modernità): égalité, liberté, fraternité. Fraternità è parola che lascia intravvedere una matrice cristiana ed è anche la più difficile da tradurre giuridicamente, ma quella a cui ciascuno aspira, soprattutto quando una comunità si sente minacciata. La fraternità è una nozione centrale nel cristianesimo. I cristiani si presentano come fratelli e sorelle (cfr. NT), riconoscendosi tutti ugualmente figli di uno stesso Padre. Ma non si può nascondere come nella Bibbia l’esperienza della fraternità incominci in maniera drammatica. Il primo “figlio minore” dell’umanità, Abele, viene assassinato dal suo fratello maggiore, Caino (cfr. Gn 4,1-15). Altri conflitti tra fratelli ci verranno raccontanti; ad esempio, Giuseppe venduto dai fratelli (cfr. Gn 43-44). Ma il libro della Genesi si chiude con questo motivo di speranza: “Se voi avevate pensato un male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che ora si avvera” (Gn 50,20).
  1. A differenza dell’amicizia, la fraternità è qualcosa di donato. Gli amici si scelgono, ma non i fratelli. I fratelli si ricevono dai genitori comuni. È un legame che ci precede e che è necessario. Come gestire questo essere dono? La fraternità, in effetti, è ambivalente: può essere usata per chiudere un gruppo su se stesso e contrapporlo a chi non è del gruppo. La fraternità nazionale – ad esempio – può essere proclamata per sottolineare la distinzione tra i cittadini e gli stranieri, guardati addirittura con sospetto (spinte identitarie). Ma il Vangelo proclama che la fraternità non può che essere necessariamente universale. I legami di sangue o di “suolo” sono un dono, ma reclamano un allargamento, una liberazione: la paternità divina essendo unica ed universale postula che altrettanto sia la fraternità. Non è un cammino facile, occorre continuamente scoprire quello che si è e quello che si ha in comune, oltre le apparenze. Dio può svelarci come fratelli e sorelle. Vorrei chiudere dicendo a tutti e a ciascuno: “Sei mia sorella, sei mio fratello; vorrei farti sentire in casa tua a casa mia”.

Omelia II Domenica di Quaresima

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Pieve di san Leo, nella messa in ricordo di don Giussani

Una notte Dio appare ad Abramo e gli promette: farò di te un popolo numeroso che abiterà questa regione. Come non pensare alla vocazione di don Giussani?
Abramo nel profondo del cuore ha sorriso: «Io, un nomade senza figli?»…
Allora il Signore compie un rito arcaico: passa in mezzo agli animali squartati e gli giura che sarà fedele alla parola che ha pronunciata. Non gli da altra garanzia: «fidati di me». E Abramo crede a Dio. E’ con totale fiducia nel Signore che don Giussani intraprende un’opera che non è sua, anche se ci mettere del suo, anzi metterà tutto se stesso, con ardore e intelligenza.
L’itinerario della quaresima ci vuole portare a questa fiducia nel Signore. Il Signore rinnova la sua promessa: farò di voi un popolo numeroso, che non si riesce a contare; e farò della terra che talvolta sentite estranea, una terra buona e abitabile. Chi, per disegno di Dio, accoglie un carisma ne diviene responsabile; e diventa, in qualche modo, confondatore dell’opera sbocciata da quella prima scintilla ispiratrice.
Nella trasfigurazione c’è un incontro col Padre.
Andiamo al Tabor dove il Vangelo ci invita a salire; ci hanno preceduto Pietro, Giovanni e Giacomo. Pietro, il pescatore di Galilea, davanti allo spettacolo della trasfigurazione vuole innalzare tre tende per prolungare quella visione luminosa. L’evangelista Luca precisa che Gesù era in preghiera: è nella preghiera infatti che Gesù incontra il Padre. E’ così anche per i tre testimoni avvolti nella nube della non conoscenza e che tuttavia svela loro la presenza di Dio confermata poi dalla sua voce. Non credo sarebbe nata una realtà come Comunione e Liberazione a prescindere da questo mistero e da questo incontro.
Anche per noi la preghiera è l’incontro col Dio vivente; un dialogo, talvolta, senza parole, nella semplicità. Nello stile di Dio con gli umili. Pregare è allora sorgente di forza, di pace, di amore. Luogo di Alleanza come fu per  Abramo. Notate: la luce della trasfigurazione fa brillare quel volto che dovrà essere sfigurato. La gloria si manifesta nel momento in cui Gesù ha risolutamente intrapreso il cammino verso Gerusalemme (è l’ora del suo esodo). E’ appunto in “quel mentre” che umanamente si vorrebbe sfuggire nel quale accade l’evento della trasfigurazione.
Nella trasfigurazione c’è un incontro con gli altri.
Nella trasfigurazione c’è una conversazione a più voci: Uomini si intrattenevano con lui: Mosè che aveva ricevuto la rivelazione del nome di Dio durante la conversazione davanti al roveto ardente, Elia il profeta rude che tra le rocce dell’Oreb è inseguito e poi raggiunto da Dio. Un vero orante non è mai solo! La preghiera mette sempre in comunicazione con altri. La preghiera trasfigura lo sguardo sul prossimo e, se necessario, aiuta ad andare oltre le difficoltà nei rapporti. Nella preghiera “entrano” i presenti e gli assenti e chi prega diventa un “avvocato” che intercede per gli altri. Nella preghiera risuonano le parole del Salmo Ti darò in eredità le genti (Sal 2,).
Nella trasfigurazione c’ è un incontro con se stessi.
Chi prega veramente entra in un rapporto di verità con se stesso. Mette a nudo la sua vita davanti a Dio. Non è più possibile tenere la maschera. Allora nello spogliamento di sé e del proprio orgoglio l’orante si vede come Dio lo vede. E quello di Dio è sempre uno sguardo di tenerezza. Chi prega si sente accolto come il pubblicano al tempio, come la donna silenziosa, come il figlio prodigo della parabola… Chi coltiva la preghiera prepara la trasfigurazione del vivere quotidiano: vede con occhi diversi le prove, le fatiche, gli insuccessi, le fragilità. Egli trasfigurerà il nostro corpo mortale e lo renderà conforme al suo corpo glorioso. Quel corpo glorioso che gli apostoli contemplano sul monte noi lo contempliamo nell’Eucaristia. E’ il segno e la garanzia della trasfigurazione della nostra terra e del nostro popolo. Come una anticipazione. Viviamo la Messa così e, come Pietro, poter dire: E’ bello per noi stare qui ascoltando Mosè ed Elia, guardando Gesù nella sua gloria. Allora non ci metteremo a ridere della promessa di Dio. Ed anche se la visione del mondo trasfigurato e riconciliato dura solo un’ora saremo capaci di scendere alla valle della nostra responsabilità con più fede e più coraggio, costruendo tende di incontro, di accoglienza, di compagnia e di fiducia tra la gente.

Percorsi di Teologia

Marcia-Veglia missionaria

24ore per il Signore: Liturgia penitenziale per i giovani

Giornata della donna

Omelia I Domenica di Quaresima

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Parrocchia della Riconciliazione (Rimini), 14 febbraio 2016

Mio babbo di tanto in tanto, rigorosamente in dialetto ferrarese, tornava con questa domanda: «Perché il Signore non è sceso dalla croce davanti agli occhi di tutti? Sarebbe stato uno spettacolo convincente per tutti!». Non sapeva di usare – lo faceva senza malizia – le stesse parole del tentatore.
Il diavolo, con la grande tentazione nel deserto, mette alla prova Gesù in un momento delicato e di debolezza: sta per iniziare la sua vita pubblica (come si svilupperà? Come finirà?) ed è stremato da quaranta giorni di deserto e di digiuno. Sta per incominciare il cammino verso Gerusalemme e il combattimento. Il diavolo sferra l’attacco, ma non riesce a piegare Gesù. Tornerà al tempo stabilito (l’evangelista adopera un verbo che allude all’azione di chi dopo averla arrotolata, srotola la sua tela o la sua rete). In altre parole, il diavolo metterà alla prova Gesù in un altro momento di estrema debolezza, nel momento della croce. Lo farà per interposta persona. Sono i capi del popolo, i soldati e uno dei ladroni a riprendere, quasi alla lettera, le parole delle tre tentazioni: Se sei il Figlio di Dio, scendi dalla croce.
Il contenuto delle tentazioni, nel deserto come sotto la croce, è il medesimo. Si tratta di una tentazione “vocazionale”, riguarda il modo di interpretare la vocazione di messia. Gesù potrebbe fare il messia con un “pieno” di successi ottenuti con show spettacolari, ma rimane fedele al cammino che il Padre gli ha assegnato. Diavolo, significa divisore. Il tentatore si propone di dividere Gesù dal Padre: «Sei solo; se non pensi tu a te stesso, chi ci pensa?». Gesù vince perché si fida del Padre: farà il messia secondo il suo disegno. Sarà un messia umile e povero. Alla fine sbaraglierà del tutto il nemico restando sulla croce.
E’ molto opportuno, all’inizio di ogni Quaresima, tornare sulle tentazioni di Gesù, pagine drammatiche utili e necessarie per il nostro cammino di fede (stupenda e intrigante la lettura che ne fa F. M. Dostoevskij nella Leggenda del Grande Inquisitore dal romanzo I fratelli Karamazov).
La prova è data per crescere, per rafforzarci e per… vincere! La vita sta davanti a noi come un rigo musicale: dobbiamo scriverci le note del nostro spartito. Se non ci fossero tentazioni, probabilmente, non espanderemo a pieno la nostra personalità, la nostra libertà, le nostre potenzialità. Gli imperatori romani, come tanti altri tiranni della storia, hanno usato il criterio del “panem et circenses” per dominare e narcotizzare i sudditi. Ci sono giovani che finiscono male perché hanno avuto tutto dai loro genitori e gli è stata risparmiata ogni frustrazione.
La tentazione non è peccato: è un’occasione di progresso spirituale. Né il Signore permette che siamo tentati al di sopra delle nostre forze. In ogni caso sentire la tentazione non è ancora acconsentire. Ai santi non sono state risparmiate: talvolta il loro combattimento è stato un durissimo, un corpo a corpo col diavolo.
Ci sono armi per vincere? Sì, e molto efficaci. La prima è il ricorso alle parole di Gesù, da richiamare alla mente mentre siamo tentati. Preghiamo come Gesù ha insegnato nel Padre Nostro: Padre, non farci cadere nella tentazione.

Discorso del Vescovo in margine alla Conferenza sul tema: “Ogni uomo è mio fratello”

Sala Montelupo di Domagnano, Venerdì 12 febbraio 2016

Desidero ringraziare chi ha organizzato questa serata e gli altri appuntamenti che hanno caratterizzato questa “38a Giornata per la vita”. Senza dimenticare l’incontro di preghiera per la vita nascente, tenutasi quest’anno contemporaneamente in vari centri della diocesi di San Marino-Montefeltro. Esprimo il mio compiacimento per il lavoro che svolgono le nostre associazioni che si mobilitano, non solo in queste circostanze ma durante tutto l’anno, su questa frontiera. E, se necessario, offro tutto l’incoraggiamento.
Questa sera il tema dell’incontro, “ogni uomo è mio fratello”, viene storicizzato nella tragedia che sta vivendo il vicino Oriente, la Siria in particolare. Siamo impazienti di sentire testimonianze di prima mano. Ma consentitemi un “fuori pista” che ci interpella nell’attualità sammarinese e italiana.
Quest’anno la Giornata per la vita si celebra mentre è in corso nel Parlamento italiano il dibattito sulle unioni civili per le persone omosessuali (su questa circostanza mi sono espresso firmando una dichiarazione congiunta degli Uffici pastorali) e si è avviata una pressante campagna per la “dolce morte”. Più in generale, nello scenario culturale nel quale ci muoviamo, l’idea stessa di famiglia si è fatta indistinta e sembra inarrestabile la spinta per una procreazione sganciata dalla famiglia e medicalizzata fino a farne una variabile indipendente dalla stessa sessualità. Tutto questo mentre il nostro modello di famiglia e di procreazione deve misurarsi con le culture immigrate e mentre la colonizzazione ideologica del gender (papa Francesco) tenta di cancellare la più forte e radicata tra le appartenenze identitarie, quella sessuale.
Oggi più che mai questione antropologica è sinonimo di questione sociale.
Conosco tante famiglie impegnate ad offrire il loro contributo per una cultura di speranza e di resistenza alla cultura dello scarto.
Oggi non abbiamo bisogno di battaglie ideologiche quanto – ferma restando la chiarezza dei principi e dei valori – di gettare ponti e trovare sinergie, anzitutto tra noi: movimenti, associazioni, gruppi di ispirazione cristiana, e poi in mondi “lontani” (ecologisti, femministe, etc.), ma come noi preoccupati dalle derive di una cultura individualista e da una economia che riduce l’uomo stesso a oggetto di consumo.
Penso, soprattutto, a quanti fanno politica in nome della solidarietà, ai quali riesce sempre più difficile tollerare l’ingiustizia e le difficoltà di vita delle famiglie più povere, espropriate anche della loro fecondità. Vorremmo, al di là delle appartenenze, far giungere a tutti il nostro patrimonio di idee (Dottrina Sociale della Chiesa), ma anche il sostegno e l’attenzione che meritano.

+ Andrea Turazzi
Vescovo di San Marino-Montefeltro