Discorso nel conferimento della cura pastorale della parrocchia di Acquaviva a padre Costantino Tamagnini

Gualdicciolo (RSM), 30 agosto 2020

Accompagno don Costantino nella vostra e nella sua parrocchia di Acquaviva con trepidazione – perché ogni inizio comporta qualche timore – ma anche con tanta fiducia. Noi pastori cambiamo, ma il Pastore, Gesù Risorto e vivo, resta sempre in mezzo a noi (Mt 18,20). Noi pastori siamo chiamati al vostro servizio con lo spirito del “Buon Pastore”. Chiedo al Signore che non manchino nelle nostre comunità pastori secondo il suo cuore.

È una confidenza, noi vescovi della Romagna abbiamo una preoccupazione comune che ci fa soffrire: la mancanza di vocazioni. Il Signore chiama sicuramente! Preghiamo perché i giovani rispondano “sì” all’invito del Signore. È una vita bellissima quella del pastore. So che in questi ultimi anni, per svariati motivi, la figura del prete ha finito per apparire triste, fragile. Un amico sacerdote mi ha scritto che si sente un “vu’ cumprà” perché nessuno gli dà attenzione, gli pare di portare una mercanzia che non interessa. E invece il sacerdote porta la cosa più bella che ci sia, fa quello che ha fatto la Madonna: genera Gesù sull’altare. A volte anche noi vescovi parliamo delle problematicità della vita sacerdotale, ma dovremmo parlare più spesso della sua bellezza, cominciando dal raccontare la nostra esperienza, di come ci siamo innamorati di Gesù.

Restiamo tutti – noi pastori e voi fedeli – in una dimensione di fede: «Pensare secondo Dio e non secondo gli uomini» (cfr. Mt 16,23). Lo dobbiamo ammettere: spesso prevalgono valutazioni superficiali, esteriori, troppo umane. Il sacerdote è chiamato con una speciale grazia a svolgere il ministero. Lo fa, però, con la sua umanità.

Per l’imposizione delle mani (il sacramento del Sacro Ordine) il prete consacra l’Eucaristia e assolve dai peccati.

Per mandato del Vescovo (il prete non è un battitore libero) guida la comunità, educa alla fede, è vicino soprattutto ai poveri e agli ammalati.

Per la sua unione con il Signore vi porta nel cuore (siete l’oggetto delle sue preghiere!), vi ascolta e si sforza di migliorare ogni giorno; attraverso il ministero si fa santo: per noi sacerdoti il ministero è la via in cui ci facciamo santi.

Forse voi vi chiedete: «Qual è il volto della Chiesa che vuole il Signore? In particolare, quale volto deve avere la nostra parrocchia?». Il Pietro di oggi, papa Francesco, ci dà alcune indicazioni: seguiamole. Il volto della Chiesa è fatto dai nostri volti.

Faccio cinque scatti fotografici di come deve essere la Chiesa oggi.

1. Una Chiesa raggiante. Non dobbiamo indulgere ingenuamente a fantasie o a facili fervori, ma è molto bello pensare ad una parrocchia viva, dove i rapporti sono reali e famigliari, ad una parrocchia che parla una sola lingua, che ha entusiasmo; una parrocchia che non cerca privilegi e non considera nessuno nemico, che cerca di essere testimone di Gesù con le sue scelte e con i fatti concreti. La parrocchia lo sarà se ciascuno di noi mette Gesù al centro della sua vita, se lo incontra nell’Eucaristia, se si preoccupa di ricevere il perdono col Sacramento della Riconciliazione, ogni volta che è necessario. La nostra parrocchia deve “dire Gesù” senza annacquare il suo messaggio. Gesù è attrattivo!

 2. Una Chiesa grembo. Vorremmo che la parrocchia potesse essere effettivamente “grembo”, cioè generativa, con queste caratteristiche: accoglienza (nello stile e nella pratica), impegno educativo (prendersi cura dei piccoli), linguaggio rigoroso ma comprensibile, liturgie che danno il senso del mistero (è la liturgia che ci guida, non viceversa), ma capaci di celebrare il Signore nella vita.

 3. Una Chiesa povera. Il vostro parroco proviene dall’esperienza francescana e vi aiuterà a guardare la Chiesa che fa opzione preferenziale per i poveri, per gli ultimi, per i piccoli (cfr. EG 205). Una parrocchia povera sceglie il bagaglio con dentro l’essenziale, invita le persone “a casa sua”, come i servi della parabola evangelica che escono per sollecitare ad andare al banchetto, ma sa anche farsi invitare, come fa Gesù con Zaccheo. Una Chiesa povera è una Chiesa del quotidiano, che mediante gesti concreti sa accorciare le distanze. Penso alle tante iniziative di Castello, dove si può portare la propria collaborazione ed amicizia. Penso al dovere della partecipazione. Sarete sempre più la Chiesa di Gesù quando asciugherete lacrime, quando terrete compagnia, quando scommetterete sulla educazione senza pretesa di avere risultati subito. Chiesa povera, ma con le porte aperte.

 4. Una Chiesa inquieta. Oggi ci appare spesso così! È un volto che, per un verso, dice problematicità. “Inquietudine” fa pensare ad instabilità, ansia: parole che hanno una connotazione di sofferenza e di ricerca. Qualcuno denuncia i cedimenti alla mentalità secolarizzata, altri praticano il “fai da te” in campo disciplinare e pastorale. Stiamo uniti al vescovo, alle direttive della Diocesi, al grande progetto che papa Francesco va tracciando, che ci ha donato lo Spirito Santo.

“Inquietudine” indica anche la situazione, che si protrae da tempo, del passaggio da un cristianesimo sociologico, che coincide con il tessuto sociale, ad un cristianesimo della grazia, perché si decide di rispondere personalmente “sì” al Signore. Ma c’è anche un’accezione positiva nell’aggettivo “inquieto” applicato alla Chiesa: è inquieta una Chiesa protesa verso tutti, nella costante ricerca del dialogo; una Chiesa che è come una madre che non si dà pace per i suoi figli, che cerca senza sosta, si libera da schemi; una Chiesa – come dice papa Francesco – come un “ospedale da campo”, perché è vicina a chi fa fatica, a chi resta indietro, che ricomincia ogni anno, ogni giorno…

 5. Una Chiesa che riscopre i laici alla luce del Battesimo. Un tempo i laici erano passivi nella Chiesa. Oggi si è capito che i laici, in forza del Battesimo, sono consacrati, sono membri del popolo di Dio e in prima linea nel portare Cristo al mondo. Questa nuova visione comporta una grande svolta sul ruolo dei laici anche all’interno della comunità: non solo collaboratori, ma corresponsabili, nei Consigli parrocchiali, nei vari ministeri, nell’Azione Cattolica, nei Movimenti, nella decisione di essere accanto ai pastori.

Questi scatti, se lo vorrete e se il parroco lo vorrà, potrebbero diventare occasione di catechesi, di incontro e di verifica.

Ora mi colloco in un punto strategico del Vangelo: Gesù è sulla croce, ha dato tutto. Gli è rimasta sua madre. Dalla croce Gesù dice a Giovanni: «Ecco tua madre». «E Giovanni la prese nella sua casa» (Gv 19,27). Poi, rivolto a sua mamma, Gesù dice: «Ecco tuo figlio». In Giovanni c’eravamo tutti. A lei siamo stati affidati, siamo stati consacrati a lei da Gesù sulla croce. Questo non è un pensiero devoto… Chiedo alla Madonna, spiritualmente presente fra noi, di avvolgerci con il suo amore materno e in particolare di avvolgere con il suo amore don Costantino. Sia lodato Gesù Cristo.

 

Omelia nella XXII domenica del Tempo Ordinario

30 agosto 2020

Ger 20,7-9
Sal 62
Rm 12,1-2
Mt 16,21-27

Pietro, uomo di acqua, pescatore che ha osato camminare sulle onde del lago in tempesta, è divenuto uomo di roccia con la sua professione di fede messianica: «Tu sei il Figlio di Dio, tu sei il Messia», adesso torna ad essere un terreno scivoloso. A Gesù che ha preannunciato la sua Passione, Pietro,  con parole garbate, quasi con un sussurro cortese, replica: «Signore, questo non ti accadrà mai…». Il punto di partenza del ragionamento di Pietro è questo: «Non è dignitoso un Messia che finisce così, non è opportuno per noi che abbiamo bisogno di sentire qualcuno che ci supporta, di uno che ci dia prova di forza e di potenza». Invece, nella Passione, Gesù sarà calpestato come uno straccio.
C’è un altro motivo che spinge Pietro a parlare così: il suo affetto per Gesù. Non vuole che Gesù soffra.
Gesù interviene e adopera una espressione per la prima e unica volta nel Vangelo: «Tu mi sei di scandalo, mi sei di inciampo». È come se dicesse: «Ho una missione da compiere; la mia vita, come la vita di ogni persona, è una cosa seria e tu vuoi lusingarmi col chiedermi di fare marcia indietro, di rincasare, di tornare tranquillo a Nazaret, di usare la mia intelligenza, la mia forza di persuasione, anche il mio prestigio, e riorganizzare una lotta contro i Romani, liberare la Palestina. Ma dove mi porta questa strada? Non è la strada della Redenzione che il Padre mi ha indicata». Poi continua: «Ti sbagli: non cerco la sofferenza per la sofferenza. Non c’è niente di più estraneo al mio pensiero che il dolorismo. Voglio l’amore e lo voglio con tutte le forze, anche se per amare devo affrontare la lotta, il sacrificio, il rinnegamento di me stesso».
C’è una frase di Gesù che trovo autobiografica: «Quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita?». Proviamo ad immaginare se Gesù avesse ascoltato Pietro e avesse smesso di fare il Messia secondo il suo disegno. Che significato avrebbe avuto la sua vita? Noi siamo portati a cercare il miracolo che ci eviti la sofferenza. La vita comprende questi passaggi. Ognuno di noi ha un progetto da vivere, non possiamo togliere dal progetto le difficoltà e gli ostacoli. Nei giorni che precedevano la partenza di mio fratello padre Silvio per il Congo, papà ripeteva: «Silvio stai a casa, cerchiamo per te una parrocchia insieme ad Andrea…». Se Silvio avesse fatto così quel ponte di solidarietà e di amicizia, fra noi e il Congo, non ci sarebbe stato. Con il suo “sì” la nostra famiglia si è aperta alla mondialità e ne ha ricavato il centuplo.
Potremmo iniziare una nuova settimana con questa parola di Gesù: «Chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà». Vogliamo dire il nostro “sì”, vogliamo restare fedeli alla vita, senza fughe e senza miracolismi.

Calendario Pastorale Giovanile 2020/21

Veglia dei giovani per San Marino

Omelia nelle Esequie di padre Mario Mattei

Secchiano (RN), 25 agosto 2020

Ap 21,1-5a.6b-7
Sal 26 (27)
Gv 11,21-27

1.
Siamo qui per pregare davanti al Signore della vita, il Risorto presente in mezzo a noi. Non dobbiamo mai tralasciare questa consapevolezza, perché il nostro ritrovarci sarebbe – come dice il profeta – una riunione di buontemponi (cfr. Ger 15,17) se non ci fosse la sua presenza tra noi. Veniamo da Lui subito introdotti a pensare al comune destino di risurrezione. «Io – dice Gesù – sono la risurrezione e la vita, chi crede in me non morirà per sempre» (Gv 11,25). Si è sbagliata Marta nel dire: «Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto» (Gv 11,32). Gesù non ha detto che non sarebbe morto, ha detto: «Non sarebbe morto per sempre, in eterno».
Preghiamo per padre Mario, che possa subito abbracciare il suo Signore, e chiediamo a padre Mario di intercedere per noi, per i suoi cari, per la sua mamma. Chiedo la sua intercessione per il dono di tante vocazioni.
La sua vocazione l’ha portato a lasciare presto il suo paese – Secchiano – e la sua Diocesi di San Marino-Montefeltro; era ancora un ragazzo. Come Abramo «partì senza sapere dove andava» (Eb 11,8).
Appassionato di storia e di cultura, padre Mario è stato un ricercatore, uno storico, un archivista dell’Ordine degli Agostiniani. Ha scritto e pubblicato molto. Apprezzato come educatore a Recanati, ad Ancona e a Bologna. Dal borgo di Secchiano a Roma fino ad essere custode dei “beni sacri” del Pontefice, come sagrista in San Pietro e nelle Cappelle private, tra cui la Cappella Sistina.

2.
Che cosa aveva appreso padre Mario da colui che è stato il suo maestro, sant’Agostino? Meglio di me lo saprebbero dire i suoi confratelli e anche le monache di Pennabilli che l’hanno avuto tante volte ospite e sempre amico. Mi hanno detto di lui: «Padre Mario era una persona mite, disponibile, cordiale e generosa. Ha saputo vivere la sua vita, segnata dalla malattia, senza mai rinunciare ad essere generativo, fino all’ultimo». Mi ha colpito molto l’uso di questo aggettivo – “generativo” – adoperato per un consacrato. E in effetti, il “sì” detto nella fede, davvero, è sempre generativo. È stato così con Abramo, ormai anziano e senza discendenza, è stato così per la fanciulla e vergine Maria di Nazaret. L’uno padre e l’altra madre di tutti noi credenti.

3.
Per parte mia, ho ritrovato il cammino umano e spirituale di padre Mario in questa pagina di sant’Agostino, che anche noi possiamo prendere come programma di vita: «Accade a ciascuno di essere portato là dove ha da portarlo il proprio peso, cioè il proprio amore. Chi poi ama il bene sarà trasportato verso ciò che ama. Desideri essere dov’è il Cristo?». «Ama Cristo – risponde sant’Agostino –, e da questo peso verrai trasportato dove si trova il Cristo. Ciò che ti trascina e ti rapisce verso l’alto non ti permette di cadere in basso. Non cercare nessun altro mezzo per salire in alto: amando fai leva, amando sei trasportato in alto, amando ci arrivi» (Sant’Agostino, Discorsi, 65/A, 1; cfr. Confessioni 13,9). Ecco la grande lezione di Agostino, fulminea come una freccia in questa espressione che tante volte sentiamo: «Ama e fa’ ciò che vuoi».

4.
La Parola di Dio ci ha aperto la visione del Cielo, là dove ci porta e ci attrae il nostro amore: il paradiso. La rappresentazione del paradiso è direttamente ispirata dal secondo capitolo della Genesi con l’immagine di un giardino lussureggiante dove tutto sarà donato in abbondanza. Il libro dell’Apocalisse ne parla come di una nuova Gerusalemme, dove Dio asciugherà ogni lacrima, dove non ci sarà più la morte né il dolore (cfr. Ap 21,4). Questi testi si esprimono con immagini, non sono dei reportages. E tuttavia sono importanti: tutte le raffigurazioni hanno in comune promesse di gioia e di pace e, soprattutto, della visione felice di Dio e della comunione con lui.
Sant’Agostino descriveva così il paradiso: «Vedremo. Ameremo. Canteremo» (cfr. La città di Dio, XXII, 30). Vedremo quel volto che abbiamo cercato e desiderato tutta la vita, oggetto della nostra implorazione: «Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto» (Sal 4,7). Ameremo, perché siamo stati creati per questo. Là riconosceremo le relazioni – non più intaccate dall’impurità – che abbiamo costruito sulla terra; ognuno verso i propri cari, verso il grappolo di vita e di amici, tutti resi capaci di un amore sempre nuovo, perché di amare non si è mai sazi: «Quando dici basta, sei finito» (Sant’Agostino, Sermone 169). Canteremo per la gioia. Non ci sarà più limite di tempo e la gratuità non dovrà più guardarsi dai calcoli meschini di quaggiù.

5.
Ho chiesto alle monache di Pennabilli di indicarmi una caratteristica del sacerdozio di un Agostiniano. Mi hanno detto: «Nel presbiterio agostiniano tutti vivono da fratelli; impensabile una vita presbiterale che non sia comunitaria e fraterna. Così torna una frase di sant’Agostino: “Viviamo qui con voi e voi siete lo scopo della nostra vita: è nostro desiderio e impegno vivere insieme a voi costantemente nella Comunione con Cristo” (Discorso 355,1)».
Il presbitero agostiniano sa di essere chiamato ad una vita evangelica e di servizio, non solo attraverso il ministero, ma soprattutto attraverso la testimonianza di una vita tesa all’unità dove risplende «quanto sia bello e dolce che i fratelli vivano insieme» (cfr. Sal 133,1).
Chiedo a padre Mario di ottenere il dono di un presbiterio diocesano davvero risplendente per la fraternità e l’amicizia. Così sia.

Omelia nella XXI domenica del Tempo Ordinario

23 agosto 2020

Is 22,19-23
Sal 137
Rm 11,33-36
Mt 16,13-20

Si tratta di una pagina centrale del primo Vangelo. Gesù è in un momento di svolta: si lascia alle spalle la Galilea e sale a Gerusalemme. Da fine maestro pone una questione: «Che cosa dice la gente di me?». Nella risposta viene fuori un modo di fare, un modo di pensare, uno stile che è tipico nostro, purtroppo: quello di incasellare la persona. Allora Gesù viene immaginato attraverso cliché: un Giovanni Battista, un Elia, un Geremia o qualcun altro dei profeti. Si preferisce incasellare la persona in qualcosa di già vissuto, più comprensibile, mentre invece Gesù vuole una risposta personale, originale: «Voi chi dite che io sia?». Qui non valgono risposte generiche o imparaticce, ci vuole una risposta che sia frutto della vita con lui. Pietro darà una risposta stupenda: «Tu sei il Figlio di Dio, il Messia». Gesù si complimenta con lui, lo chiama “beato”, ma dirà: «Questa risposta te l’ha suggerita il Padre».
Tuttavia, nel Vangelo c’è tutto un itinerario di questo discepolo, che arriva a dire una parola che scaturisce dalla vita con Gesù, dalla relazione con lui.
Le foglie di un albero a noi sembrano tutte uguali, invece ogni foglia è diversa, così ogni persona è diversa, ha una storia diversa. Ecco il cammino di Pietro: cammina sulle acque e poi improvvisamente affonda e grida: «Signore, salvami!» (Mt 14,30); quando Gesù dice: «Volete andarvene anche voi? È troppo dura la mia proposta?» (cfr. Gv 6,67), Pietro dirà: «Signore, dove andremo, tu solo hai parole di vita eterna» (Gv 6,68). Nell’ultimo colloquio con Gesù Risorto gli viene chiesto: «Pietro, mi ami più di costoro?». «Certo, Signore, tu lo sai che ti amo». E poi ancora un’altra volta: «Pietro, mi ami?». «Ti voglio bene». Per la terza volta Gesù gli chiede se lo ama e Pietro si rabbuia un po’: «Signore, tu sai tutto, tu sai che io ti amo» (Gv 21,16-17). Ecco, Gesù ci conosce, ci conosce fino in fondo. Ricorderete quel bellissimo Salmo: «Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando seggo e quando mi alzo…» (Sal 138,1). Non solo il Signore conosce me, ma è necessario che anche io conosca Lui e che sia una conoscenza che sgorga dalla vita.
Quel colloquio si concluderà con il conferimento del primato a Pietro. Gesù dirà: «Tu sei Pietro, su questa pietra edificherò la mia Chiesa». Gesù fa uso di tre immagini: l’immagine della roccia (da cui ricava il nome Pietro), l’immagine delle chiavi e l’immagine dello sciogliere e del legare. Questa prerogativa di Pietro continuerà nei suoi successori. Come potrebbe questo servizio permanere nella comunità messianica se finisse con Pietro?
Quando venne eletto papa Giovanni Paolo II un gruppo di pellegrini era andato a Roma per incontrarlo; nel gruppo vi era un ragazzo disabile seduto su una sedia a rotelle. Il desiderio era di occupare i primi posti per dargli la possibilità di ricevere personalmente la benedizione di Giovanni Paolo II, ma non fu possibile. Il Papa, pur nel tripudio della folla e nelle grida: “Viva il Papa!”, notò quel ragazzo e, svicolando dal servizio d’ordine, andò oltre la transenna, mise le sue mani sulla testa del ragazzo e gli disse: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa». Il ragazzo si commosse. Ciascuno di noi, nel proprio ruolo, nel proprio posto, è un pilastro, una colonna che sostiene tutta la comunità.

Omelia nella Solennità dell’Assunzione di Maria

Pennabilli (RN), Santuario B. V. delle Grazie, 15 agosto 2020

Ap 11,19; 12,1-6.10
Sal 44
1Cor 15,20-26
Lc 1,39-56

Maria fa visita alla cugina Elisabetta: il Vangelo ci descrive l’incontro delle due madri. E poi la visitazione dei due bimbi che esse portano in grembo. Le due donne sono felici di ritrovarsi, ma non si fermano a questo: dilatano il loro cuore ben al di là. Elisabetta – dice il Vangelo – è piena della presenza dello Spirito e le esce dal cuore una “beatitudine” dedicata a Maria: «Beata colei che ha creduto al compimento delle parole dell’Onnipotente». Già aveva salutato Maria come la «benedetta fra tutte le donne» dandone anche il motivo: Maria ha creduto, ha messo tutta la sua fede nel Signore. Chi di noi non ha delle prove nella fede? Ho trovato pace quando ho compreso che la fede è un dubbio superato. Maria ha messo tutta la sua fede, la sua fiducia, nelle mani del Signore. Così si è compiuta l’incarnazione: «Il Verbo si fece carne». Ecco perché Maria è beata! Nell’indirizzare a Maria questa beatitudine Elisabetta riconferma che la vera beatitudine è la Parola del Signore creduta e vissuta. Anche noi, nella Solennità dell’Assunta, veniamo invitati di nuovo a credere. A credere di più, a credere meglio, a credere che sono vere le parole che Gesù ci ha detto. Accettiamo la sfida.
Maria prorompe in un canto bellissimo, incomparabile, il “Magnificat”. Tante parole di quel canto di lode sono ricavate da preghiere dell’Antico Testamento, ma hanno una intonazione assolutamente nuova. Maria non parla quasi mai nei Vangeli e, se parla, è con poche e brevi parole. Unica eccezione: il “Magnificat”, dove Maria si mette davanti a Dio per cantare la sua azione in lei e nel suo popolo.
Se chiedessi a qualcuno, in confidenza: «Come vedi Dio? Cosa sai di lui?». Verrebbero fuori immagini frutto della fantasia, delle paure, delle angosce. Ben altre le immagini di Dio che Maria ci offre. Le tratteggio come in una fotografia.
Primo scatto: Dio è un Dio d’amore che fa meraviglie per noi, in noi e attraverso di noi.
Secondo scatto: Dio è l’Eterno, l’Onnipotente, che «disperde i superbi, rovescia i potenti, esalta i piccoli, gli affamati». Ho letto in un testo di p. Ermes Ronchi che, durante una dittatura latino-americana, venne vietato il canto del “Magnificat”! Indubbiamente è forte l’immagine dell’Onnipotente che rovescia i potenti dai loro troni, dalla loro presunzione e si prende cura degli affamati, degli umili, dei piccoli che ricolma di bene.
Terzo scatto: Dio è il Dio fedele all’Alleanza siglata con i Padri. L’esaudimento nella preghiera non è automatico, ma è certo. Dio ascolta la preghiera. Come diceva un caro amico sacerdote: «L’hai detto col Signore?»; allora basta così, ci pensa Lui, quando e come vuole». La preghiera fa sempre centro, perché è la voce di un figlio che penetra il cuore del suo papà.
Quarto scatto: Dio è il Dio della mia felicità. «L’anima mia magnifica il Signore». Così Maria vede Dio. E noi lo vediamo così? È questa la sostanza del cammino di fede: arrivare ad una conoscenza del Signore così luminosa! Può darsi che l’educazione ricevuta ci abbia portato a mettere in evidenza il “dito di Dio” puntato contro di noi. Ho avuto un periodo nel quale vedevo Dio come colui che scrutava per cogliermi in fallo. Cancellate questa idea! Qualcuno una volta mi ha detto: «Ma lei la fa facile!». Quando ti senti amato, stimato, valorizzato, dai il meglio. Invece, quando ti senti punito, osservato, inquisito, può nascere la malattia spirituale che si chiama ipocrisia. Davanti al Signore possiamo andare senza maschere… La Madonna fa il catechismo più bello che ci sia. Una persona che contempla i misteri del Rosario, pian piano mette a fuoco il volto di Dio: il Dio di Gesù Cristo. Provate a fare questo esercizio: rintracciare quello che il Signore ha fatto nella vostra vita, e poi magnificarlo. L’abbiamo fatto anche come Diocesi: ci siamo dati un Programma pastorale, abbiamo cercato di attuarlo e alla fine dell’anno ci siamo raccontati quello che il Signore ha fatto nelle nostre comunità. Sono emerse tante esperienze di Vangelo vissuto: quando vivi il Vangelo, il Vangelo ti trasforma in Gesù. I responsabili di questo incontro di fine anno pastorale hanno iniziato a chiamare quell’incontro il “pomeriggio del Magnificat”. Non sarebbe il nome ufficiale, ma ha assunto questo nome e ne sono felice. Ogni cristiano dovrebbe sapere a memoria il “Magnificat”. Proviamo ad impararlo, ma soprattutto impariamo a contemplare la fotografia di Dio che ci dà Maria

Giornata per la Custodia del Creato

Il 1° settembre si celebra il 5° anniversario della promulgazione dell’enciclica Laudato si’ e l’istituzione della Giornata Mondiale di Preghiera per la Cura del Creato.

“Solo la fede in Cristo ci spinge a guardare in avanti e a mettere la nostra vita al servizio del progetto di Dio sulla storia. Con questo sguardo, saldi nella speranza, ci impegniamo a convertire i nostri stili di vita, disponendoci a «vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà» (Tt 2,12)”: così il nostro Vescovo e i Vescovi italiani aprono il loro messaggio per la Giornata 2020.

Per questa intenzione le comunità sono invitate alla preghiera per tutto il TEMPO DEL CREATO, il periodo che va dal 1 settembre al 4 ottobre.
Per vivere insieme l’inizio di questo tempo, tutta la comunità diocesana è inviata il 1° settembre per la 15° Giornata Nazionale per la Custodia del Creato alla partecipazione alla S. Messa presieduta dal nostro Vescovo Andrea, a partire dalle ore 17.30 presso il Santuario “Cuore Immacolato di Maria” a Valdragone (Borgo Maggiore, San Marino).

Commissione Pastorale Sociale e del Lavoro
Diocesi San Marino-Montefeltro

Omelia nella XX domenica del Tempo Ordinario

Eremo di Carpegna (PU), Santuario della Madonna del Faggio, 16 agosto 2020

Camminata del Risveglio

Is 56,1.6-7
Sal 66
Rm 11,13-15.29-32
Mt 15,21-28

Gesù si è stupito nel vedere tanta fede in una donna straniera. È cananea, non appartiene al popolo di Israele, ha un’altra cultura, un’altra religione; probabilmente non è mai salita al tempio di Gerusalemme, non recita, come i pii israeliti, lo “Shemà Israel” ogni mattina. È una persona che ha solo sentito parlare di Gesù. Ha un grande dolore perché la sua bambina è gravemente ammalata, posseduta da un demonio. Eppure, va da Gesù; è spinta, è attratta verso Gesù. Chi l’avrà attratta? In un altro punto del Vangelo Gesù dirà: «Nessuno viene a me se non è attirato dal Padre» (Gv 6,44; Mt 16,17). Il Signore ricorda che fuori dal recinto ci sono tante persone che il Padre attira a Gesù. Anch’io talvolta, come il profeta Elia, davanti al Signore innalzo i miei lamenti. Al profeta Elia è toccato di compiere il ministero in un momento di grande apostasia (allontanamento dalla fede). Lo incontriamo nella Bibbia mentre fugge dal suo ministero, perché ha la sensazione che non ci sia più niente da fare. Il Signore lo ferma, gli dà un pane che gli consenta di riprendere il cammino e gli dice: «C’è un popolo – tu non lo sai, non lo vedi, non lo conosci – che ho attirato a me». E subito, seduta stante, il Signore dà tre incarichi precisi ad Elia, quasi i punti di un Programma pastorale. Elia tornerà ad essere evangelizzatore (cfr. 1Re 19).
Quando l’evangelista Matteo ha raccolto l’episodio della mamma cananea rispondeva ad una problematica che era molto avvertita nelle comunità a cui indirizzava il suo Vangelo. Erano le comunità siro-fenice di Tiro, Sidone, Antiochia, che si trovavano ad essere composite: c’erano i cristiani che provenivano dal giudaismo, erano preparati dalla loro frequentazione alla sinagoga e dalla lettura della Bibbia e avevano riconosciuto il Messia. Poi, c’erano i cristiani che provenivano dal paganesimo, che non avevano fatto lo stesso cammino “catechistico”, ma erano felici di aderire al messaggio di Gesù, pronti a tutto per seguire il Vangelo. La comunità avvertiva una sorta di tensione. Matteo sottolinea che quello che è richiesto per appartenere al popolo di Dio, quello che qualifica come possibili discepoli di Gesù è la fede. Non è un’appartenenza etnica e neppure la tradizione o la cultura da cui si proviene; ciò che conta è credere, accettare la sfida, non sempre facile, del credere. Ecco l’esempio stupendo di quella donna che implora il suo “Kyrie eleison”.
Forse occorre spendere una parola non tanto per difendere Gesù, ma per spiegare il suo comportamento. Già un’altra volta si era comportato così con una mamma, la sua. Maria chiede il suo intervento per togliere dall’imbarazzo due sposi che hanno finito il vino alla festa di nozze. Gesù le risponde: «Donna, che ho a che fare con te? Non è ancora giunta la mia ora» (cfr. Gv 2,4). Tutti ci meravigliamo di questa risposta, ma la Madonna insiste, anzi organizza i servitori affinché attingano l’acqua che poi verrà trasformata in vino. Perché Gesù indugia? Qualcuno pensa che qui il Maestro voglia dare un insegnamento sulla preghiera. Qualcun altro dice che Gesù “ha fatto finta” per rendere ancora più strabiliante il miracolo. Il vero motivo è che Gesù non è un “guaritore”. Gesù è obbediente ad un piano, si attiene ad un disegno: è inviato alle pecore perdute d’Israele. Alla fine, compiendo il miracolo, apre una breccia. Dopo la sua vicenda pasquale il Vangelo non avrà barriere. Quando la donna sente dire da Gesù: «Non è bene dare il pane dei figli ai cagnolini», replica prontamente: «È vero!». «Però – continua – ai cagnolini si danno almeno le briciole». La cananea è la donna delle briciole. Lei sa che le briciole di Dio sono manifestazione della sua potenza. Gesù rimane stupito da quella fede e cambia! La fede conquista, fa cambiare Gesù: «Da quell’istante la bambina fu guarita».
Invito tutti a non perdere la fede, ad esercitarla nella preghiera, certi dell’esaudimento, quando Dio vuole, come vuole. La preghiera arriva sempre al centro, al cuore, se è fatta nell’umiltà e nella fede: questo è il primo insegnamento che ci portiamo a casa.
Altro messaggio: il Signore sta preparando un popolo. Maria canta nel “Magnificat” che il Signore è all’opera, al di là di quello che noi percepiamo. Prendiamo coraggio e fiducia per trasmettere la fede ai nostri giovani. Tutto quello che possiamo è il nostro esempio, soprattutto quello di voi genitori.
Il tema del Programma pastorale del prossimo anno consisterà nel farci sempre più persuasi che l’annuncio della risurrezione è per tutti: siamo tutti missionari! Ammaestrati dal Vangelo di oggi, sappiamo che non c’è un pagano, un miscredente, un lontano, che non possa rivolgersi al Signore, nel suo cuore, con la fede. Tutti sono candidati: guai se nel nostro cuore escludiamo qualcuno. In tutte le famiglie, a partire dalle nostre, c’è chi è praticante, c’è chi crede ma non pratica e chi non è credente, ma nel nostro cuore dobbiamo pensare che tutti sono chiamati. Il missionario è soprattutto colui che ha nel cuore questo sentimento verso tutti. Tutti candidati ad essere fratelli, tutti candidati ad avere Maria come madre. Tutti figli di Dio!
Così sia.

Omelia nella festa di San Lorenzo

Belforte all’Isauro (PU), 10 agosto 2020

2Cor 9,6-10
Sal 111
Gv 12,24-26

Saluto i miei confratelli sacerdoti, chi serve all’altare, le Autorità, il coro e tutti voi.
Abbiamo cantato: «Il Signore ama chi dona con gioia». A tutti piace essere amati: alla sposa dallo sposo e allo sposo dalla sposa, al maestro dagli alunni, al parroco dai parrocchiani… In virtù dell’essere amati, proprio perché amati, esprimiamo il meglio di noi stessi e il meglio di noi è: donare. Siamo stati creati per donare. Sant’Agostino dice che Dio «ama per amarci». Non è una tautologia, ma un’analisi psicologica che sant’Agostino fa. Amandoci, Dio suscita amore nella creatura. Se la creatura ci sta e corrisponde, Dio può amarla ancora di più e la creatura amerà, a sua volta, ancora di più. Qui sta tutta la dinamica dell’amore, con la conseguenza del dono e la sorpresa della gioia.
Veniamo, e ne siamo ancora coinvolti, da una grave epidemia. Di per sé non vengono pensieri di gioia, semmai di ansia, paura, solitudine, attese e diagnosi, sofferenze e lutti. Più di qualcuno ha fatto l’esperienza del crollo attorno a lui, quasi un terremoto, e del crollo in lui. Tante certezze sono andate in frantumi. Si è capito che di tante cose si può fare a meno, siamo stati portati all’essenziale, guardando ogni giorno alle piccole cose, piccole e grandi gioie: una telefonata, una serata a guardare insieme un film o a sfogliare un album di vecchie foto, il ritrovare la dimensione della preghiera fatta insieme, lo scoprire che la famiglia è piccola Chiesa domestica.
«Il Signore ama chi dona con gioia». Qualche volta – ammettiamolo – è stata una gioia un po’ “tirata”, perché abbiamo sorriso per non impensierire, per incoraggiare o per sdrammatizzare. Ma l’amore scende dove si dona, dove si ama, dove si sa dare un significato al soffrire. Preciso: donare non è fare un’elemosina, ma mettersi in gioco, perché nel dono c’è qualcosa di sé che viene ceduto. Il dono è qualcosa di me presso di te. Ogni tanto guardo l’anello che porto al dito e mi viene da pensare a papa Francesco che me l’ha donato. C’è qualcosa di papa Francesco in me.
«Il Signore ama chi dona con gioia… e lo benedice». Collego questa frase della Sacra Scrittura ad un’altra che suona così: «C’è più gioia a dare che a ricevere» (At 20,35). Gioia, dono, amore: tutte parole divine. La sera, quando siamo stanchi per le preoccupazioni, per le tante incombenze, spegniamo la luce e in un attimo ripercorriamo la giornata. Vediamo tante perle come in una collana, tenute insieme da quel filo che è la consapevolezza d’aver amato. Tutto questo ci insegna Lorenzo, un giovane che ama con intraprendenza, che ama “facendo”, fino al dono di sé. Lorenzo fu scelto dalla comunità di Roma per occuparsi della carità.
Il Salmo che abbiamo letto poco fa ci ha detto che è «beato l’uomo che teme il Signore». Preciso: il timore del Signore non è la paura. La mano di Dio non ha il dito puntato, ma è una mano tesa a soccorrere. Allora chi teme il Signore, cioè ha considerazione del Signore, a sua volta si fa mano che soccorre, che aiuta. Il Salmo ci ha detto: «Felice l’uomo che dà in prestito, che amministra i suoi beni con giustizia, che dona largamente ai poveri…». Così la tradizione ci ha tramandato l’esperienza cristiana di san Lorenzo, un santo della carità, attento alle povertà, disposto a mettersi in gioco. Il convincimento che sta alla base di ciò che Lorenzo fa non è altro che la certezza che il Regno di Dio è il tesoro, la perla, la realtà di valore assoluto. Per il tesoro vale la pena dare via tutto, se necessario (cfr. Mt 13,44-45). Questo ci dice con la sua vita Lorenzo. Amare è il più grande degli affari e per amare, Lorenzo, si fa povero. Come potrebbe donare se stesso se attaccato alle cose o ai soldi? A quel punto il Signore sorprende, perché dice a Lorenzo e ad ognuno di noi (per questo uso il “tu”): «Tu, sei mio tesoro e mia perla, sei degno di stima, prezioso ai miei occhi (cfr. Is 43,4); per te il Signore perde tutto e da ricco che è si fa povero, per arricchirti con la sua povertà (cfr. 2Cor 8,9). Tu sei il suo “affare”, e lo dice a ciascuno di noi: non si può che essere stupiti davanti a questo. Che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo pensare di ogni fratello e di ogni sorella che ci è accanto che è “affare” di Dio, tesoro e perla. Chiediamo la grazia di saper andare oltre le apparenze, di vedere l’altro come Dio lo vede. Proviamo a pensare alle persone con cui è più difficile relazionarsi, alle persone che “a pelle” ci sono antipatiche… Consideriamo come Dio le ama, superando l’ostacolo più grande che sono i pregiudizi che vengono dalla diversità della razza, della cultura, della politica e anche quelli ecclesiastici. Lorenzo, quando gli fu chiesto di consegnare i tesori e le ricchezze della Chiesa, secondo la tradizione, mostrò i poveri: ecco il tesoro della Chiesa! Per questa sua ironia verrà condannato ad una morte atroce. Finirà come il chicco di grano di cui ci ha parlato il Vangelo. Siamo al capitolo 12 del Vangelo di Giovanni. Gesù capisce che la congiura contro di lui è alla stretta finale. È il momento più drammatico della sua vita, il suo Getsemani: «L’anima mia è turbata» (Gv 12,27). Gesù ha paura della morte, è sconvolto al pensiero dell’abbandono, delle sofferenze, del fallimento. È angosciato e prega Dio «con forti grida e lacrime» (Ebr 5,7) di risparmiargli quella prova. Fu ascoltato? Certamente. La preghiera è sempre ascoltata, anche se non a modo nostro. Fu esaudito per la sua pietà, non con il liberarlo dalla morte, ma liberandolo dal desiderio di salvare se stesso. Anche Gesù ha passato un’ora di oscurità. In quella notte il Padre lo illumina, gli fa capire che la sua passione non è il compimento di un destino crudele, ma il compimento della sua vocazione. Gli ricorda che il chicco di grano seminato per terra deve morire per portare frutto. Se vuole essere “l’uomo per gli altri” deve esserlo fino in fondo. Non deve ritirarsi, gettare la spugna nell’ora della prova. Il Padre gli fa capire che non può spezzare il cerchio del peccato, delle violenze, dei fanatismi, dell’odio che si abbattono su di lui come Agnello innocente e, nello stesso tempo, avere una vita tranquilla e onorata. «Venne allora una voce dal cielo: “L’ho glorificato e lo glorificherò”» (Gv 12,28). Gesù aggiunge: «La voce del Padre è per voi» (cfr. Gv 12,30).
Anche noi siamo tentati di fidarci più dell’istintivo amore di noi stessi che della parola del Vangelo. Ci succede di pensare: «Mi sta bene la fedeltà al Signore, purché non disturbi la mia quiete, non mi chieda di andare contro corrente, di andare incontro a prese in giro, contrasti, critiche. Sono pronto all’impegno comunitario, basta che il Signore non pretenda di sconvolgere le mie abitudini, i miei ritmi, i miei programmi… Mi piace fare qualcosa per gli altri (volontariato, servizi, ecc.) finché gli altri sono educati e riconoscenti, finché non irrompono nella mia vita e non mi lasciano più un momento per me stesso». Queste sono le grandi tentazioni. Impariamo da san Lorenzo a superarle. Così sia!