Lettera a tutti i fedeli della Diocesi per la Giornata Mondiale per le Vocazioni

«Tu, o Signore, che conosci il cuore di tutti, mostraci chi hai designato per il ministero» (cfr. At 1,24). Con queste parole torniamo a chiedere il dono di pastori per le nostre comunità; e chiediamolo con insistenza e con perseveranza. Questa è una richiesta dettata da Gesù stesso insieme alle domande contenute nel Padre Nostro: «Pregate il padrone della messe che mandi operai per la sua messe» (cfr. Mt 9,38).

Venerdì 6 maggio alle ore 20:30 il Centro Diocesano Vocazioni ci invita a Valdragone (RSM) presso il Santuario del Cuore Immacolato di Maria per una preghiera corale, una veglia per tutte le vocazioni; noi siamo solitamente più sensibili per le vocazioni al sacerdozio ed alla vita consacrata, ma il discorso è più ampio. Ogni esistenza cristiana va interpretata come vocazione, risposta ad una chiamata, che fa trovare il proprio posto.

Alla preghiera per le vocazioni è specialmente dedicata la IV domenica di Pasqua, detta “del buon pastore”, quest’anno domenica 8 maggio. Raccomando che si facciano preghiere in ogni parrocchia, chiesa e comunità della Diocesi. Tema della Giornata è: “Fare la storia” (FT 116). «La vocazione – come la storia – si fa; è un’opera artigianale che non può compiersi che alla scuola del Maestro e insieme alla Chiesa».

La scarsità di vocazioni è motivo di preoccupazione per la costruzione di comunità cristiane e per il servizio al Vangelo. In realtà il Signore non smette di chiamare. Non si dimentica della sua Chiesa e lo Spirito Santo suscita nuovi apostoli per il nostro tempo. Il problema è un altro: come stanno le nostre comunità, le famiglie e i giovani quanto a fede? Sappiamo accogliere le vocazioni? Sappiamo coltivarle? Ci accorgiamo delle nuove vocazioni come il diaconato o altre forme vocazionali di frontiera? Le nostre comunità, mai come oggi, sono chiamate a dar prova di coraggiosa fantasia.

Gli Atti degli Apostoli ci raccontano di Paolo e Barnaba che, rifiutati dai connazionali, si sono rivolti ai pagani, aprendo così nuove frontiere di evangelizzazione: una situazione di crisi si trasforma in una nuova chance. Le vocazioni sono un “affare” di tutti. È sbagliato pensare sia un problema degli altri, un impegno dei vescovi o degli operatori pastorali. Non è evangelico pregare così: «Signore, manda operai nella tua messe; manda altri, non me, manda qualcuno della famiglia vicina…». Una comunità senza vocazioni è come una casa senza figli.

Un desiderio: che la nostra Diocesi dia vocazioni alla Chiesa; che sia una comunità che prega (la preghiera è ascolto e accoglienza della volontà di Dio); che sia una comunità che chiama (non solo in paziente attesa, ma capace di proposte coraggiose); che sia una comunità missionaria, dove la domanda non è dove andare, ma come posso servire il Signore dove sono.

+ Andrea Turazzi

Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni

“Fare la storia”

Siamo quasi giunti a Pasqua mentre scrivo. Ed è questa la festa, la solennità centrale fondante della nostra fede. Il momento in cui ci viene mostrata nella liturgia la potenza e la verità della Risurrezione. Abbiamo passato questi due anni prima a vedere questa messa solo alla televisione e poi, l’anno scorso, con ancora la paura di questa malattia. Ora, sperando in Cristo, tutti ci auspichiamo che si possa tornare alla normalità. Ma io dico che dovremmo desiderare di più, non ritornare alla vita di prima e basta, ma piuttosto di crescere ulteriormente nella fede in Cristo, l’unico che ci salva, e la Pasqua sta a ricordarci questo.

Ora, il tempo di Pasqua vede il tornare la gioia, l’Alleluia, il bianco della gloria del Cristo Risorto! Insieme ad esso vediamo risplendere anche tutto quello che la fede cristiana genera dentro la Chiesa: costruisce un popolo che mangia e beve, veglia e dorme, come diceva l’amato arcivescovo Luigi, tutto proteso al Signore che viene, che regna e che salva! Ora le esigenze di questo popolo sono innumerevoli: ma prima fra tutte c’è l’esigenza di vedere uomini e donne santi, che vivano di Cristo in tutto, perché abbiamo bisogno di vedere cosa crea la fede in Cristo dentro a esseri umani che si fanno toccare da Lui. È ciò che dobbiamo risvegliare in questo tempo pasquale.

Il Centro diocesano per le vocazioni partecipa intensamente a questo desiderio. Per questa ragione invita tutti i cattolici della nostra diocesi la sera del 6 maggio al Santuario del Cuore Immacolato di Maria a Valdragone, a San Marino, alle ore 20 30 con il nostro vescovo Andrea, a pregare la Santissima Trinità perché risvegli in ciascuno di noi la coscienza della vocazione cristiana.

Quella sera pregheremo insieme, verrà celebrata la S. Messa, e chiederemo, in vista della domenica del Buon Pastore, domenica 8 maggio, che il Signore doni sempre santi uomini e sante donne alla sua Chiesa. Che la fede aumenti, che la Chiesa cresca di numerosi figli, che tutti percepiscano la forza rinnovatrice della fede in Cristo, e che in tutta la Repubblica e la diocesi i cristiani tornino a essere rinvigoriti davanti a tutte le sfide che questo mondo così frammentato e diviso pone davanti. La vita dell’uomo sulla terra è una battaglia, dice la Sacra Scrittura nel libro di Giobbe: chiediamo a Dio di essere pronti a tenere alta la testa quando la sfida si fa più incalzante.

di don Luca Bernardi
Responsabile del Centro Diocesano Vocazioni

Giornata del Lavoro

1 Maggio – Festa dei Lavoratori

«LA VERA RICCHEZZA SONO LE PERSONE»

Ci apprestiamo a celebrare il 1 maggio la Festa dei Lavoratori in un momento in cui il mondo del lavoro vive una stagione difficile, segnata ancora dagli effetti della pandemia e ora dalle nuove preoccupazioni per la guerra in Ucraina. Il lavoro continua ad essere una emergenza per la società civile e per le famiglie. Le conseguenze della crisi gravano sulle spalle dei più fragili, dei disoccupati e dei precari soprattutto quando donne e giovani, in un contesto in cui le difficoltà economiche producono un peggioramento della qualità del lavoro. I tanti, troppi, morti sul lavoro ci ricordano ogni giorno che non si può distogliere lo sguardo dai contesti dove c’è un elevato rischio per la salute e la vita di tanti lavoratori. È in discussione il valore dell’umano, l’unico capitale che sia vera ricchezza. Papa Francesco lo ha ricordato a imprenditori e lavoratori lo scorso gennaio affermando che «la vera ricchezza sono le persone: senza di esse non c’è comunità di lavoro, non c’è impresa, non c’è economia…».

La pandemia ci ha insegnato che solo insieme si possono affrontare e superare le situazioni più difficili. Per risvegliare le coscienze e riportare al centro del lavoro la persona, la chiesa diocesana ha scelto di pregare insieme ai lavoratori per il mondo del lavoro: per chi ha un lavoro e per chi è disoccupato, per chi ha un lavoro stabile e per chi è precario, per chi ha più difficoltà a trovare un lavoro, come le donne e i giovani.

Il 1 maggio, festa di S. Giuseppe Lavoratore, alle ore 11.00 presso la chiesa parrocchiale di Lunano il Vescovo Andrea presiederà la celebrazione di una S. Messa dedicata al mondo del lavoro.

 

I GIOVANI A ROMA DAL PAPA: SAN PIETRO TORNA TUTTA ESAURITA

Forse a Roma si è finalmente trovato il vero presente e futuro dei nostri giovani. Gli 80.000 di Piazza San Pietro escono dall’incontro con il Papa con nuove forze e nuove speranze. Bagno di folla attorno al Santo Padre che è stato travolto dall’entusiasmo e dalla gioia dei ragazzi.

Lunghe code e sole quasi estivo non hanno scoraggiato la bella partecipazione all’evento da tutta Italia. Era presente a Roma anche un nutrito gruppo della nostra diocesi di San Marino, accompagnato dal nostro Vescovo Andrea, alcuni sacerdoti, educatori e tantissimi ragazzi e ragazze (in tutto circa 200).

Dopo la partenza alle 5 di mattina da Gualdicciolo, il gruppo ha celebrato insieme la Santa Messa del lunedì dell’Angelo a Roma.

Cariche di significato e di speranza le parole di Mons. Turazzi nell’omelia: “Spesso in questo periodo ci chiediamo chi sarà a togliere la pietra dal sepolcro. Oggi abbiamo scoperto la risposta: siete voi giovani coloro che potranno levare la pietra. Abbiamo grande fiducia in voi”. Tra le righe chiaro il riferimento alla pandemia che ha pesato tanto sulle relazioni dei più giovani e alla dolorosa guerra in atto in Ucraina.

In piazza San Pietro poi, emozionante e suggestivo il saluto del Papa alla folla. Bergoglio ha ringraziato i giovani per la loro presenza e ha usato parole forti per dimostrare l’affetto della Chiesa nei loro confronti.

Il nostro gruppo diocesano torna a casa rinnovato dalla Pasqua e dall’incontro con il Santo Padre. Con una speranza in più e una missione in più: annunciare la bellezza e la gioia della proposta cristiana in una società spesso ancora chiusa nel sepolcro. E che attende la vera Vita e la Risurrezione.

Paolo Santi

Messaggio per la Pasqua 2022

1.

C’è un’antica tradizione nel Medio Oriente: la notte di Pasqua una fiaccola accesa viene lanciata da una torre della città santa, Gerusalemme. Il suo bagliore viene visto dal monastero di San Saba, nel deserto di Giuda, che a sua volta rilancia quella luce nel buio della notte. Un chiarore che passa da oscurità ad oscurità, di regione in regione, di torre in torre, fino a raggiungere, come bella notizia, il monte Sinai. Una luce che sveglia l’aurora. Come è accaduto al mattino di Pasqua: Cristo è risorto!

2.

Cristiano, che tu sia consapevole o meno, che tu ti senta peccatore o meno, con la tua sola presenza sei nel mondo portatore di speranza.
Cristiano, ci sei?
Questi giorni oscuri e di sangue hanno bisogno di te.

3.

Belli i canti che hanno cominciato a risuonare nelle nostre chiese dopo mesi e mesi di silenzi, ma più bella ancora la testimonianza del cristiano che non scappa dalla complessità del presente. In una corsia di ospedale, dai banchi di una scuola, dal laboratorio di un’azienda “fa speranza”!

4.

La speranza è un contagio positivo:
– suscita solidarietà e mette insieme amici senza distinzione alcuna: «Ogni uomo è mio fratello»;
– invita alla sobrietà perché la vita dell’uomo non dipende dai suoi beni;
– sostiene la responsabilità ed il servizio, perché si passa da morte a vita amando (cfr. Gv 3,14).
Buona Pasqua!

Omelia nella Liturgia della Passione del Signore

Pennabilli (RN), Cattedrale, 15 aprile 2022

Is 52,13- 53,12
Sal 30
Eb 4,14-16; 5,7-9
Gv 18,1- 19,42

Il diacono ha appena chiuso il Libro della Passione del Signore secondo Giovanni. Ma resta permanentemente aperto davanti ai nostri occhi e al nostro cuore Lui, il Crocifisso, libro vivente sul quale è stato scritto col sangue l’amore di un Dio che si è fatto uomo e ha dato la vita per noi: Gesù. In Lui Dio ha detto tutto.
Mi soffermo su qualche “fotogramma” della Passione per andare più in profondità.
«Presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Golgota, dove lo crocifissero». Il Golgota è un leggero rialzamento nel terreno appena fuori Gerusalemme, con la forma curiosa di un cranio. Nella tradizione giudaico-cristiana sarebbe il luogo della sepoltura di Adamo, un luogo importante, simbolico. Il sangue di Gesù, colando a terra, ne bagna gli strati, purifica il primo peccatore e tutti gli altri dopo di lui. Questa antica tradizione del Golgota recepisce questo luogo come il centro di tutta la storia e della redenzione dell’umanità.
Gesù viene crocifisso «con altri due, uno da una parte e uno dall’altra e lui in mezzo». Questa circostanza mette in forte relazione la croce di Gesù con gli uomini peccatori: «Chi è senza peccato?» (cfr. Gv 8,7).  Di per sé il problema non è l’essere peccatori o il non esserlo, ma quale sia la risoluzione da prendere quando se ne è consapevoli. Due sono le risoluzioni possibili. La prima risposta è quella dettata dall’orgoglio: «Io? Ma quando mai? Non sono peccatore, non ho bisogno di essere salvato, basto a me stesso…»: l’orgoglio di Adamo riemerge. Chi dice questo pensa, in fondo, che l’opposto del peccato sia la virtù: aumento l’impegno, faccio da me, non ho bisogno di un altro che mi salvi!
L’altra risoluzione: cadere tra le braccia della misericordia perdonante del Signore. Riconoscere il proprio male. Consegnarlo. Se la terra è insanguinata e cattiva, dipende anche da me, dipendono anche dalla mia umiltà il suo riscatto e la sua redenzione.
Nella liturgia del Venerdì Santo, come avete notato, ricorrono con insistenza due testi dell’Antico Testamento. Tutto il racconto della Passione ne è, per così dire: Isaia 53, il carme del Servo sofferente, e il Salmo 21.
Isaia 53. Si parla di un misterioso personaggio, un servo di Dio che soffre, accetta di soffrire. Isaia e la fede di Israele avevano elaborato una teologia secondo la quale la redenzione verrebbe da qualcuno che prenderà su di sé tutte le malattie, tutti i peccati, tutte le piaghe. «Dalle sue piaghe saremo guariti» (Is 53,5 ripreso in 1Pt 2,24). Israele sapeva tutto questo. I primi cristiani hanno ricompreso la crocifissione del loro Signore grazie a questo testo. Non sarebbe stato comprensibile che il loro Maestro, il Signore, facesse questa fine terribile; il testo di Isaia permetteva loro di capire il senso di ciò che umanamente senso non aveva: l’innocente messo a morte ingiustamente.
Veniamo all’altro testo, il Salmo 21. Anche questo ha molto aiutato i primi cristiani ad interpretare ed elaborare la crocifissione di Gesù. Giovanni non riporta l’incipit di questa preghiera sulle labbra di Gesù morente, a differenza di Marco e Matteo: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Sal 21,1). Ci sono versetti successivi. In questo Salmo, l’orante, un sofferente misterioso – i cristiani vedono in lui Gesù – butta fuori tutta la disperazione; si sente perfino dimenticato da Dio, per questo esterna in un grido prolungato la sua paura, la sua tristezza, la sua angoscia. Tuttavia, in questo Salmo, qua e là emergono delle luci, dei ricordi di come Dio aveva soccorso i suoi padri. Ad un certo punto il Salmo parla addirittura di un banchetto: è il preannuncio della risurrezione. Ricaviamo subito un insegnamento: quando andiamo in preghiera esprimiamo al Signore quello che realmente sentiamo. Non abbiamo bisogno di mettere maschere e proclamare che “tutto va bene, mentre bene non va” (cfr. Ger 6,14). Occorre buttar fuori tutto il male per poi renderci conto che Dio è entrato proprio in questa angoscia. Tanti di noi possono dire che ci sono stati dei momenti terribili nella propria vita e che, tuttavia, hanno incontrato il Signore proprio in quei momenti come Salvatore. Così ha pregato Giacobbe nel suo esilio: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo» (Gen 28,16). Il Salmo 21, alla fine, diventa una preghiera di ringraziamento.
Così Gesù è entrato nella morte ed è così che è veramente re, il Nazareno, re dei Giudei. Unico trono la croce, luogo nel quale si manifesta la signoria di Dio, realtà che capovolge la nostra immagine di Dio. Dio non è quel personaggio potente che risolve i problemi con le sue magie; Dio è colui che fa un tutt’uno con noi, ci incontra nel nostro male, nel punto più basso dei nostri fallimenti, dei nostri limiti, nel nostro essere incapaci di salvarci da soli. In questo lui è Dio! Nessun altro è così potente da fare comunione con chi è perduto. Nessuno di noi saprebbe diventare una cosa sola col più disgraziato. Lui sì! Egli è colui che trasforma il nostro fallimento in comunione con lui. In virtù dell’incarnazione, possiamo dire che siamo noi pure membra della redenzione. Quando si dice “offrire il nostro dolore” non è una pia pratica, ma riconoscere e la comunione profonda che c’è fra noi e il Signore, per cui completiamo nella nostra carne ciò che manca in noi dei patimenti di Cristo (cfr. Col 1,24). Davvero, Signore Gesù, il tuo amore sorprende, turba, disarma, converte, conquista, abbraccia, fa crescere. Accogli il nostro bacio.

Omelia nella S. Messa in Coena Domini

Pennabilli (RN), Cattedrale, 14 aprile 2022

Es 12,1-8.11-14
Sal 115
1Cor 11,23-26
Gv 13,1-15

Con la presenza dei bambini della Prima Comunione

1.
L’altare è il luogo dove Gesù rinnova quello che ha fatto durante l’Ultima Cena.
Nella mitologia antica erano state inventate storie di divinità potenti e capricciose, una storia più fantasiosa dell’altra, ma non è mai venuto in mente che un Dio si facesse pane, come poi farà Gesù, Figlio di Dio, nostro amico e fratello, che, volendo restare sempre accanto a noi, venisse addirittura dentro di noi, facendosi pane per essere mangiato. Una cosa inaudita! Una cosa che non può che suscitare ammirazione e stupore.

2.
L’amore ha questa caratteristica: vuole essere riamato, suscita reciprocità. Nell’amore c’è un andare e un venire, un donare e un ricevere. Gesù ha un amore verso di noi che è avido e liberale, due aggettivi che di solito non si usano (sembrano quasi un’offesa al Signore). Avido, perché è un amore che vuole tutto. Liberale, perché non forza, non obbliga, non costringe. Gesù dona tutto ciò che ha, tutto ciò che è, e vuole da noi tutto quello che siamo, tutto quello che abbiamo.

3.
Quando i cristiani mangiano il pane consacrato, che è Gesù, lui entra fino alle midolla delle loro ossa. Più il loro amore lo lascia fare, più possono gustare il suo amore infinito. Gesù ha una fame immensa, insaziabile; sa che siamo poveri, piccoli, ma non gli importa, non ci fa sconti!
Permettete questa immagine: Gesù ci “cuoce suo pane” per lui: ci prende come siamo, non gli fa paura se siamo, a volte, pieni di vizi, colpe, peccati. Siamo “cotti” dal suo amore, perché lui consuma tutto quello che c’è in noi di non puro, di non giusto, di non bello. Prende la nostra vita per trasformarla nella sua, trasfigura la nostra vita piena di vizi nella sua piena di grazia. Chi ama capisce questo linguaggio.
Si è fatto pane per nutrirci di sé, vuol fare di noi un pane per lui: che unità fra noi e Gesù! A volte ci dimentichiamo di questo, ci facciamo l’abitudine; addirittura, ci può capitare di riceve la Comunione sovrappensiero… Ci accompagni sempre la volontà di essere una cosa sola con lui, come lui vuole essere una cosa sola con noi. Dico questo soprattutto a voi, cari ragazzi, che fra un mese riceverete per la prima volta l’Eucaristia.
Ci sono persone che volano in aereo in Terra Santa – una terra sempre a rischio di conflitti – per andare sui luoghi di Gesù, per prendere un po’ di polvere del santo sepolcro, o l’olio del Golgota, o qualche sasso del lago di Tiberiade, per ricordare i luoghi dove Gesù è vissuto duemila anni fa. Ma nella Messa c’è Gesù in persona!
Nel Cantico dei Cantici, un libro della Bibbia, si racconta di un principe innamorato della sua bella. Una delle canzoni che compongono questo libro comincia con le parole rivolte dalla fidanzata alle guardie della città: «Avete visto l’amore del mio cuore? Ditemi dov’è!» (cfr. Ct 3,3). Parafrasando verrebbe da dire: «A quei tempi non c’era ancora Gesù sulla terra, ora invece, se una creatura che ama Gesù lo va cercando, lo trova sempre nel Santissimo Sacramento dell’Altare».
Insieme a voi faccio questa preghiera: «Amore infinito di Dio, degno di infinito amore! Come ti sei abbassato per trattenerti con noi, per unirti a noi, come ti sei fatto piccolo sotto le specie del pane! Verbo incarnato, sommo nell’umiliazione perché sommo nell’amore. Come posso non amarti con tutte le mie forze sapendo quanto hai fatto per amor mio? Ti amo, antepongo il tuo amore ad ogni altra cosa. Gesù, mio Dio, mio amore, mio tutto. Accendi in me il desiderio di starti vicino, di riceverti dentro di me». Diciamo queste parole a Gesù quando lo riceveremo sacramentalmente o spiritualmente.
Come abbiamo fatto in tutte le Messe, preghiamo per la pace, mettiamoci nei panni dei fratelli che stanno soffrendo così tanto. Quando ci si immedesima nella sofferenza degli altri la preghiera diviene fervorosa. L’amore agli altri ci aiuta a pregare. Così sia.

Omelia nella S. Messa crismale

Pennabilli (RN), Cattedrale, 14 aprile 2022

Is 61,1-3.6.8-9
Sal 88
Ap 1,5-8
Lc 4,16-21

«Fasciculus myrrhae dilectus meus mihi» (Ct 1,13). Sono parole del Cantico dei Cantici che pongo a dedicazione di un piccolo dono che offro a ciascuno dei miei preti e diaconi. Si tratta di una manciata di incenso profumato da ardere nella Veglia pasquale in onore del nostro Sposo e Signore. Un omaggio a lui. Un omaggio che facciamo insieme nella comunione realizzata dalla liturgia. Un omaggio accompagnato dalle nostre voci che si fondono nel canto dell’Exsultet nella Veglia “madre di tutte le veglie” (Sant’Agostino, Sermo 219).

Non è un ripiegamento intimistico considerare l’incanto e il prodigio della nostra vocazione col suo carattere di innamoramento. Come il profeta Amos, ognuno di noi potrebbe dichiarare che è stato chiamato nel modo più impensato e sorprendente: «Non ero profeta, né figlio di profeta; ero un pastore e raccoglitore di sicomori; il Signore mi ha preso di dietro al bestiame e il Signore mi disse: “Va’, profetizza al mio popolo Israele”» (Am 7,14-15). La nostra vocazione è iniziativa sua, un atto d’amore personale, una parola irrevocabile e creatrice. Per ognuno di noi una storia diversa: forse un’esperienza che ha fatto percepire la bellezza della fede, oppure la possibilità di un’umanità realizzata, spesa per gli altri, oppure la gioia di appartenere a Cristo e la spinta a costruire comunità cristiane. O forse, semplicemente, la spinta di motivazioni molto umane, sublimate poi. Fatto sta che abbiamo lasciato tutto per il Tutto.
Abbiamo sicuramente protestato la nostra inadeguatezza, le nostre fragilità, i nostri timori (cfr. Is 6,5). Il Signore ci ha confermato: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza, infatti, si manifesta nella debolezza» (2Cor 12,9). La Chiesa ha accolto la nostra disponibilità attraverso l’imposizione delle mani del vescovo. Abbiamo messo a disposizione intelligenza, cuore, braccia, mani e piedi.
Non dobbiamo dubitare. Tra poco rifaremo ancora le promesse sacerdotali col fervore della prima volta.
«Fasciculus myrrhae dilectus meus mihi» (Ct 1,13). Anche il cuore del prete ha bisogno di sentirsi amato, ha bisogno di tenerezza: queste parole assicurano quella del Signore. Il Signore, questa mattina, rinnova la sua dichiarazione d’amore e di stima per ciascuno. Non c’è altro motivo che questo per andare avanti in questi giorni difficili.

C’è bisogno, con la vicinanza del Signore, di sentire altre vicinanze.
La vicinanza al vescovo. Il vescovo, chiunque egli sia, rimane per ogni presbitero e per ogni Chiesa particolare, un legame che aiuta a discernere la volontà di Dio. Ma anche il vescovo deve mettersi in ascolto della realtà dei suoi presbiteri, dei suoi diaconi e del popolo santo di Dio, che gli sono affidati. Gli sono richiesti umiltà, capacità di ascolto, autocritica e il lasciarsi aiutare (cfr. Papa Francesco).
Ho molto da farmi perdonare. Tuttavia – dirò con san Paolo – «fatemi posto nel vostro cuore» (2Cor 7,2). Vi assicuro che nel mio vi siete già!

A partire dalla comunione sacramentale col vescovo si apre la vicinanza fra i sacerdoti. Le caratteristiche della fraternità sono quelle che san Paolo ci ha lasciato come “mappa” nella Prima Lettera ai Corinti: «La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1Cor 13,4-7).

Impariamo la pazienza, suo contrario è l’indifferenza. Cresciamo nella benevolenza: giovani e anziani, ognuno con le proprie caratteristiche, capaci di gioire del bene che c’è nell’altro, il contrario dell’invidia. Non dobbiamo permettere che si creda che l’amore fraterno sia un’utopia, tanto meno un luogo comune. Tutti sappiamo quanto può essere difficile vivere in comunità o nel presbiterio. Eppure, l’amore fraterno è la grande profezia in questa società. «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). Consideriamo gli strumenti che abbiamo a disposizione e la creatività suggerita dallo Spirito per crescere nella vicinanza tra noi.
Anche le occasioni istituzionali di incontro vanno rivitalizzate, preparate, curate e partecipate. Ciò che le rende poco significative sono le assenze ingiustificate. Comprensibile, certo, la fatica degli spostamenti e l’attaccamento al proprio particolare con le sue urgenze. Ma talvolta si è assenti per motivi futili: basta poco per esimersi. Danneggia la contrapposizione fra incontri spontanei, a cui si aderisce per affinità o per simpatia e gli incontri più istituzionali. Così viviamo il paradosso di non conoscerci neppure, mentre siamo ingaggiati nella stessa squadra.
La vicinanza al popolo. La relazione con la nostra gente è per ciascuno di noi prima che un dovere, una grazia. «Per comprendere nuovamente l’identità del sacerdozio, oggi è importante vivere in stretto rapporto con la vita reale della gente, accanto ad essa senza nessuna via di fuga. Vicinanza con lo stile del Signore: compassione, tenerezza, come quella del buon samaritano, che riconosce le ferite del suo popolo, la sofferenza vissuta nel silenzio, l’abnegazione e i sacrifici di tanti padri e madri per mandare avanti la famiglia e anche le conseguenze della violenza, della corruzione, dell’indifferenza» (Papa Francesco).
Drammatico nel nostro popolo è lo smarrimento della fede, il distacco della fede dalla vita e l’indifferenza. Tante persone si trovano spaesate e senza speranza nel turbine di questi giorni insanguinati: guerra alle porte, sofferenze inaudite, dolore innocente, bambini e donne violate…
Quando tutto sembra crollare la nostra presenza è motivo di speranza. Dovrà essere comunque una Pasqua piena di luce, perché carica dell’evento che celebra, non un semplice anniversario, un ricordo. La Pasqua è vita nuova che entra in circolo, che ne siamo consapevoli o meno. Lo sente ogni uomo, lo sperimenta nel suo cuore quando ama. Gesù, innocente crocifisso, è risorto ed ha spalancato per tutti una breccia oltre il muro della morte, dell’ignoto, del peccato. Con la risurrezione penetra nella storia, soffia col suo Spirito nelle nostre fragili esistenze, incoraggia cammini di pace, suscita solidarietà, non ammette rese e paure, invita alla sobrietà, perché la vita dell’uomo non dipende dai suoi beni. Il libro della Genesi si chiude con le parole di Giuseppe, il giusto perseguitato: «Se voi avevate tramato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene…» (Gn 50,20). «Un atto di puro amore salva il mondo intero», aveva già scritto san Giovanni della Croce. Molti, in questi giorni difficili, ci stanno provando. Io sto con loro!
Un’esperienza di vicinanza col vescovo, fra i presbiteri e col popolo è il Cammino Sinodale. Si cammina insieme docili allo Spirito. Si offrono esperienze, ispirazioni, propositi e i pastori accoglieranno tutto come un dono, frutto di un lavoro vissuto in spirito di serenità e di libertà. Laici e pastori in dialogo e più vicini: unico Popolo di Dio!
Sin qui è stato un “lavoro orante”: nella preghiera costante allo Spirito Santo abbiamo vivificato il metodo fatto di ascolto, risonanze, raccolta di criticità e… perle. A detta di tutti, possiamo mettere all’attivo l’acquisizione di un metodo partecipativo e di un cammino condiviso.
A questa fase del cammino – detta anche “narrativa” – ne seguirà una successiva di studio e discernimento con l’indicazione di priorità per la vita e la missione della Chiesa. Il cammino continua…

Omelia nella Domenica delle Palme

Pennabilli (RN), Cattedrale, 10 aprile 2022

Is 50,4-7
Sal 21
Fil 2,6-11
Lc 22,14-23,56

  1. Gesù entra nella sua Passione con l’amore

Ecco, è giunta “l’ora” di cui Gesù ha parlato tante volte. È “l’ora” che ha atteso con una mescolanza di terrore e impazienza (cfr. Mc 14,35; Mt 26,45 Gv 2,4; 7,30; 8,20; 13,1; 16,29; 16,32; 17,1). Non l’ha scelta lui, ma è la logica conclusione di tutto quanto ha dovuto accettare per compiere la sua missione. Va incontro alla Passione volentieri? O piuttosto la Passione è qualcosa che gli piomba addosso? Vedi l’esperienza del Getsemani…
La Passione non è una sua scelta. Sua scelta è la volontà del Padre. Volontà che comprende l’accettazione delle scelte degli uomini, comprese quelle ingrate. Gesù va incontro alla sua Passione con questo spirito. Gesù entra nell’ “ora” scelta dagli uomini (le autorità religiose di allora e Giuda) col cuore gravato e l’anima pronta. Vi entra soprattutto con amore: amore per il Padre, amore per i fratelli, uno ad uno, come sono e in quello che fanno. Questo amore perdura e cresce lungo tutte le ore crudeli che la Passione gli riserverà. Gesù continua a soffrire, a pregare, ad amare: qui sta la redenzione!

  1. La teologia dell’ evangelista Luca

Ci accompagna Luca, l’evangelista che ha raccolto accuratamente gli avvenimenti come li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni. Ha fatto ricerche meticolose su ogni circostanza per farne un resoconto ordinato (cfr. Lc 1,1-3) a quel Teofilo – amico di Dio – che ci rappresenta tutti.
Il racconto della Passione del Signore è arrivato attraverso quattro diverse redazioni, sostanzialmente concordi; le differenze confermano la storicità dei fatti. Ciascuno degli evangelisti (Matteo, Marco, Luca, Giovanni) ha tuttavia una propria prospettiva teologica ed una propria originalità di stile. Nella Passione secondo Luca balzano evidenti almeno “dieci particolari”, che solo lui riferisce, in linea col suo Vangelo. Luca è lo scriba mansuetudinis Christi (Dante Alighieri) e i “dieci particolari” costituiscono la sua firma (espediente usato da tanti artisti per le loro opere).
Luca ci ha condotto quest’anno facendoci conoscere l’infanzia di Gesù, la dolcezza di Maria e la premura di Giuseppe. È un Vangelo pervaso dalla gioia dei piccoli, dei poveri, dei peccatori e delle donne attorno a Gesù. È il Vangelo delle parabole della misericordia e della parabola capolavoro “Il figliuol prodigo”. Gesù entra nella Passione come prototipo del martire coraggioso e mansueto che muore pregando e perdonando. Rileggiamo il testo gustando interiormente “i dieci particolari”. 1. Nel Getsemani Gesù soffre fino a sanguinare. Un angelo viene a confortarlo. 2. Durante la cattura compie un estremo tentativo di recupero del traditore. Lo chiama per nome e pronuncia le parole che gli altri evangelisti riferiscono col discorso indiretto. 3. Un discepolo troppo zelante colpisce uno sbirro. Gesù fa per lui l’ultimo miracolo: risana il suo orecchio (l’orecchio destro!). 4. Pietro rinnega tre volte il Signore. La prima volta è una donna a metterlo in crisi (una serva), poi due innominati. Un gallo canta, ma è lo sguardo penetrante di Gesù che lo fa piangere. 5. Gesù è un prigioniero scomodo: viene rimbalzato da un potere all’altro. Pilato per tre volte ne riconosce l’innocenza. 6. Sorpresa: da quel momento Pilato ed Erode, notoriamente avversari, diventano amici! 7. Al seguito di Gesù nel momento supremo della prova ci sono ancora le donne. Luca ne riferisce i lamenti e ci tramanda le parole delicatissime di Gesù per loro. 8. Gesù perdona i suoi carnefici e prega per loro. 9. Scena centrale: da una parte ci sono i capi che deridono il condannato, la soldataglia che ironizza, il malfattore che insulta Gesù; dall’altra il centurione che glorifica Dio per come Gesù muore, la folla che si batte il petto, i discepoli che osservano attoniti; e nel mezzo del racconto il dialogo di Gesù col ladrone che prega: «Ricordati di me…». Gesù risponde: «Oggi sarai con me…». Probabilmente qui è il centro di tutto il Vangelo. 10. Luca riferisce la preghiera di fiducioso abbandono pronunciata da Gesù (Salmo 31, 6) con l’aggiunta originalissima: «Padre», e poi: «Nelle tue mani consegno il mio spirito».

  1. Ai piedi del Crocifisso col “buon ladrone”

Entro sempre più profondamente nel racconto della Passione. Prendetemi con voi, cari amici, ai piedi del Crocifisso. Contempliamo insieme quanto accaduto in quel tragico venerdì, in particolare soffermiamoci su uno dei “particolari”: il dialogo di Gesù con il “buon ladrone”. Consideriamo il testo sotto un triplice profilo.

Sotto il profilo letterario il testo è vivacissimo e armoniosamente costruito. Come abbiamo visto, Luca presenta anzitutto un trittico di persone che insultano Gesù: i capi del popolo (v.35), i soldati (vv. 36-37), uno dei malfattori crocifisso (v.39). Segue poi un trittico di persone penitenti: il centurione (v.47), la gente (v.48), gli amici (v.49). Al centro, in piena evidenza, il dialogo di Gesù col malfattore pentito e la morte (vv.36-37). È su questo “pannello” centrale che dovrà focalizzarsi la nostra attenzione.

Sotto il profilo storico si ha la piena vittoria di Caifa e del sinedrio che riescono a consumare il loro complotto contro un innocente. Il sinedrio ha condannato a morte Gesù per bestemmia contro la dignità del Messia, il cuore stesso della religione giudaica. Questa attendeva un Messia che si legittimasse in tutta la sua potenza e il suo splendore. Ora, un Messia prigioniero, abbandonato dagli amici, ridotto all’impotenza, non poteva essere altro che un empio che scherniva la dignità del Messia, la grande promessa di Dio ad Israele. Il sinedrio, però, non aveva il diritto di eseguire condanne a morte, questa era competenza assoluta della prefettura romana che giudicava secondo il diritto romano. Ma qui entra in gioco la scaltrezza di Caifa: riformula l’accusa religiosa ebraica (bestemmia contro il Messia) in termini politici (si è fatto “re dei giudei”). Dunque, Gesù dev’essere condannato per alto tradimento nei confronti di Roma. Ai piedi della croce si intrecciano i due capi d’accusa: insulti al presunto Messia e insulti al re per burla! Che “potere” può rivendicare uno sconfitto che sta per morire sull’infamante patibolo della croce, fra due malviventi, che non sa neppure fare un prodigio a beneficio di se stesso?

Sotto il profilo teologico osserviamo che il “buon ladrone”, nel disegno teologico di Luca, diventa il tipo del vero credente. È rappresentante degli amici con cui Gesù stava più volentieri, perché più aperti alla sua parola di salvezza (la donna silenziosa Lc 7,36ss; i piccoli Lc 10,21-22; Marta e Maria Lc 10,38ss; i peccatori che ascoltano Lc 15, 1ss; Zaccheo Lc 19,1ss; ecc.).
Il “buon ladrone” constata l’innocenza di Gesù per puro dono di fede, “legge” nello scacco della croce l’intronizzazione regale del Messia e, con preghiera umile, chiede a Gesù di ricordarsi di lui allorché ritornerà nella sua regalità, in tutto lo splendore e la potenza (domanda simile a quella della madre di Giacomo e Giovanni, cfr. Mt 20,20). C’è tanta fede nel ladrone, ma Gesù lo aiuterà a fare un passo ulteriore: comprendere che “il paradiso” non è come quello di cui ha sentito parlare. «Oggi sarai con me»: questo è il paradiso: essere con Gesù!
Aggiungo un dettaglio – non per erudizione – ma per andare ancor più in profondità: la preposizione semplice “con” nella lingua in cui è scritto il Vangelo può essere detta mediante due preposizioni diverse. Luca sceglie la preposizione che ha una sfumatura più dinamica: “per” me! Ad indicare una relazione, non una semplice “compagnia”, quasi una compenetrazione. Quel ladrone è il primo che entra in paradiso. Paradiso: essere “con” ed essere “per” Gesù.