Omelia nella Veglia Pasquale

Pennabilli (RN), Cattedrale, 30 marzo 2024

Ez 36,16-17a.18-28
Rm 6,3-11
Sal 117
Mc 16,1-7

Carissimi, buona Pasqua.
Questo non è un augurio, è un annuncio: Gesù è risorto, è vivo ed è in mezzo a noi!
Ci sarebbero tante cose da commentare nella liturgia che stiamo vivendo. Questo “popolo di Pasqua”, che siamo noi, è incamminato dietro il bagliore del cero pasquale. Un richiamo alla presenza nella storia: siamo piccoli, poveri, pochi, ma portatori di luce per l’umanità.
Poi, il momento solenne in cui il seminarista Paolo ha cantato l’Exsultet, un inno che squarcia le tenebre, un inno da centellinare riga per riga, parola per parola, fino al paradosso: «O felice colpa, che ha meritato un così grande Redentore». Segue la grande traversata lungo la storia della salvezza. Non c’è tempo per sottolineare come tutte le Scritture parlino di Gesù e di noi come suo popolo, sue membra. Successivamente la liturgia della benedizione dell’acqua: il fonte battesimale.
Talvolta, mi succede di ripetere questa frase: «Molti si ritrovano cristiani senza aver mai deciso di esserlo». Questa sera decideremo di esserlo se pronunceremo in modo convinto, col cuore e con l’intelligenza, le promesse battesimali. Poi il momento che riassume tutto: l’Eucaristia, con i quattro verbi che abbiamo sottolineato e approfondito in quest’anno pastorale. Gesù prende il pane: prende la nostra vita. Il pane, con tutta la sua storia, ci rappresenta. Lo benedice: benedice le nostre vite e noi vogliamo che la nostra vita sia una benedizione, un dir bene di Lui. Lo spezza perché tutti ne abbiano almeno un frammento, una briciola; lo spezzare è anche un gesto profetico, che allude al suo morire in croce: Gesù viene spezzato perché si dona. Anche noi, talvolta, viviamo delle fratture nella nostra vita, siamo pane spezzato per gli altri: in famiglia, nella società, nella Chiesa e nella “vocazione” particolare della sofferenza. Sta a noi decidere se vogliamo subirla – tutti soffrono – oppure se aspettiamo quel momento di sofferenza, che viene comunque, per offrirlo. Ma cosa se ne fa il Signore? Quello che conta è il senso che diamo al nostro soffrire. Diciamo a Gesù: «Con te, attraverso di te, in te, voglio essere membra della redenzione, voglio partecipare con te alla redenzione del mondo, mettendo la mia piccola “goccia”», quella che simbolicamente viene fatta scendere dal celebrante nel calice all’offertorio: le gocce di acqua che il sacerdote fa scendere nel calice rappresentano la nostra parte, piccola, ci pare addirittura insignificante, ma Dio sa quanto ci costano alcuni passaggi della nostra vita. Avrei tante altre cose da dire; le leggo perché voi siete il popolo della Cattedrale. Quando il Vescovo parla in Cattedrale non lo fa “a braccio”: il Vescovo non è qui per comandare, ma per esprimere un magistero. Non siamo un’organizzazione mondana. Il Vescovo è un apostolo che deve gridare che Gesù è Risorto, che c’è risurrezione nella morte.
Insieme a voi mi faccio prendere per mano da tre donne del Vangelo: Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo (quella che disse «vorrei che i miei figli fossero uno alla tua destra e uno alla tua sinistra») e Salome. Lasciamoci condurre al sepolcro. Non voglio rovinare la festa parlando di sepolcri, però, dalle donne, imparo la capacità di entrare nel dolore: le donne sanno prendere tra le braccia. Per ben tre volte l’evangelista Marco sottolinea il momento: «Passato il sabato, Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e Salòme…»; «Di buon mattino, il primo giorno della settimana, vennero al sepolcro al levare del sole». Le parole, nei testi antichi, hanno sempre un significato più grande di quello che percepiamo noi: per loro scrivere era un’impresa. L’evangelista Marco, quando sottolinea questi tre momenti: «Passato il sabato», «Di buon mattino, il primo giorno della settimana», «Al levare del sole», ci sta dicendo che siamo di fronte a qualcosa di molto grande, paragonabile alla creazione. La risurrezione è una nuova creazione.
Poi, le tre donne comprano il Myron, l’olio aromatico – era una prassi comune a quell’epoca – per attenuare il cattivo odore che emana la salma. Vogliono rendere possibile la sosta presso la tomba. Quel gesto è emblematico, perché svela qualcosa che succede nella nostra vita: ognuno ha dentro di lui delle sconfitte, del veleno (qualcosa di mortifero, di maleodorante) e qualcosa che assomiglia alla morte. Anche noi facciamo come queste tre donne: vogliamo coprire la morte con il Myron. Ma ecco la sorpresa: quelle donne troveranno un sepolcro vuoto. Incontrano un messaggero – noi diciamo che è un angelo e lo raffiguriamo con le ali –, in realtà può essere ciascuno di noi, in primis il sacerdote che dalla tomba vuota (l’ambone, di per sé, ha la forma di una tomba) proclama l’Evangelo. Quell’Angelo annuncia alle donne: «Il Signore che voi cercate non è qui!».
Gli ebrei, all’epoca dell’evangelista Marco, chiamavano la parte interna del tempio “il luogo”, intendendo il luogo santo, il luogo dove Dio parla. Il Santo dei santi, la cella interna del grande tempio di Salomone ricostruito da Erode, era vuoto. Però lì c’era la presenza, perché Dio parla nel suo silenzio. L’Angelo annuncia che Gesù è vivo e che i suoi discepoli devono andare ad incontrarlo in Galilea. Da notare: non li manda “in piazza San Pietro” o “nella Cattedrale di Pennabilli”, ma in Galilea. Cosa significa? La Galilea è il luogo di provenienza delle donne, degli apostoli, dei discepoli, là dove lavoravano, dove avevano famiglia e vivevano le relazioni, dove trattavano i loro affari. Quindi, li esorta ad andare nel quotidiano: «Là lo vedrete». Anche noi possiamo incontrare Gesù nel nostro quotidiano.
Ma c’è anche un secondo significato. Il Vangelo di Marco di per sé finisce di colpo, dopo la risurrezione, ma è stata fatta un’aggiunta canonica, ispirata, con questo invito: «Andate in Galilea», cioè “tornate indietro”, “riavvolgete il film” e rivedrete come dalla giornata di Cafarnao fino a Gerusalemme non è stato altro che un anticipo dell’incontro con Gesù Risorto, a partire dal primo miracolo, la guarigione del lebbroso, più morto che vivo: Gesù lo risana e diventa puro; poi, la guarigione del paralitico calato dal tetto, a cui Gesù dice: «I tuoi peccati sono perdonati» e, per dimostrare che era proprio vero, Gesù compie un segno: l’ha fatto camminare, invitandolo a prendere sulle spalle il suo lettuccio, il luogo nel quale era stato inchiodato per anni, bagnato del suo sudore: «Adesso puoi camminare, sei risorto…». Tutto il Vangelo non è altro che incontri con Gesù Risorto.
Il Vangelo di Marco si ferma qui. È come se dicesse: «Prova a vedere dove, nella tua vita, stai incontrando Gesù e come lo stai incontrando in questa serata di preghiera e di veglia». Buona Pasqua!

Omelia nella S.Messa crismale

Pennabilli (RN), Cattedrale, 28 marzo 2024

Faccio mie le parole di Gesù: «Desiderio desideravi hoc Pasca manducare nobiscum» (Lc 22,15). Ma ci sono esigenze del cuore più vere, più importanti: quella di conoscere Lui e la potenza della sua risurrezione (cfr. Fil 3,10). Per questo mi smarco, perché solo Lui, Gesù, sia il centro della nostra meditazione.
Oggi è per noi festa grande: siamo qui a celebrare la comunione del nostro sacerdozio insieme ai nostri fedeli, la comunione tra noi, la comunione con Lui. La liturgia ci vede riuniti per la rinnovazione delle promesse sacerdotali e soprattutto per stringere nuovamente il patto di alleanza con Cristo.
Il Vangelo, letto e commentato tante volte, ci vuole a confronto con Cristo, modello della vita sacerdotale. Guardiamo a Lui, esaminiamo la nostra condotta, vediamo se assomiglia alla sua, e rinnoviamo volentieri i propositi di lasciarlo agire in noi liberamente e totalmente.
Il ministero esige una perfetta consonanza della nostra mente, del nostro cuore, dei nostri sentimenti, dei nostri atti, quasi una fusione della nostra persona con la sua. È san Paolo che per primo ha fatto uso (e forse inventato) la formula “in persona Christi”. Siamo chiamati a operare “in persona Christi”, immersi in Lui, dotati della sua potestà, colmati dei doni del suo Spirito, della sua Verità, del suo Amore, della sua Misericordia.
Soffermiamoci un poco a raccogliere le ricchezze contenute nella pagina evangelica proclamata poco fa. Innanzitutto, scrive il testo: «Si recò a Nazaret, dove era stato allevato» (v.16). Ecco, Gesù che ritorna sui luoghi dell’infanzia, della giovinezza, della formazione ricevuta in famiglia da Maria e Giuseppe; un invito per noi a tornare alle sorgenti della nostra formazione: famiglia, parrocchia, seminario; ai primi ardenti, puri e gioiosi incontri con il Signore (personali e comunitari), con la sua “dottrina”, la sua bontà, la sua amicizia, il suo fascino.

E poi: «Entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere» (v.16): un Gesù che entra decisamente nella comunità, che prende l’iniziativa, che mostra i tratti maturi della sua formazione. È un uomo maturo, completo. Un invito per noi a considerarci uomini pubblici, a farci avanti, a muoverci con coraggio, a proclamare il Vangelo.

Ed ancora: «Si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto… Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette» (vv.16-17.20a). Possiamo ammirare in tutto questo la compitezza, la signorilità, il rispetto, la devozione di Gesù. «Si alzò… Gli fu dato… Poi arrotolò… consegnò… si sedette…»; tutto questo fa di Gesù ciò che oggi si direbbe di un maestro della celebrazione. Invito per noi al senso del sacro, all’osservanza delle norme, ad insegnare con le nostre celebrazioni, a non lasciarci condizionare dall’abitudine.

Gesù, ancora, legge la Scrittura, legge la pericope fissata per quel giorno dal libro di Isaia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me…». Lasciamo da parte per ora il testo preciso. Fermiamoci alla Sacra Scrittura, all’amore alla Parola di Dio. La prima omelia di Gesù, in san Luca, non è fatta con parole proprie, ma con la Parola di Dio. Gesù la proclama, la esalta… È suo cibo (Gv 4,34). Invito, anche questo per noi, a predicare la Parola, ad essere come i primi apostoli ministri della Parola, a leggervi tutto, a trovarvi la soluzione di tutto… ad amarla, a farla amare. Poi, faremo scorgere in essa Gesù. Perché Gesù è la sua Parola, il Verbo. Pensiamo a quante iniziative ancora potremmo inventare: gruppi della Parola, Lectio divina, preparazione alla liturgia della Parola, ecc.

E la pagina continua: «Gli occhi di tutti erano fissi su di lui». È un particolare stupendo; può significare la trepidazione dei compaesani, la loro ansia, il loro orgoglio, la curiosità forse… ma dice certamente l’attesa. Quanta attesa nei confronti di Gesù. Pensiamo noi pure alla nostra prima Messa, ai primi passi del nostro servizio ecclesiale. Quante attese anche per noi, come fu per Giovanni Battista. Tanti si domandavano: «Che sarà mai di questo bambino?» (Lc 1,66). Che sarà mai di questo nuovo sacerdote? Con la nostra vita abbiamo risposto alle attese, o abbiamo deluso?

E il Vangelo conclude: «Allora cominciò a dire: oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con le vostre orecchie» (v.21). Ecco la spiegazione data da Gesù al brano di Isaia. Egli si rivela come compimento delle Scritture, Messia, uomo dello Spirito. E noi? Siamo un Vangelo vivente? Rendiamo testimonianza con la nostra esistenza? Chi ci guarda, cosa legge nella nostra vita? Cosa può ammirarvi?

Permettete ancora qualche pensiero. Voglio riferirmi alla scelta programmatica di questo anno pastorale: “Emmaus è qui!”. Un anno per avanzare nella consapevolezza e nell’amore per l’Eucaristia e per farle crescere nei nostri fratelli. L’Eucaristia: il sacramento della presenza viva di Gesù Risorto, della sua azione irradiante, della sua autodonazione.
Ho avvertito molto, in questi mesi – lo condivido con voi che siete i miei fratelli – la necessità di una conversione. Quando celebriamo l’Eucarestia, appaiono due identificazioni. La prima: il pane che spezziamo, il calice della benedizione che condividiamo, per opera dei sacerdoti diviene sull’altare corpo, sangue, anima e divinità di Nostro Signore Gesù Cristo. La nostra fede si impegna; i sensi non ci aiutano, perché continuano ad apparire gli accidenti: il pane col suo colore, nella sua forma, ecc. Noi crediamo a questa presenza e abbiamo costruito cattedrali meravigliose, tabernacoli d’oro per custodire questa presenza. Dove sta la conversione? La conversione è nel credere che – cito san Paolo –, «poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo. Tutti, infatti, partecipiamo dell’unico pane» (1Cor 10,17). La conversione che devo fare, alla quale vorrei invitare anche voi, sta nel considerare che nell’Eucarestia noi diventiamo Corpo di Gesù, suo Corpo mistico. E, se metto tutto l’impegno per credere nella presenza reale di Cristo sull’altare (prima identificazione), voglio impegnare tutta la fede anche nel credere che noi siamo suo Corpo, suo Popolo. Mentre la prima identificazione è opera del Signore, opera della sua Parola, questa seconda identificazione richiede la nostra corrispondenza, la nostra responsabilità; esige l’unità e la comunione tra noi come fratelli, l’uscita dal nostro io, il superamento di ogni egoismo e individualismo. Allora il sacramento del Corpo e del Sangue di Cristo è tale perché la Chiesa (e in essa ognuno di noi), si faccia dono agli altri, sacramento di unità, di pace, per quanti sono accanto e per quanti sono lontani. Allora l’incorporazione a Cristo non può essere, non può ridursi, non può immiserirsi ad un fatto individuale o individualistico, emotivamente gratificante. L’Eucaristia non può essere soltanto fonte di belle riflessioni, di belle parole. L’Eucaristia, invece, è – dico tre sostantivi, ognuno dei quali ha una sfumatura diversa – incentivo, spinta e slancio all’azione. In questo senso dico che l’Eucarestia è programma, via, imperativo, oltre che grazia che ci è donata. Cristo si è fatto Eucaristia per noi, perché noi ci facciamo Eucaristia per gli altri.

Che bello, che suggestivo, che arricchente, aver considerato i verbi eucaristici: Gesù prese il pane, lo benedisse, lo spezzò, lo diede. Li abbiamo tenuti presenti? Hanno orientato le nostre catechesi? Li abbiamo approfonditi con i nostri fedeli nello stile sinodale?
Il prossimo 7 aprile torneremo ad incontrarci a Casa San Giuseppe per un altro pomeriggio sinodale: ma non sarà l’ultimo… L’ultimo incontro, per questo anno, sarà il 15 giugno, con la restituzione del cammino alla presenza del nostro Vescovo Domenico.
Il Vangelo di ieri, mercoledì santo, ci riferiva la premura di Gesù e degli apostoli per la preparazione della Cena pasquale. «Dove vuoi che ti prepariamo per mangiare la Pasqua? Andate in città da un tale e ditegli… Il mio tempo è vicino. Farò la Pasqua da te con i miei discepoli» (cfr. Mt 26,17-19).
Non è sorprendente che per un’azione così importante e decisiva, punto di cerniera fra l’antica alleanza e la nuova, l’istituzione dell’Eucaristia – che è tutta la vita della Chiesa,  fonte e culmine – non è sorprendente, dico, che l’evangelista abbia dimenticato il nome del proprietario della casa? Un dettaglio senza importanza, si potrebbe pensare, ma preferisco vederci uno dei silenzi che dicono più del nome e cognome di questo signor Tale, o l’indirizzo di “quella casa”. Vi colgo un prolungamento della Parola di Gesù alla Samaritana: «Viene l’ora, è questa, nella quale i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4,23). Oppure un’eco di quest’altra parola: «Oggi devo venire a casa tua» (Lc 19,5). È a casa tua, dice Gesù, che voglio celebrare la Pasqua con i miei discepoli. Anonimato che, in fondo, rende la richiesta più universale e nello stesso tempo più personale. Non è il numero civico o la strada di Gerusalemme, né altra indicazione… è “a casa tua”! Questi giorni: giovedì, venerdì, sabato santo, Pasqua, non significano niente sul calendario affisso al muro o sulla bacheca parrocchiale se il vero Cenacolo non è in te stesso. «Quello che desidero ardentemente – dice Gesù – è prima di tutto celebrare la mia Pasqua da te: io in te e tu in me, come se non avessi altro Cenacolo, altra Emmaus in tutta la Chiesa. Il Padre cerca questi adoratori in perfetta intimità con Lui, ma anche in intimità con i fratelli, soprattutto con quelli con cui non vai d’accordo o che non la pensano come te, perché, è con i miei discepoli, senza eccezione, che voglio celebrare la Pasqua da te».

Omelia nelle Esequie di mons. Mansueto Fabbri

Novafeltria (RN), 26 marzo 2024

2Tm 4,6-8
Sal 22
Gv 12, 23-28

Porto il saluto del nostro Vescovo eletto Domenico, che rivolge le sue condoglianze, partecipando con la preghiera a questa celebrazione.

Filone d’Alessandria racconta così la morte di Mosè. Mosè era particolarmente amato dal Signore e caro agli uomini. Venne anche per Mosè il momento di lasciare questo mondo: aveva 120 anni. La morte si rifiutò di obbedire al comando di Dio. «Posso, forse, togliere il respiro ad un uomo così mite?». Dio, allora, mandò angeli, ma anche questi rifiutarono. Come spegnere i suoi occhi e la fiamma di un cuore così ardente d’amore per il suo popolo? Allora Dio stesso scese sul monte, si avvicinò all’amico Mosè, lo pregò di distendersi, di comporre le mani sul petto, di chiudere dolcemente gli occhi. Dio si chinò su di lui e con un bacio gli portò via l’anima (cfr. De Vita Mosis).

Care sorelle, cari fratelli, gli ultimi giorni di don Mansueto assomigliano tanto a quelli di Gesù nella sua Passione. Come Gesù continuava a soffrire, così anche don Mansueto, sazio di giorni e pressoché senza grosse inquietudini. Come Gesù continuava a pregare – mi correggo – era diventato preghiera; non dico che pregava “in automatico”, perché può apparire dispregiativo, ma la sua anima era davanti a Dio. Come Gesù continuava ad amare: «Avendo amato i suoi, li amò sino alla fine» (Gv 13,2). Tutta una vita spesa per il Vangelo e per la Chiesa di cui ha amato i pastori, i papi della sua vita, di cui ha letto biografie, voluminose e documentate: da Pio XI a papa Francesco; i suoi vescovi, i vescovi della Diocesi: da mons. Raffaele Santi a mons. Domenico, il Vescovo eletto che, appena qualche settimana fa, ha voluto visitarlo. Di lui don Mansueto teneva la foto sulla parete nella sua stanzetta; i sacerdoti, che ricordava con il proprio nome, uno per uno, ogni giorno nella preghiera di intercessione, ma anche tantissimi di voi, cari parrocchiani (e non), che siete stati in quella lista fortunata.

Dilexit Ecclesiam, la Chiesa concreta, quella che sussiste nella Chiesa particolare, non in astratto, questa Chiesa, la Diocesi: a cominciare dal Seminario, nel quale fu educatore e maestro, poi l’Azione Cattolica per la formazione e l’apostolato dei laici, il servizio ai catechisti e agli educatori percorrendo e ripercorrendo il Montefeltro da un capo all’altro: ritiri, incontri, meditazioni; il legame con l’Istituto dei Missionari della regalità di Cristo che non l’ha sottratto ai doveri e ai rapporti diocesani, semmai li ha motivati e sorretti; soprattutto la parrocchia: Pennabilli e le parrocchie dintorno fino a Casteldelci, poi Novafeltria per trent’anni. Per don Mansueto la Diocesi non era una circoscrizione territoriale, era sua famiglia, e sulla Diocesi ha saputo tessere un ricamo di amicizie, di collaborazioni e di presenza (immancabile, sempre in prima fila, attentissimo nei nostri incontri). Entusiasta del rinnovamento portato dal Concilio Vaticano II: uno sguardo nuovo sulla Chiesa, mistero e popolo di Dio, rinnovamento liturgico, riscoperta del laicato e dei carismi, dei nuovi movimenti (ha avuto contatti col Movimento dei Focolari, con Comunione e Liberazione, con gli amici Volontari della Sofferenza, con l’UNITALSI), adesione cordiale ed entusiasta al Rinnovamento nello Spirito e, per moltissimi anni, l’impegno nel Cammino neocatecumenale. Poi il Tribunale Ecclesiastico Flaminio, in cui ha ricoperto il ruolo di giudice: sapeva essere rigoroso e imparziale, qualche volta destando disappunto in chi l’avrebbe voluto dalla propria parte o indulgente. Misericordioso e accogliente, invece, nel ministero della Confessione. Quando mi aspettava, in cima alla scala, mi faceva pensare al padre misericordioso della parabola del figliuol prodigo. Ogni volta un abbraccio. Portava con sé un piccolo crocifisso, ogni volta invitando a considerare quelle braccia sempre spalancate. Nell’esortazione rimandava immancabilmente al mistero pasquale con parole profonde, ma comprensibili perché accompagnate dalla sua commozione, ogni volta come se fosse la prima. Tutto è narrato nella sua autobiografia; da non perdere anche l’aggiunta riguardante l’infanzia.
Se nella Prima Lettura abbiamo ascoltato l’esito della lunghezza e profondità di vita di don Mansueto: «È giunto il momento di sciogliere le vele, ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4,6-7)… Se nel Salmo 22 vediamo la testimonianza del suo fiducioso abbandono al buon Pastore che «fa riposare su pascoli erbosi e conduce ad acque tranquille» (cfr. Sal 22), nel Vangelo possiamo assaporare lo splendore e le dinamiche del mistero pasquale. «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato», e noi sappiamo bene che tipo di gloria il Padre riserva a Gesù. L’ora, rinviata per sei volte se stiamo al Vangelo di Giovanni, ora scocca. È il momento dell’innalzamento sulla croce di Gesù, centro di gravitazione universale, dal quale attirerà tutti a sé.
Infine, la mini-parabola del chicco di grano. Il Vangelo ha di questi paradossi: una lezione sul mistero dell’intera esistenza umana, così complicata, spiegata da un chicco di grano che ha saputo morire. L’accento – ve ne sarete accorti – non è sul morire, ma sul produrre frutto. È una scommessa: perdi la tua vita, cioè la doni e la spendi per gli altri, e la ritrovi piena di frutti, di relazioni, di amori corrisposti. «Se uno mi vuol servire, mi segua; dove sono io – dice Gesù – sarà anche il mio servitore». Questo il messaggio che ci consegna don Mansueto: la compagnia del Signore, la spiga strapiena di chicchi, la vita ritrovata, piena di senso, e il paradiso; il paradiso come lo insegna la Sacra Scrittura, dalle prime pagine alle ultime: nella Genesi è un giardino lussureggiante dove tutto ci sarà donato in abbondanza (cfr. Gn 2,15) e, alla fine, il libro dell’Apocalisse ne parla come di una nuova Gerusalemme, dove Dio asciugherà ogni lacrima, dove non ci sarà più la morte né il dolore (Ap 21,4). Questi testi si esprimono con immagini, non sono reportage, e tuttavia sono assai importanti; tutte le raffigurazioni hanno in comune promesse di gioia, di pace e soprattutto della visione felice di Dio e della comunione con lui per sempre.

Vedremo, ameremo, canteremo (cfr. La città di Dio, XXII, 30).
Vedremo. Vedremo quel volto che abbiamo cercato e desiderato tutta la vita, oggetto talvolta della nostra inquietudine: «Dio dove sei?», altre volte della nostra implorazione: «Mostrami il tuo volto».
Ameremo. Ameremo, perché siamo stati creati per questo. Riconosceremo le relazioni, non più intaccate dall’egoismo, che abbiamo costruito sulla terra, ognuno verso i propri cari, verso il proprio grappolo di vita e di amici, tutti resi capaci di un amore sempre nuovo, perché di amare non si è mai sazi: «Quando dici basta nell’amore, sei finito» (Sant’Agostino, Sermone 169).
Canteremo. Canteremo per la gioia, non ci sarà più limite di tempo e la gratuità non dovrà più guardarsi dai calcoli meschini di quaggiù. Si realizzerà quanto profetò Ben Sirach: «Nel glorificare il Signore, esaltatelo quanto più potete: ne sopravanza sempre; per esaltarlo raccogliete le vostre forze, non stancatevi, perché non finirete mai» (Sir 43,30). Gloria e lode a te Signore Gesù. Per sempre.

Omelia nella Domenica delle Palme

Pennabilli (RN), Cattedrale, 24 marzo 2024

Is 50,4-7
Sal 21
Fil 2,6-11
Mc 14,1-15,47

«Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un privilegio la sua uguaglianza con Dio, ma umiliò se stesso…» (Fil 2,5-6).
Così Paolo scriveva ai cristiani di Filippi ed è quello che anch’io propongo a tutti voi in questo giorno che apre la Settimana Santa. Nessuno è così sprovveduto da non essere al corrente dei sentimenti che furono in Gesù, che attraversavano il suo cuore: sentimenti anzitutto di fedeltà alla sua missione, poi il desiderio di affettuosa compagnia in quei momenti di solitudine, ma anche sentimenti di paura, tristezza, angoscia davanti alla Passione, compresa l’impressione – tutta umana – di sentire l’abbandono del Padre. Sì, perché nell’unica persona di Gesù vi sono la natura umana e la natura divina. Non dobbiamo togliere dai Vangeli i sentimenti e le emozioni che Gesù ha provato nel suo cuore umano. Gesù ha conosciuto e vissuto fino in fondo quello che c’è nel cuore e nulla di ciò che è nel nostro cuore gli è estraneo.

«Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Gesù». Vi propongo alcuni esercizi spirituali per vivere al meglio la Settimana Santa. Il primo: proviamo a sintonizzare il nostro orologio sull’orologio della Passione del Signore. Non sarà difficile farlo, quando saremo nei campi a lavorare, nelle fabbriche, per strada, in auto, quando andremo al mercato, quando saremo sui banchi di scuola o dell’università, soprattutto quando ci alziamo la mattina e chiudiamo la giornata, la sera. Oggi, ad esempio, a quest’ora, con i pellegrini che salgono alla città santa di Gerusalemme, cantiamo “Osanna, benedetto colui che viene nel nome del Signore”. Quali saranno stati i sentimenti di Gesù, al di là delle grida dei fanciulli, che agitavano rami di ulivo?

Domani la liturgia ci riferirà l’invito rivolto a Gesù da Maria, Marta e Lazzaro, perché si fermi a casa loro. Maria non baderà a spese per onorare l’ospite: lo profumerà con il preziosissimo nardo. Gesù fu contento di quelle attenzioni. Quanto preziose sono le nostre attenzioni per il Signore! Il Signore si fa mendicante per educarci.
Nei giorni successivi la liturgia ricorda la preparazione della cena pasquale, l’ultima o, meglio, la prima (se la intendiamo come Eucaristia), durante la quale istituirà il sacramento del suo Corpo e del suo Sangue nel pane spezzato e nel vino versato. Sono le ore conclusive del tradimento: Giuda contratta con le autorità il prezzo col quale vendere il Signore.
Giovedì Santo queste le parole di Gesù: «Ho desiderato ardentemente mangiare con voi questa Pasqua». È l’amico che invita l’amico a mangiare la Pasqua con lui. Poi la notte della cattura, la convocazione di un tribunale d’emergenza, organizzato proprio per lui, e l’umiliazione, la tortura, la condanna…
Poi, il Venerdì della Passione del Signore e della Madre, unita con lui, la salita al Calvario, la crocifissione, la morte e poi il grande silenzio del Sabato.

«Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù».
Un altro esercizio: entrare in relazione con Gesù mettendosi nei panni dei personaggi, guardando Gesù con i loro occhi. In noi c’è sicuramente un po’ della pietà delle donne che non abbandonarono Gesù. Verso di loro Gesù prova sentimenti di gratitudine e poi di riconoscenza. Talvolta in noi domina la paura come in Pietro. Quante volte abbiamo rinnegato il Signore; i sentimenti di Gesù per Pietro sono di misericordia, di perdono e sarebbe stato così anche per Giuda se avesse avuto l’umiltà di confessare il tradimento e chiedere perdono. Ci sono ancora tanti personaggi: i sommi sacerdoti, gli anziani del popolo, Ponzio Pilato. Gesù dirà per loro: «Padre, perdonali, non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).
Fissiamo l’attenzione sul centurione: nel Vangelo di Marco è personaggio chiave. Se leggessimo il Vangelo di Marco interamente, di seguito, senza stacchi, comprenderemmo che Gesù viene presentato come un grande enigma: «Chi è costui?», si chiedono in tanti. Se lo chiede la gente, spesso sbagliando completamente risposta. Se lo chiedono, addirittura, i parenti di Gesù, quando vanno per portarlo a casa pensando che era fuori di testa. Se lo chiedono i capi del popolo, dicendo che lui agisce «per opera di Belzebùl, il principe dei demoni». Se lo chiedono i discepoli, compagni di strada, che danno risposte incomplete, qualche volta equivoche. Sì, per loro è il Messia, ma un Messia umano e politico. E c’è la domanda centrale e decisiva, sia per la forma sia per l’autorevolezza del personaggio (il sommo sacerdote): «Sei tu il Figlio di Dio?». Siamo nel punto centrale del Vangelo di Marco: «Sei tu il Figlio di Dio, il Benedetto?». E Gesù risponderà in modo inequivocabile: «Io sono il Figlio di Dio». Una risposta che gli costerà cara.
L’evangelista Marco affiderà al centurione, il pagano, lo straniero, la confessione di fede: «Avendolo visto morire in quel modo, disse: “Davvero quest’uomo è il Figlio di Dio”». Proprio in quel momento, in quell’estrema debolezza, in quel totale fallimento, la fede fa riconoscere in lui il Signore. Il centurione romano è la figura del discepolo che riconosce che morire così è solo cosa da Dio. «Scendi dalla croce», gridano attorno a lui. Ma, se scendesse, non sarebbe Dio! Ragionerebbe ancora in termini troppo umani. Solo un Dio non scende dalla croce. E che fa Gesù? Quali sono i suoi sentimenti? Continua a soffrire, continua a pregare, continua ad amare.

«Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù».
Ecco il terzo esercizio, il più importante: dove incontrare Gesù vivo in questa Settimana Santa? Dove si fa visibile, attivo? Nei segni sacramentali. San Leone Magno scriveva a questo proposito: «Tutto ciò che fu visibile del nostro Redentore è passato nei segni sacramentali». Ad esempio, nel sacramento della Confessione. Non dobbiamo guardare a noi stessi, al nostro imbarazzo, alla nostra fatica di mettere in fila i peccati (sono talmente evidenti i nostri egoismi…), ma concentrarci sull’esperienza di tenerezza, di misericordia, di fiducia che viene dal Signore: è necessario lasciarsi amare! Ci si confessa perché si ha bisogno della tenerezza del Signore, di sentirsi dire ancora una volta: «Sei perdonato, sei fatto nuovo, ricomincia!». Poi, il sacramento dolcissimo dell’Eucaristia con cui il Signore si fa presente, agisce, si dona nel pane spezzato. Facciamo Pasqua!

Omelia nella V domenica di Quaresima

Miratoio (RN), 17 marzo 2024

“Due giorni” ACR Medie

Ger 31,31-34
Sal 50
Eb 5,7-9
Gv 12,20-33

Cari ragazzi, vi saluto con tanto affetto e saluto i vostri educatori, che hanno dedicato due giorni interi a voi. Saluto la nuova Presidente Diocesana dell’Azione Cattolica, Giulia Rinaldi.
Ho fatto il Liceo classico: per cinque anni la mia familiarità è stata con i greci, studiandone la letteratura, le vicende e gli eroi…
I greci, al tempo di Gesù, erano il top della cultura: sentire, allora, che alcuni di loro «vogliono vedere Gesù» mi ha emozionato.
I greci vogliono vedere Gesù. C’è un’anticamera molto concitata, perché quei greci non sapevano a chi rivolgersi. Si rivolgono a uno dei discepoli che è di Betsaida (a Betsaida si parlava il greco), Filippo (letteralmente “colui che ama i cavalli”), e poi ad Andrea (nome greco che significa “uomo/maschio”). Non vanno direttamente da Gesù, hanno bisogno di una mediazione. C’è sempre bisogno di qualcuno che favorisca l’incontro, che incoraggi, che aiuti ad osare come quando, davanti al portellone aperto dell’aereo, qualcuno dice al paracadutista: «Tocca a te!», e magari dà uno spintone. Anche noi, per conoscere Gesù, come i greci abbiamo bisogno di una mediazione: ad esempio la nostra comunità parrocchiale, il nostro parroco, i nostri educatori e soprattutto i nostri genitori.
Mettiamoci nei panni di Filippo e Andrea. Pensano: «Che bello, ci sono dei greci che vogliono vedere Gesù!»; è il momento del suo trionfo. Invece, Gesù li delude: racconta una mini-parabola piuttosto impegnativa: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto». Gesù ha davanti i greci, popolo che ha costruito sull’altura di Atene il Partenone, una delle meraviglie dell’antichità e di oggi. A loro e a tutti svela il vero segreto della vita, amare fino al dono totale di sé. Tuttavia, sbaglieremmo se mettessimo l’accento sul morire, mentre invece è sul portare molto frutto. È la legge del Vangelo: quando entri in relazione con un amico o un’amica, se gli vuoi veramente bene, gli fai spazio, fai un passo indietro perché lui possa donarsi a sua volta. Vi consegno questa regola, è importante la ricordiate: «Il chicco di frumento che accetta di morire (nell’immediato sembra una morte) produrrà una spiga carica di chicchi di frumento: è la legge della vita».
Chissà se i greci hanno dato ascolto a Gesù, se anche loro hanno scelto di far parte del gruppo… Il Vangelo non lo dice, dice solo che Gesù spiegò la mini-parabola e disse che quel chicco di frumento era lui, che, innalzato da terra (sulla croce) sarebbe diventato il punto di gravitazione universale, perché attirerà tutti (italiani, sammarinesi, congolesi, coreani…) a lui. Gesù è attrattivo!
Ieri sera ho incontrato, a Ravenna, un gruppo di giovani che hanno partecipato alla GMG di Lisbona. Si chiedevano: «Perché noi giovani, ricevuta la Cresima, ce ne andiamo dalla comunità?». Si possono dare tante spiegazioni, ma ho fiducia che Gesù, prima o poi, faccia breccia nei cuori. Ad esempio, mio nonno, prima di morire ha incontrato Gesù, lui che fino ad ottant’anni era lontano…
È necessario, però, che restiamo uniti. Voi avete la fortuna di far parte dell’ACR!
Perché mi piace l’ACR? Mi piace perché, nell’ACR, non solo si fa l’incontro con Gesù, ma si racconta l’incontro. Da questo nasce un “sociale”, un insieme, un gruppo: sono i ragazzi che raccontano l’incontro con Gesù, come avete fatto voi in questi due giorni.

Esercizi Spirituali per sposi e fidanzati

Via Crucis Sant’Igne-San Leo

Via Crucis vivente RSM

“Per amore dei nostri figli”

Omelia nella Solennità del “Venerdì Bello”

Pennabilli (RN), Santuario della Madonna delle Grazie, 15 marzo 2024

Prv 8,22-31
Sal 44
Ef 1,3-6.11-12
Lc 1,26-38

Siamo riuniti per rinnovare la tradizione del “Venerdì Bello”. Era venerdì 20 marzo 1489, quando l’immagine della Vergine, qui custodita, fu vista versare lacrime. Il fatto, suffragato da molte testimonianze, fu riconosciuto e venne approvato dal Vescovo diocesano, Celso Mellini. Il fatto, da subito, fu interpretato come un segno di premura materna, sostegno, difesa della Beata Vergine delle Grazie verso queste nostre comunità.
La festa del “Venerdì Bello” coincide con l’arrivo della primavera, inizio di un nuovo ciclo, con lo sbocciare di nuovi germogli e gemme, con la gioielleria delle viole, delle primule e dei narcisi. Sono molto lunghi gli inverni di quassù, anche se quest’anno l’inverno è stato molto mite (purtroppo, per altri versi…). La celebrazione del “Venerdì Bello” sostiene i giorni decisivi della Quaresima e prepara alle solenni liturgie della Settimana Santa. Per noi sacerdoti costituisce una piccola sosta nelle fatiche pastorali che, in questo tempo, si fanno più gravose: visita e benedizione alle famiglie (esperienza bellissima!), catechesi, liturgie, formazione degli adulti (incontri, predicazioni, ritiri), Vie Crucis, Veglia missionaria. Una sosta, una pausa, un sollievo, ma dove? Ai piedi, anzi sulle ginocchia, ancora di più, tra le braccia della Madre. Amo pensare Maria nella casa di Giovanni: la Madre ceduta da Gesù al discepolo agapetos (“amato”); Maria, da allora, sta ad Efeso, accanto al discepolo. E noi? Siamo qui per prendere Maria nella nostra casa. Le lacrime sono il segno di una umanità, la sua, risorta, ma vera, coinvolta, emozionata. Maria ci sollecita ad avere con lei un rapporto altrettanto vero, profondo, corrispondente a quello che lei ha per noi. Non siamo troppo prudenti nell’abbandonarci anche al sentimento (la devozione non dev’essere un sentimentalismo, sia ben chiaro!), nella fede portiamo anche i nostri cuori: «Sotto la tua protezione cerco rifugio, Santa Madre di Dio, non disprezzare le suppliche di me che sono nella prova, ma liberami da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta».
Siamo qui questa mattina – mi rivolgo particolarmente ai miei presbiteri – per affidarle tre eventi che stiamo vivendo. Il primo: l’arrivo, nel nome del Signore, del nuovo Vescovo Domenico. Come vivere questa attesa? Con la contemplazione del dono della successione apostolica. Per noi il Vescovo Domenico non sarà un funzionario mandato dal Vaticano. È un apostolo, o meglio un successore degli apostoli. Lui stabilirà con tutti, ma soprattutto con noi sacerdoti, un legame sacramentale, occasione di rimessa a fuoco del nostro rapporto col Vescovo. È l’accoglienza del Vescovo anche come persona, con la sua storia, la sua cultura, il suo cuore, i suoi sentimenti. Mi ha sempre fatto impressione quanto disse san Giovanni Paolo II: «Non è senza un disegno della divina Provvidenza che sul soglio di Pietro siede un polacco, con tutto quello che questo comporta: la sua storia, la sua cultura…». Come vivere questo evento straordinario per la nostra Chiesa? Nella tensione alla comunione, sempre di più.
Un altro avvenimento che abbiamo vissuto in questi giorni è stata la Visita ad limina: vi ho portato tutti con me nelle quattro Basiliche Maggiori, sulle tombe degli apostoli Pietro e Paolo. Lì ho confermato la mia e la vostra fede sulla roccia di Pietro. Ho consegnato la vita della nostra Chiesa (70 pagine di relazione!), con trepidazione (c’erano molte domande!), e ho ricevuto incoraggiamento.
Il terzo evento che dobbiamo vivere è la Terza Giornata Eucaristica, il 7 aprile. Guai a chi manca! È stato bello, quest’anno, mettere al centro l’Eucaristia. Non importa il numero delle persone che siamo riusciti a coinvolgere. Abbiamo gustato i quattro “verbi eucaristici”: «Gesù prese il pane, benedisse il pane, spezzò il pane, lo diede». Poi, la peregrinatio dell’icona della Cena di Emmaus. In tutte le comunità è un avvenimento edificante e gradito. La Terza Giornata Eucaristica sarà la penultima tappa del Cammino Sinodale di quest’anno.

Oggi la liturgia ci fa spalancare orecchi, cuore, mente, su due stupendi inni, due liriche, che hanno la forza di rapirci al Cielo della Trinità.
La prima, dal libro dei Proverbi di Salomone, e la seconda di san Paolo nella Lettera agli Efesini.
Chi è la sapienza di cui canta Salomone? Di lei si parla altre volte nei testi biblici, come di un bene spirituale, desiderabile, prezioso, ma qui la sapienza è personificata, è lei stessa che parla di sé, racconta della sua origine: «Generata prima di ogni creatura, coinvolta come parte attiva nella creazione, incaricata di una missione da svolgere verso gli uomini: condurli a Dio». Quello contenuto nell’inno del libro dei Proverbi è un identikit appena sbozzato, ma, nel Nuovo Testamento, quell’intuizione avrà uno sviluppo nuovo e decisivo, diventerà rivelazione: la sapienza è il Verbo di Dio, Gesù Cristo.
La liturgia applica questo testo alla Vergine Maria; non è un’eccedenza, Maria è collaboratrice del Redentore come la sapienza lo è del Creatore, nella duplice veste di parte attiva, nel mistero della Redenzione, e per la sua missione verso di noi.
Alcuni anni fa dedicai una Lettera pastorale alla Madonna. Aveva questo titolo: «Maria Cielo di Dio». Con questo titolo non intesi formulare un’iperbole devozionale, né avere tantomeno la presunzione di attribuirle un privilegio nuovo. Maria, però, è il Cielo sul quale, per pura grazia, il Padre dona il suo splendore, l’irradiazione della sua gloria, il Verbo.
Che cosa deve fare Maria? Nulla. Soltanto accogliere l’iniziativa dell’Amante nel suo eterno generare l’Amato, il Figlio, e il reciproco donarsi che è lo Spirito Santo.
Il racconto evangelico dell’Annunciazione è la più significativa tra le pagine di Rivelazione trinitaria. Tutta la Trinità si affaccia sulla casa di Nazaret e vive in Maria il suo Cielo. In Lei, l’Eterno entra nel tempo. Il suo abbandonarsi è totale. Il senso vero della sua domanda: «Come accadrà questo?» equivale ad un «Signore, cosa vuoi che io faccia?». Maria lascia da parte tutte le ragioni, sicuramente valide: c’è di mezzo Giuseppe, che cosa dirà? C’è di mezzo il chiacchiericcio della gente: una ragazza incinta fuori dal matrimonio… C’è di mezzo la sua piccolezza, ma è proprio alla sua piccolezza che l’Altissimo rivolge lo sguardo. Trovo molto suggestiva la preghiera di san Bernardo davanti all’Annunciazione. L’angelo ha parlato. Maria ascolta. C’è un attimo di profondo silenzio. Cosa risponderà? Cosa dirà all’angelo? È come se il tempo si fermasse… Bernardo – è un’esegesi discutibile – entra sulla scena, si fa voce dell’umanità che implora quel “sì”. È Bernardo che prega, ma è voce della mia preghiera e di quella di ciascuno di noi. Mi piace immaginare sulla scena anche il lebbroso del Vangelo che chiede il “sì” di Maria. Sa che, se lei dirà “sì”, Gesù lo risanerà. Immagino la donna peccatrice che attende di essere liberata da sette demoni. Immagino Zaccheo, capo dei pubblicani, desideroso di farla finita col suo comportamento mafioso. Penso al ladrone che sulla croce chiede solo che Gesù si ricordi di Lui.
Riprendo le parole di san Bernardo: «Perché tardi? Perché temi? Credi all’opera del Signore, dà il tuo assenso ad essa, accoglila. Nella tua umiltà prendi audacia, nella tua verecondia prendi coraggio. In nessun modo devi ora, nella tua semplicità verginale, dimenticare la prudenza, perché se nel silenzio è gradita la modestia, ora è piuttosto necessaria la pietà della parola. Apri, Vergine Beata, il cuore alla fede, le labbra all’assenso, il grembo al Creatore. Levati con la fede, corri con la devozione, apri con il tuo “sì”». «Eccomi – risponde – sono la serva del Signore, avvenga in me quello che hai detto». Nostra Signora del “sì” insegnaci a discernere la volontà di Dio, ad accoglierla nella fede e a corrispondere alla grazia. Tu, la piena di grazia, dicci in che modo imitarti. Ci rendiamo conto che non possiamo essere cristiani se non essendo mariani». Chiediamo a Maria di farci altri “Cielo di Dio”, dimore della Trinità, grembi di Dio nella storia.
Al termine di questo anno eucaristico è cresciuta in noi sacerdoti la consapevolezza dell’analogia che ci lega a Maria. Anche noi, per così dire, mettiamo al mondo il Signore Gesù. L’Eucaristia è la continuazione dell’incarnazione del Verbo. Nell’intraprendere il cammino dell’anno liturgico – ricorderete – la nostra preghiera, i nostri sospiri erano rivolti all’avvenimento che poteva sembrare nient’altro che un sogno: «Che Dio squarciasse i cieli e scendesse tra gli uomini». Il sogno, nella pienezza dei tempi, è divenuto realtà e il Figlio di Dio è comparso tra noi, nostro Emmanuele, nato da una Vergine. E quel fatto non è relegato in un momento della storia, duemilaventicinque anni fa; l’incarnazione perdura, il nostro Dio è con noi, tutti i giorni, sino alla fine dei secoli.
L’Eucaristia costituisce la continuazione dell’incarnazione, la permanenza del Signore tra noi sino ad oggi, ma la sua entrata nella storia del mondo, allora, fu per tutta l’umanità passata, presente e futura, per tutta l’umanità in generale. L’Eucaristia, in un certo modo, presenta qualche cosa di più. L’Eucaristia è l’incarnazione del Signore in ognuno di coloro che credono in Lui e di Lui si cibano, della sua carne e del suo sangue. Non è lui che si trasforma in noi, ma siamo noi che veniamo trasformati in Lui (sant’Agostino). Ciascuno di noi, mediante l’Eucaristia diventa Cristo, può dire: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Noi siamo fatti membra di Cristo. Di più, noi siamo Cristo. In questo tutto è grazia, soltanto grazia. Rapiti da questa bellezza, facciamo nostro l’inno che apre la Lettera agli Efesini, l’inno che Paolo innalza mentre è in catene: «Benedetto sia Dio, Padre del Signore Nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione nei Cieli in Cristo; in Lui ci ha scelti per essere santi e immacolati, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi, secondo il beneplacito del suo volere». Così sia.