Omelia nella V domenica di Quaresima

San Marino Città (RSM), 29 marzo 2020

Ez 37,12-14
Sal 129
Rm 8,8-11
Gv 11,1-45

A prima vista pare un semplice miracolo, un gesto di potenza da parte di Gesù, che fa rivivere un morto per consolare una famiglia disperata. In realtà, al centro del racconto vi è Gesù con le sue clamorose dichiarazioni. Attorno a lui si muovono vari personaggi, che prendono diverse posizioni. Propongo un esercizio per la preghiera: in quale dei personaggi mi identifico? Quale posizione prendo?

Qualcuno potrebbe decidere di mettersi nel gruppo dei discepoli che assistono alla scena e vi partecipano. I discepoli sanno quanto Gesù era amico di Lazzaro; dicono tra loro: «Vedi come lo amava». E poi, rivolgendosi a Gesù, provano a consolarlo: «Il tuo amico è in fin di vita. Ci dispiace. Per lui è finita. Rassegnati. Fattene una ragione e pensa ad altro». Anche loro amano Gesù, ma di fronte al dolore, alla morte, alla sconfitta, sanno solo cercare di chi è la colpa. L’abbiamo sentito nella pagina evangelica di domenica scorsa (il racconto del “cieco nato”): «Se è cieco, di chi è la colpa? Sua o dei suoi genitori?». I discepoli sono solo capaci di fare condoglianze. Gesù, invece, non sopporta i soliti discorsi. «Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio». Un invito a capire come questa sconfitta possa essere trasformata in luce, in vittoria, dai disegni di Dio.

Qualcuno di noi potrebbe mettersi nei panni dei parenti di Lazzaro. Costoro sono credenti, ma la loro è una fede interessata, incline a chiedere miracoli: «Non poteva far sì che questi non morisse?». Non chiediamo tanto – sembrano dire – solo un po’ di salute, qualche anno in più di vita; quasi che il Signore – questo è il retropensiero – fosse tirchio, insensibile; mentre invece lui sta per offrire molto di più: la vittoria sulla morte. Dirà, infatti: «Tuo fratello risorgerà». Altro che tirchio e insensibile! Gesù piange, si commuove. Questa mattina il Santo Padre ha invitato a fare di questa giornata “la giornata delle lacrime”. Gesù ha pianto varie volte nella sua vita terrena, perché si è messo nei panni delle persone. Non guarda insensibilmente. Ha pianto su Gerusalemme, che non accettava l’invito alla conversione, ha pianto nel giardino del Getsemani e piange per la partenza dell’amico Lazzaro. Forse in questi giorni, travolti dalle cronache dei telegiornali, può succedere che si formi come una patina nel nostro cuore, non per cattiveria, ma quasi per difesa. Non ci si lascia commuovere fino in fondo, a meno che non sia coinvolto uno di famiglia o un amico intimo. Proviamo, quando entriamo nella preghiera, a lasciarci commuovere, come Gesù. Chiediamo il dono di saper piangere.

Qualcuno di noi potrebbe identificarsi nelle sorelle di Lazzaro, Marta e Maria, ognuna col suo temperamento. Marta e Maria compiono un vero itinerario, un vero cammino di fede. All’inizio sono renitenti, anche loro si lamentano come gli altri: «Se tu fossi stato qui… Ora è troppo tardi». Ma poi l’affetto per Gesù riveste in loro la speranza: «Sappiamo che risorgerà nell’ultimo giorno». Un’ulteriore provocazione di Gesù le invita ad andare oltre la comune speranza ebraica nella vita eterna, a credere che chi è unito a lui nella fede e nell’amore risorge già ora, esce dal sepolcro. Del resto, l’evangelista Giovanni ci dirà nella Prima Lettera che «passiamo dalla morte alla vita quando amiamo» (cfr. 1Gv 3,14). È vero che si muore tante volte nella vita, basti pensare ai distacchi, agli abbandoni, ai fallimenti, alla malattia, all’invecchiamento (tutte morti in qualche modo), ma è anche vero che si comincia da bambini, poi si va avanti da giovani, da adulti e da anziani, ad amare e ogni volta che si ama – lo dice la Parola di Dio – «si passa da morte a vita». Quanta risurrezione anche in questi giorni così difficili! Dedizione agli altri, a volte a distanza, ma c’è una prossimità più forte che si raggiunge con la preghiera e con l’uso di mezzi di comunicazione (c’è chi, in questi giorni, si è finalmente “alfabetizzato” e riesce a usare meglio il cellulare, il computer, le videochiamate, a fare riunioni in videoconferenza… Attraverso questi mezzi si trova comunione, ci si aiuta, si fanno riflessioni costruttive). Ebbene, le due sorelle fanno tutto questo cammino. «Non ti ho detto che se credi vedrai la gloria di Dio?»: sono parole che ci fanno crollare e ci fanno ricordare che Lazzaro è stato rianimato, ma non fu risurrezione definitiva, perché poi è morto di nuovo. Se uno crede in Gesù, vive con lui, sta con lui, fa questa esperienza di fede profonda. Chiediamo a Gesù che ci doni la fede, chiediamo a noi di alzare lo sguardo. Lui ci dice: «Guardami!». Gli antichi raffiguravano la morte come il passaggio di un fiume. La creatura, quando è sul bordo di questo fiume, ha paura, non osa avanzare, prende il sopravvento l’insicurezza. È normalissimo. Gesù tende la mano e dice «guardami, abituati ad essere sotto questo mio sguardo». Questa settimana ascolteremo il suo invito: «Guardami, stai con me». Questo ci preparerà a vivere la risurrezione.

Settimana dal 29 marzo al 5 aprile

Preghiera presso il cimitero di Pennabilli

27 marzo 2020

1.

In questi giorni di epidemia le nostre comunità cristiane si adeguano responsabilmente a quanto chiedono le autorità, ma non rinunciano a vivere meglio possibile il messaggio del Vangelo ed a testimoniarlo, oggi anche con la visita ai cimiteri. Un’opera di misericordia. Sono qui nel campo santo di Pennabilli, la città vescovile centro della Chiesa particolare di San Marino-Montefeltro. Ma idealmente varco la soglia di tutti i cimiteri della Diocesi per fare una preghiera di suffragio, specialmente per quanti sono morti a causa del Coronavirus.
Sono qui per sentire il respiro della Chiesa intera: Chiesa che è nello stato di purificazione, Chiesa dei beati che sono già nella luce e nella festa del Cielo, Chiesa di noi che siamo nel tempo dell’esodo e della lotta. Non tre Chiese, ma un’unica Chiesa corpo mistico del Signore e sua sposa.
Son qui per compiere un gesto di misericordia verso chi ci ha lasciato senza poter dare un ultimo saluto ai suoi cari, senza quella stretta di mano che fa sentire vicinanza e “compassione”, senza un rito funebre nel quale le famiglie, gli amici e la comunità esprimono la loro pietà.
Infine, sono qui anche per promettere che – quando la prova sarà superata – renderemo loro onore insieme ad una preghiera corale di suffragio.

2.

La pandemia mette in crisi quella supponenza che può tradursi in dimenticanza della nostra fragilità fino a nascondere la morte. Come discepoli di Gesù crediamo nella risurrezione e in forza di questa nostra fede attendiamo la vita eterna senza confonderla con la pretesa e l’illusione di essere immortali. Come creature siamo mortali e la morte, unitamente alle tante morti che dobbiamo attraversare nella vita, è parte integrante della nostra umana avventura. “Memento homo quia pulvis es et in pulverem reverteris”. In questo momento in cui tanti si rendono conto, quasi improvvisamente, di essere mortali, come Chiesa, insieme e pubblicamente, abbiamo un messaggio da testimoniare e da trasmettere in forza del nostro Battesimo e del mandato ricevuto da Gesù (cfr. Mt 28,19-20).

3.
L’annuncio della speranza cristiana si fa ancora più urgente e forse persino più udibile e atteso dai nostri fratelli e dalle nostre sorelle in umanità.
È il momento di una testimonianza discreta e appassionata della “speranza” che ci abita e ci anima (cfr. 1Pt 3,15).
Con questa consapevolezza diventeremo capaci di quell’ottimismo che è l’unico ad essere alla portata della nostra umanità.
Annunciare il Vangelo della vita comporta la capacità e il coraggio di stare dentro la sofferenza e persino la morte. La morte è chiamata nella liturgia “dormizione”, e i luoghi dove i morti dormono in attesa della risurrezione sono chiamati “cimiteri”, cioè “dormitori”, ma si deve considerare che la serenità della nostra morte è frutto della “dura morte” del Signore Gesù che l’ha vissuta non come liberazione dalla vita, ma come dono per affermare che l’amore è più forte della morte.
San Paolo nella Prima lettera ai Tessalonicesi – il primo scritto del Nuovo Testamento – scriveva: «Non vogliamo fratelli lasciarvi nell’ignoranza circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza. Noi crediamo, infatti, che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui. Questo vi diciamo sulla parola del Signore… Confortatevi dunque a vicenda con queste parole» (1Tes 4,18).
In questa esortazione c’è compassione e c’è fede. Del resto, la liturgia cristiana non conosce lacrime, se non lacrime asciugate.

Settimana dal 23 al 29 marzo

Preghiera in tempo di Coronavirus

Gesù è con  noi
Cammina con noi

Chi racconta queste storie?
Che Gesù Cristo rimane chiuso?
Lui è vestito di bianco,
è con la mascherina negli ospedali
e sulle ambulanze e nelle persone in servizio.

Chi dice che il Nazareno
non fa la penitenza,
se sta nel pronto soccorso,
ai malati prestando assistenza.

Continua a leggere

Omelia nella IV domenica di Quaresima

San Marino Città (RSM), chiesa di san Francesco, 22 marzo 2020

1Sam 16,1.4.6-7.10-13
Sal 22
Ef 5,8-14
Gv 9,1-41

Questa stupenda pagina di Vangelo è la storia di un uomo che soffre: un cieco dalla nascita; un cieco dal punto di vista clinico, ma soprattutto dal punto di vista esistenziale. Noi spontaneamente lo pensiamo innocente, ma nella mentalità dell’epoca, quando c’era una malattia, si cercava sempre un colpevole: «È colpa sua o dei suoi genitori?». Quindi, il cieco è vittima di un giudizio di tutti, a cominciare dai discepoli di Gesù (sono loro che pongono la questione). È vittima anche della legge e della intransigenza dei farisei; vittima, perfino, della emarginazione della sua famiglia. «Ha l’età – dicono – parlate con lui…» (cfr. Gv 9,21). È il dramma dell’isolamento, della solitudine dell’uomo che soffre. Questo pensiero raggiunge certamente chi, in questo momento, vive una situazione simile. Ma a questo dramma partecipa Gesù. Non sappiamo il nome del “cieco nato”; non sappiamo nulla di lui. Gesù lo guarisce nonostante sia sabato. Ma questo non fa che scatenare il furore dei farisei che pensano addirittura di mettere a morte Gesù. Un giorno Gesù conoscerà, per esperienza diretta, l’abbandono da parte di tutti, la sofferenza, la solitudine. Verrà crocifisso fuori dalla città. L’uomo che recupera la vista è davvero una persona semplice, che ci riesce simpatica. Si lascia fare da Gesù quello che gli dice: prende l’impiastro che Gesù ha preparato, va a lavarsi gli occhi a Siloe e poi testimonia, con semplicità e coraggio, a chi gli fa domande. Sette volte viene interrogato. Per lui non c’è nessuna ombra, nessun dubbio: «Non ci vedevo, adesso ci vedo». «Perché tentennare tanto?», sembra dire il cieco. Non basta questo segno? Per questa sua bella disposizione di cuore quest’uomo accoglie la luce. Ad essere illuminata non è soltanto la sua esistenza fisica, ma anche la sua vita interiore. Così, lui potrà fare la sua bella professione di fede: «Io credo, Signore». Quella cecità esistenziale trova la luce, il senso della sua vita.
Questa mattina il Santo Padre, durante la Messa in Santa Marta, ha aperto il suo breve pensiero citando una frase di sant’Agostino: «Ho paura del Signore che passa». Ha spiegato che non si tratta della paura del Signore: sant’Agostino non aveva paura di Gesù, come non l’abbiamo noi. Ma paura di perdere un’occasione preziosa. Paura di non accorgersi del suo passaggio. Paura perché al suo passaggio vengono fuori i veri sentimenti: esce il meglio e il peggio! In effetti, vediamo nel brano quasi una divaricazione tra le persone che sono davanti a Gesù. Gesù dice: «Io sono la luce del mondo; di fronte a me non si può restare indifferenti». Il cieco si apre; i farisei si chiudono ostinatamente. Anche noi siamo posti di fronte a questo dramma, perché il Signore potrebbe risplendere invano davanti a noi, se ci chiudiamo. Nella Seconda Lettura, Paolo dice agli Efesini: «Badate bene, voi non siete delle tenebre, siete della luce» (cfr. Ef 5,8). Bisogna situare nel contesto questa frase di san Paolo. Molti dei primi cristiani abitavano nei tuguri a ridosso del grande tempio, l’Artemision. Era un tempio meraviglioso, un traforo di marmi bianchi, splendenti, una delle sette meraviglie del mondo antico. Davanti al tempio era stato scavato un lago che rifletteva la luce del sole. L’Artemision era il manifesto della presunta luminosità della religiosità pagana. Di fronte ad esso san Paolo dice: «Voi siete luce». I cristiani non devono temere. Non devono stare nel buio come i pipistrelli. Devono portare la luce.
Invito tutti noi ad avere questa mentalità di luce. Gesù ci ha illuminati. È accaduto nel Battesimo. Come dicevamo la scorsa domenica, non siamo soltanto anfore riempite di acqua, ma siamo, a nostra volta, sorgenti di acqua. Così oggi possiamo dire, in virtù del Battesimo, che siamo sorgenti di luce.
Faccio una proposta per questi giorni. Vorrei fossimo uniti tra noi: uniti facciamo più luce, con le parole dell’amicizia, dell’incoraggiamento, della speranza. Troviamo il modo in famiglia di fare una preghiera semplice, intonata dai bambini, che sono più disinvolti e coraggiosi, e in quel momento accendiamo una piccola luce. Ci ricorderà la luce che ci è stata data nel giorno del nostro Battesimo.

Fattiva collaborazione per il bene comune

È Quaresima inoltrata. Per i cristiani è il tempo del loro esodo: un cammino reale che li sottopone, come tutti, ad una prova che purifica la loro fede e la loro azione. C’è chi immagina un Dio che dovrebbe fare esattamente quello che ci si aspetterebbe da lui, ossia sconfiggere il male in un baleno, ma è una figura costruita sui propri bisogni.
La realtà ci sta mettendo davanti al Dio vero, quello della Rivelazione biblica: un Dio che ascolta il grido di Israele e fa udire la sua voce a Mosè; spinge il popolo a mettersi in cammino, mentre lui cammina con loro, e apre il mare al suo passaggio. Ma in fondo questo Dio non piace, perché costringe chi vuole conoscerlo davvero ad andare nel deserto dove non c’è il cibo dell’Egitto, l’acqua scarseggia e i serpenti sono una minaccia reale. Affrontando la prova il popolo diventerà adulto. Dunque, non una fede in un Dio “tappabuchi”, né una fede miracolistica, ma una fede come abbandono fiducioso e coraggio intraprendente fino al dono di sé. Riprenderemo, poi, le attività e il servizio pastorale come discepoli più maturi.
Da oggi si aggiungono restrizioni ulteriori sui luoghi di culto. Decisione presa dalla Repubblica di San Marino con Decreto-legge n.52 del 20/3/2020, art.1 n.1.r.
Motivazione: ragioni di prevenzione e di contenimento del contagio.
Una decisione così radicale sta suscitando reazioni comprensibili: la rivendicazione del libero esercizio del culto e la possibilità della “chiesa aperta” come segno di speranza (anche se, di fatto, non si dovrebbe andare in chiesa per le limitazioni di movimento già stabilite). Reazioni degne di rispetto. Occorre, però, riflettere senza spinte emotive e riconoscere che la situazione che le autorità son chiamate a governare è di una complessità mai vista, della quale possiamo cogliere solo alcune evidenze. Non spetta alla Chiesa, ma allo Stato legiferare in ordine alla salute pubblica.
È questo e soltanto questo il piano sul quale si devono assumere decisioni circa l’accesso ai luoghi di culto, senza richiamare principi che sanno tanto di ideologico. Prudenza e cautela sono per i cattolici, anzitutto, ossequio alla loro coscienza. In tempo di emergenza come quello presente la comunità cristiana sa trovare vie nuove per adorare Dio «in spirito e verità» e per esprimere fraternità solidale, come già sta cercando di fare.

Continua a leggere

Omelia nella Solennità della Beata Vergine delle Grazie

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 20 marzo 2020

“Venerdì Bello”

Prv 8,22-31
Sal 44
Ef 1,3-6.11-12
Lc 1,26-38

1.

La liturgia della Parola ha esordito con un tratto del libro dei Proverbi. Vi sono riferite espressioni fortissime: «Il Signore mi ha creata sin dall’inizio della sua attività, prima di ogni sua opera. Dall’eternità sono stata costituita, fin dal principio quando ancora non aveva fatto la terra e i campi e le prime zolle del mondo, quando fissava i cieli, io ero là». Parole che si riferiscono alla Sapienza increata di Dio, parole che si riferiscono, leggendole nel contesto di tutte le Sacre Scritture, al Verbo. Il Concilio Vaticano II ci autorizza ad applicarle alla Madre del Signore, allo stesso modo fa anche la liturgia. Così dice la Lumen Gentium: «La predestinazione eterna della incarnazione del Verbo fu anche la predestinazione della Beata Vergine Maria ad essere la Madre di Dio. […] Assunta in Cielo non ha deposto questa funzione di salvezza, ma con la sua molteplice intercessione continua ad ottenerci le grazie della salvezza eterna. Con il suo materno amore si prende cura dei fratelli del Figlio suo che sono ancora pellegrini e posti fra tanti pericoli ed affanni» (LG 61).

2.

Predestinazione della missione redentrice del Verbo e, in lui, predestinazione della madre… Che bello!
Anche noi predestinati da Dio, come dice la Seconda Lettura, «ad essere suoi figli adottivi» (Ef 1,5), conformi al Verbo, «primogenito di tutta la creazione» (Col 1,15). Siamo pensati dall’eternità, pensati nel Verbo e pensati con una Madre così! Quello che è detto per il Verbo incarnato vale per tutta la Chiesa, per tutti noi. La Chiesa è prefigurata fin dal paradiso terrestre, nella figura di Eva; ma in realtà ancora più anticamente, cioè da sempre, occorre vederla in Dio, prima dell’inizio del mondo: «Essa fiorisce con il Cristo dalla volontà del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. In quella misteriosa sapienza che presiede con il Creatore alla creazione stessa si deve ravvisare la Chiesa» (H. De Lubac, Meditazione sulla Chiesa, 2014, p. 52). Che bello questo disegno su di noi, questo squarcio che abbraccia passato, presente, futuro! A questa contemplazione ci conduce la Seconda Lettura.

3.

Il Vangelo ora ci prende per mano e ci fa entrare nella casa di Nazaret. Dal Cielo del Cielo, al Cielo sulla terra: Nazaret. Entriamo nella casa di Nazaret in punta di piedi. Impariamo alla scuola di Maria il raccoglimento, condizione prima e indispensabile per andare in profondità ed ascoltare quello che il Signore vuole dirci, oggi e in questo tempo così difficile.
L’angelo entrò da lei, la fanciulla di Nazaret. Anche la mia Nazaret, pur tra tante voci che l’attraversano, può essere casa del raccoglimento, atmosfera spirituale, spazio formativo. Un luogo interiore ed un luogo esteriore, vero angolo di preghiera, forse disadorno, ma col sapore di quella casa, la casa di Nazaret. È lì che Dio mi sfiora, mi passa accanto. Dio non ci sfiora solo nelle belle liturgie della nostra cattedrale, in quella che avremmo dovuto celebrare al Santuario della Madonna delle Grazie (accanto a me potete vedere la riproduzione di come era anticamente l’affresco della Madonna; probabilmente le persone più anziane la ricordano così), ma anche nel quotidiano più feriale. Così in questa Messa, dove il sublime confina con questa candida tovaglia, con il calice e con il pane che è stato preparato.
Nazaret è anche il nostro cuore, quando lo custodiamo e lo difendiamo dal chiacchiericcio, dalla impertinenza dei giudizi, dall’invadenza dell’immaginazione e, in questi giorni, dalle nubi oscure della disperazione e del panico.
La prima parola che esce dalla bocca dell’angelo è una parola di gioia: «Rallegrati, Maria». Anche nel mondo antico c’era ben poco da stare allegri. È troppo riduttivo pensare a questa parola e tradurla con “Ave”. Le parole del saluto angelico appartengono più alle promesse messianiche che al galateo; invitano Maria alla gioia prima ancora che si espliciti il dialogo con le sue conseguenze. Non si tratta di una gioia effimera e intimistica. È gioia per un amore incondizionato che precede la sua vita; per una presenza che renderà colma di significato la sua esistenza e decisiva la sua missione verso l’umanità. Allo stesso modo Dio vuole entrare nella nostra vita, vuole abitare la nostra povertà, fecondare le nostre sterilità, illuminare il nostro buio. La parlata dell’angelo a Maria è costituita da un rammendo di citazioni bibliche. In questo modo viene svelato alla Vergine il compimento delle antiche promesse. Ed è ciò che fa prendere coscienza a Maria del suo destino eccezionale e che a noi annuncia la vera identità del nascituro. Colui che la fanciulla di Nazaret sta per concepire è il Messia! Dio finalmente visita il suo popolo. Noi non sapremo mai come è avvenuto il concepimento, ma questo non è essenziale: dobbiamo rispettare l’intimità di una donna. Anche nella nostra vita è accaduta un’annunciazione: il Verbo vuol prendere carne in noi. Come Maria gli diciamo: «Eccomi!».

4.
La mia riflessione cambia un po’ di tono – perdonatemi – ma è necessario. Dobbiamo porci onestamente e con molto rispetto una questione di non poca importanza: se cioè la protesta, anche garbata, contro le restrizioni imposte dalle autorità (ma prima dalla nostra coscienza) in questi giorni, è animata dalla fede o non piuttosto da una religiosità che va purificata. Quello che sto dicendo non è estraneo alla spiritualità nazaretana, ad una spiritualità profondamente mariana. Attenzione a non lasciarsi catturare dal falso zelo. Questo tempo ci impone un digiuno eucaristico che per noi costituisce una novità, una novità che fa soffrire, ma purtroppo è una triste necessità in tante regioni del mondo in cui mancano i sacerdoti o non vi sono le condizioni per celebrare la Messa. Mi sovviene il pensiero alla Chiesa perseguitata; ricordo la testimonianza del vescovo Van Thuan, di come tentava di celebrare, quando gli era possibile, nelle prigioni dei Viet Cong; penso ai cristiani delle regioni sterminate di alcune zone dell’America meridionale, dove c’è un sacerdote per un territorio vasto come l’Emilia Romagna; penso sommessamente anche ai cristiani che per la loro condizione di vita familiare non possono ricevere l’Eucaristia, pur desiderandola fino alle lacrime. Stiamo assistendo ad una “domanda di Eucaristia” che è di conforto. Quasi sempre questa richiesta esprime un desiderio che è frutto di una vita spirituale intensa. Ma l’atteggiamento di alcuni, senz’altro in buona fede, ci fa comprendere che vi sono degli aspetti da mettere a fuoco. Parafraso un pensiero espresso da un mio confratello vescovo: «Nella richiesta troppo insistente dell’Eucaristia non di rado c’è fede sincera, ma non sempre matura. Si dimentica che la salvezza viene dalla fede e non dalle opere, benché sante, sicché ci si affida alle buone pratiche senza confidare in Dio, al punto da stimare i suoi doni più di Dio stesso, più della sua volontà. Come bambini si afferra avidamente il dono senza ascoltare le parole amorose di chi lo porge. Si è concentrati più sul proprio grido che sul volto di Colui che si china per ascoltarci».
Questo ci dice che c’è un grosso lavoro da fare per aiutarci tutti a cogliere il senso e la profondità del Mistero eucaristico e si possono sperare grandi frutti da una catechesi ben fatta, che faremo. Intanto però occorre ricordare che il Signore è realmente presente con il suo Spirito tra coloro che sono riuniti nel suo Nome: «Dove due o più sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20). Queste parole escono dal cuore di colui che ha detto: «Questo è il mio corpo… Prendete e mangiate» (cfr. Mt 26,26). Queste e quelle ugualmente “vere”. È presente nella Parola e continua realmente a nutrire chi la legge e la medita: «Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (cfr. Mt 4,4). Il Signore vivo si fa prossimo nel povero: «Avevo fame, mi hai dato da mangiare…» (cfr. Mt 25,31-46). Il Signore è nel desiderio stesso dei sacramenti: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20). Inoltre, ha la sua dimora in chi osserva i suoi comandamenti: «Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore» (Gv 15,10). «Voi siete i tralci, io sarò la vite. Chi rimane in me produce molto frutto» (Gv 15,5). Termineremo la celebrazione eucaristica con l’atto di consacrazione alla Madonna.

Omelia nella Solennità di San Giuseppe

Pennabilli, Cappella del Vescovado, 19 marzo 2020

2Sam 7,4-5.12-14.16
Sal 88
Rm 4,13.16-18.22
Mt 1,16.18-21.24

Questa mattina papa Francesco, commentando il Vangelo sulla figura di san Giuseppe, evidenziava come egli fosse un contemplativo, un uomo di fede perché contemplativo, cioè capace di adorazione. E il Papa arrivava a dire: «La Chiesa, o adora, o è come dimezzata».
Non ho la presunzione di aggiungere nulla a quello che ha detto il Santo Padre, però mi incombe il dovere di fare una breve omelia. Vedo in Giuseppe l’uomo della fede, l’uomo della speranza e l’uomo della carità.
Giuseppe, uomo della fede. Giuseppe si consegna interamente al progetto disegnato da Dio su di lui. Angeli e sogni lo accompagnano… Ma non è così anche per noi? Pensate agli angeli che ci hanno aiutato a crescere, che ci hanno aiutato a scoprire la nostra vocazione e a trovare la nostra strada e agli angeli che ci stanno indicando, anche adesso, la via del Cielo. Inoltre, tolti i fatti della prima infanzia di Gesù narrati dai Vangeli, non ci furono “svolazzi di angeli” su Giuseppe, nè sulla casa di Nazaret.
Giuseppe, uomo della speranza. Passando davanti al paese di Maciano (vicino a Pennabilli), ho visto che, sul davanzale di una casa, i bambini hanno messo un grande cartellone con la scritta: «Andrà tutto bene». I bambini hanno il diritto di dire queste cose. Incoraggiano anche noi. Come firma del cartellone hanno messo l’impronta delle loro mani.
Chiedo: che cosa intendiamo per speranza? Si può parlare di speranza in tre modi. C’è la speranza che è come una bugia pietosa, utilizzata quando non ci sono parole e si deve confortare o incoraggiare. La classica bugia che accompagna “la pacca sulle spalle”. Nella letteratura classica si racconta di Pandora, il personaggio della mitologia che deve castigare gli uomini per aver rubato il fuoco agli dei. Per castigare gli umani Pandora, mandata da Zeus, svuota il suo vaso di tutti i mali possibili che vi sono racchiusi; l’ultimo male, quello che è più in fondo, è la speranza, che inganna i mortali (pietosa bugia).
Poi, c’è la speranza in una seconda accezione: la speranza come risorsa umana. Non è solo caratteristica di un buon temperamento, ma anche capacità di proiettarsi sul futuro. Sono sicuro che l’umanità si riprenderà da questa grande crisi; la speranza è sicuramente quella che anima gli scienziati, i politici, ma anche tutti noi. Tuttavia, questa speranza si arresta di fronte alla morte. Si può parlare della speranza anche in un altro modo. Noi l’abbiamo fatto con il nostro Programma pastorale negli anni scorsi, guardando Gesù Risorto. Anche i progetti più nobili, più alti, che riusciamo a raggiungere – pensiamo ai traguardi della scienza, alle conquiste del mondo operaio e alle conquiste delle donne – si arrestano davanti al grande enigma della morte. Cosa c’è oltre? Gesù è risorto, è il fondamento ultimo della nostra speranza. Con la risurrezione è introdotta nel mondo una pienezza di senso.
Giuseppe, uomo della carità. Giuseppe ha compiuto gesti e azioni eroiche nel nascondimento della sua vita e nella casa di Nazaret. Penso alla sua fedeltà nel quotidiano, alla sua premura per la famiglia, al rispetto totale per la sua sposa, all’amore per quel bambino non suo; per questo motivo lo invochiamo come patrono della Chiesa e come intercessore presso la divina Provvidenza e gli chiediamo di provvedere alle nostre necessità, come ha provveduto a quelle della Santa Famiglia. Gli chiediamo di esserci vicino nel momento della morte, come lui ha avuto la grazia di avere accanto a sè Maria e Gesù. San Giuseppe, accogli la nostra preghiera, insegna anche a noi l’eroismo della carità nelle vicende della nostra famiglia e della nostra società.
Questa sera alle ore 21 metteremo una luce o un drappo bianco sul davanzale delle nostre finestre e ci uniremo a tutti i cristiani d’Italia nella preghiera del Rosario che abbraccia tutta la nazione, che abbraccia l’Europa e il mondo intero segnato da questa pandemia. Sia lodato Gesù Cristo.

Periodico Montefeltro marzo 2020