Quando si fa strada insieme

9 settembre 2017

Suor Lucia, una delle veggenti di Fatima, non è assolutamente contenta della scultura in cedro del Brasile che Josè Ferreira Thedim ha realizzato sotto sua dettatura. È una statuetta di appena un metro e qualche centimetro, che dal 1920 è stata collocata nel luogo stesso delle apparizioni. A darle valore è certamente il richiamo simbolico, ma sul posto ci si rende conto, come quell’immagine sia – per così dire – rivestita dei milioni di sguardi fissi su di lei. Anche tra i nostri pellegrini c’è chi l’ha guardata con le lacrime agli occhi e chi ha prolungato il suo sguardo quasi in contemplazione. È questione di fede: non ho visto effetti speciali. È tutto molto semplice. Anche il territorio attorno a Fatima appare come Nazaret, luogo dell’incarnazione. Protagonisti tre fanciulli, ignari di quello che sarebbe accaduto. La Via crucis che abbiamo percorso si snoda fra i campi. Un po’ d’ombra te la offrono gli ulivi che qua e là son cresciuti sul margine della strada.
Le tre giornate di Fatima stanno per concludersi. Oggi, sulla via del ritorno, incrociamo una lunga carovana di pullman che salgono a Fatima. Impariamo che sono oltre 550 (nell’anno del centenario si calcola l’arrivo di 8 milioni di persone).
Qualcuno insinua che a Fatima si concentri un cattolicesimo tradizionale, luogo di devozione popolare soltanto. Sì, c’è un popolo intero: famiglie, gruppi di ragazzini, preti rigorosamente in tonaca nera nonostante il caldo, preti più sbarazzini, persone che esibiscono senza complessi il loro entusiasmo, altre più compassate. Ci sono anche i turisti e i curiosi. È uno spaccato del popolo di Dio in questi giorni difficili.
La liturgia è semplice ma molto curata, rigorosamente conciliare. Le preghiere, ripetute in molte lingue nazionali, non ti danno la sensazione di una Babele, semmai di una Pentecoste. Il repertorio dei canti si aggiorna, ma di frequente rispuntano le intramontabili diciotto note dell’Ave Maria di Fatima che poi continuano a risuonarti e ad accompagnarti dentro. Ho imparato – non me n’ero accorto – che molti del nostro gruppo, la mattina presto vanno alla cappella delle apparizioni per un saluto più intimo alla Madonna di Fatima (prima ancora della colazione che viene servita puntualmente alle 6.30). Domando che cosa dicono, che cosa chiedono alla Madonna. Raccolgo qualche confidenza e qualche confessione. Un’amica mi riferisce d’aver sentito in tutta la sua verità la frase di Gesù a Santa Caterina da Siena: «Mi sei piaciuta soprattutto quando eri senza parole, in silenzio davanti a me».
In compagnia di una guida italo-portoghese abbiamo la possibilità di capire qualcosa della storia e della civiltà lusitana (del Portogallo) e del cammino contorto che l’ha resa una potenza tra le più importanti dell’Europa, aperta a quella che viene chiamata la stagione delle scoperte (attenzione, ripete la guida, è riduttivo parlare di scoperta dell’America). Abbiamo tempo per visitare due straordinari edifici religiosi, due chiese esempio del gotico cistercense: si slanciano per oltre cento metri con fasci di colonne che ne aumentano il misticismo. Misticismo, austerità, bellezza: uno shock per tutti!
Poi chiudiamo con una visita veloce alle città regali Coimbra e Oporto. Intanto la compagnia è sempre più coesa. Succede sempre quando si fa strada insieme. Ma qui c’è di più. Lo si è sperimentato nei momenti di comunione d’anima. Ti accorgi allora di come si vive della fede degli altri e si mette a disposizione la propria.
L’ultimo atto in terra lusitana è la Messa: c’è il Vangelo che riporta la promessa di Gesù: «Dove due o più sono uniti nel mio nome io sono in mezzo a loro». Noi ne abbiamo fatto esperienza.

+ Andrea Turazzi

A Fatima è pieno giorno!

Continua il reportage da Fatima

8 settembre 2017

 

Ressa di pellegrini. Spostamenti frequenti. C’è chi resta indietro, c’è chi è in testa. Punto di riferimento per il nostro gruppo è “il muro di Berlino”: si tratta di un segmento di cemento che proviene dalla città tedesca, donato da San Giovanni Paolo II all’indomani dell’abbattimento del muro che tagliò in due Berlino. Ogni volta che entriamo nello spazio sacro del santuario sta davanti a noi come una lacrima pietrificata: simbolo di divisione, di sofferenza, di morte e di morti.
Ricordo bene quando il muro fu eretto (all’epoca ero un ragazzino che cominciava a capire): ci appariva come una lama che squarciava in due l’Europa. Qui si prega per la pace.
Fatima è così: spiritualità profonda e radicamento nella storia, profezia e realismo. Il messaggio è chiaro: la pace dipende da te. Anche se sei un “piccolo”, i destini del mondo passano, in qualche modo, dalle tue mani e dal tuo cuore disposto alla conversione.
L’invocazione alla Vergine ti esce semplice e convincente: le parli delle persone che si sono raccomandate al tuo ricordo e poi delle infinite altre che, proprio in questi giorni, sono sotto la minaccia della guerra.
Poi si sta alla scuola di Maria per imparare a dire “sì”.
Il nostro gruppo – i cinquanta pellegrini di San Marino e del Montefeltro – si unisce agli altri pellegrini della Romagna.
A sorpresa mi viene chiesto di presiedere la processione eucaristica notturna.
Salgo i gradini dell’altare candido. Alle spalle la piccola statua della Madonna, un tentativo ambizioso di raffigurare la Signora che i tre pastorelli hanno visto; davanti ho la folla dei pellegrini che al canto dell’Ave alzano i flambeaux: un mare di luci. Poi ci inginocchiamo tutti davanti all’Ostia.
«È tanta la fame dell’umanità – diceva profeticamente il mahatma Gandhi – che se un Dio scendesse dal cielo prenderebbe la forma del pane». Davanti al “Dio di pane” siamo tuffati da capo a piedi nella profezia del mondo unito: formiamo un corpo solo. Ci sono rappresentate almeno dieci nazionalità diverse e la Repubblica di San Marino è tra queste (salutata cordialmente dallo speaker). Il vescovo di Rimini nella sua omelia riferisce un detto rabbinico. È il maestro che chiede ai discepoli il momento esatto nel quale la notte cede al giorno. C’è chi risponde «quando si distingue un pero da un melo». Qualche altro «quando si distingue un cane da una pecora».
Insoddisfatto il maestro replica: «È giorno quando vedi in chi ti passa accanto un fratello».
Per noi, cercatori di gloria – conclude mons. Lambiasi – ecco il capovolgimento divino: è Dio che scende e che si fa piccolo. Un cazzotto alla nostra idea sbagliata di Dio.
Qui a Fatima è pieno giorno!

+ Andrea Turazzi

Reportage dal pellegrinaggio a Fatima

L’aereo è già sulla pista, pronto ad imbarcare i cinquanta pellegrini che, in rappresentanza dell’intera diocesi di San Marino-Montefeltro, decolleranno per il Portogallo. Destinazione Fatima. Poche ore di volo, ma tante di attesa (problema la sicurezza in questi giorni di “guerra a pezzi”). Le valigie sono ormai al sicuro nella stiva del Boeing della Ryanair… E nei cuori tante attese e grappoli di preghiere da adagiare ai piedi della Vergine. Col taccuino e la penna mi aggiro a caccia di pensieri ed emozioni. Curioso tra i pellegrini. Raccolgo impressioni, chiedo i “perché” di questo viaggio. Dopotutto la meta turisticamente non è tra le più gettonate, senza nulla togliere al fascino di Lisbona immortalato in celebri pellicole, o al grande orizzonte lusitano sull’oceano Atlantico da dove Cristoforo Colombo è salpato alla scoperta del nuovo mondo (un vero spettacolo dall’oblò dell’aereo). La Cova di Iria non riserva nulla di spettacolare: terra povera e sassosa, terra collinare e di pascoli. Qui, il 13 maggio di cent’anni fa, tre pastorelli, Lucia, Francesco e Giacinta, mentre pregano il Rosario, d’improvviso scorgono su un arbusto una signora vestita di bianco. È l’inizio delle apparizioni della Madonna: per sei mesi consecutivi la Vergine si presenterà ai pastorelli e parlerà a Lucia chiedendo preghiere, penitenze e conversione per la pace nel mondo. Il momento era drammatico: nel 1917 la prima guerra mondiale era in corso e in Russia si è compiuta la “rivoluzione d’ottobre”. A Fatima risuona ancora oggi l’invito a contrastare la logica della violenza con la fede. Un’esortazione quanto mai attuale data la caotica situazione che il mondo sta vivendo. Per questa ragione, sei mesi fa, papa Francesco, seguendo le orme dei predecessori è andato a Fatima come pellegrino di pace e di speranza e per proclamare la santità di Giacinta e Francesco, morti poco dopo le apparizioni. Per Lucia, che si è spenta nel 2005 nel monastero in cui aveva deciso di entrare come religiosa, ci vorrà ancora un po’ di tempo.
«Sono qui per vedere se Fatima mi suscita qualcosa dentro»: così mi confida una giovane signora poco disposta ad indulgere ad emozioni artificiose. Si direbbe che è alla ricerca di qualcosa di autentico che possa arricchire il suo cammino di fede. Una coppia di sposi vive il pellegrinaggio come una sorta di ritiro: «Ci hanno parlato del clima spirituale che avvolge Fatima e dintorni. Spettacolare la grande basilica, ma con la possibilità di godere spazi di raccoglimento e di preghiera. Abbiamo bisogno di questi tre giorni speciali e forti». «Effettivamente il programma per i nostri pellegrini – interviene Chiara Ferranti, guida del viaggio – offre momenti intensi di preghiera, ma anche di conoscenza dell’ambiente». «Sono qui per coronare il cammino di questo anno centenario – conclude un sacerdote – ho da adempiere una promessa». Per molti pellegrini è la prima volta. Qualcuno è già stato e tiene banco azzardando confronti tra Fatima e Lourdes. Ci sono dei momenti nei quali può succedere di sentire con l’anima una particolare presenza di Maria. In tutti prevale l’attesa, il desiderio di un incontro, la voglia di scoprire un rapporto più profondo con la Madre del Signore Gesù. E poi – come in ogni pellegrinaggio – la scoperta di nuove relazioni: davvero una bella compagnia.
A Fatima si pregherà per la pace, per le famiglie e soprattutto per la Diocesi che nel mese di settembre si appresta a vivere momenti importanti: l’inizio solenne della Visita Pastorale del Vescovo, il Mandato agli operatori pastorali e l’apertura dell’anno pastorale. Il 13 maggio scorso – sarà bene ricordarlo – diocesi, parrocchie e famiglie sono state consacrate al Cuore Immacolato, una consacrazione che ha comportato l’assunzione di precisi impegni: la difesa della vita dal suo inizio al suo naturale termine, la costruzione dell’unità in parrocchia e l’ascolto e l’educazione dei giovani.

+ Andrea Turazzi

Omelia per la festa di San Marino

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
San Marino città, 3 settembre 2017

(da registrazione)

Eccellenze carissime, signori Segretari, fratelli e sorelle,
auguri per questa nostra festa, auguri a tutti;
mi dovete permettere di rivolgere un saluto specialissimo ai nostri giovani.
Quest’anno, cari ragazzi, ci sentirete molto parlare di voi, ci stiamo preparando al Sinodo dei Vescovi dedicato proprio al tema: “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”. San Marino è lontano da noi nel tempo, ma è così vicino e caro a tutti noi che quasi ci succede di identificarci con lui; per esempio, quando ci chiedono “di dove sei?” e rispondiamo “sono di San Marino”, indichiamo il luogo dove abitiamo, ma anche un’appartenenza: “Io sono di San Marino, ho un legame con questa persona così cara”. Non sono uno storico, non so tracciare ciò che manca ai documenti per ricostruire la figura di san Marino, quindi non mi permetterei mai di fare un “restauro interpretativo”, ma prendo quello che di lui ci dice la liturgia di oggi. E in particolare sottolineo un aspetto: Marino era un cercatore della verità, non uno che la sbandiera come sua proprietà, ma uno che è in continua ricerca. Nella prima lettura si parla di un “cercatore della sapienza”. C’è tutto un fiorire incalzante, suggestivo, di verbi. Quel cercatore rincorre la sapienza perché vuole capirne i segreti, addirittura si apposta quasi come uno che vuol fare un agguato, tende il suo orecchio, la spia, si ferma nei pressi della sua dimora, pone la sua tenda accanto, fissa un chiodo alle sue pareti per dire che di lì non se ne vuole andare; gli è troppo cara la sapienza. E poi mette se stesso e i propri figli sotto la sua protezione e lui stesso si difende alla sua ombra, ma alla fine è lei, la sapienza, che gli va incontro come fa una madre premurosa, o una sposa innamorata. Infine, continua il libro del Siracide, la sapienza lo nutre, lo disseta, lo sostiene, non lo delude: la sapienza non delude mai. E il cercatore a lei si abbandona fiducioso. Ecco il ritratto che la liturgia ci offre; per lo meno uno dei profili della figura di Marino, cercatore della sapienza. Chi è cattolico si riconosce in pieno in questa sua eredità e la trova ancora fresca, ma sa che potrà esser sua solo se la riconquista: occorre riguadagnare per ripossedere. C’è la gratitudine ma anche la responsabilità. Chi è laico gode di questa eredità perché in essa è contenuta una perla preziosa (e gli conviene).
Oggi in un’unica solennità celebriamo la fondazione della nostra comunità civile e il santo suo fondatore. Nella stessa comunità la dimensione religiosa e quella civile si sono intrecciate, unite ma non confuse, inseparabili ma senza prevaricazioni. San Marino – l’abbiamo detto più volte – non intese fondare una comunità religiosa come un monastero a cielo aperto, un sistema integralistico, ma una società fraterna. Avrà avuto certamente di fronte al suo sguardo la comunità cristiana dei primi tempi, una comunità che a volte ci succede di chiamare “ideale”, ma il termine è improprio perché quella comunità è programmatica per noi. «Erano un cuor solo e un’anima sola» (At 4,32). In questo sistema di sapienza «si dà a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Mt 22,21). Da sempre la nostra tradizione ha promosso, più o meno consapevolmente, più o meno felicemente, il valore della laicità, facendo vivere insieme persone di diverse sensibilità e orientamenti. Questa apertura trova uno dei suoi punti di forza in una visione integrale della persona, propria dell’antropologia cristiana. Chi non è credente non tema le radici cristiane della nostra comunità, perché proprio su queste radici cristiane si fonda il rispetto e la libertà di ognuno. La nostra libertà è reale, non per concessione di qualcuno, ma perché fondata sulla dignità della persona. Chi è credente sa che può contare sul rispetto e sulla considerazione di chi afferma il valore dell’umanesimo.
È anche tempo, oggi, di considerare brevemente le virtù civili. Virtù è parola piuttosto desueta oggi, eppure è parola suggestiva. Virtù è una forza interiore permanente fino a diventare un abito, un abito operativo, cioè un’abitudine nel senso positivo del termine, un atteggiamento permanente. Accennerei appena a due virtù civili che in questo momento ci sono necessarie. La prima virtù: la disponibilità alla collaborazione (vorrei dire alla cooperazione), cioè l’attitudine a tener fisso lo sguardo sul bene comune, al mettersi insieme, astenendosi dai particolarismi per ottenere il meglio a vantaggio di tutti. Ci sono diversità di posizioni, ma talvolta bisogna anche saper andare oltre in vista del bene comune. Questo vale per le istituzioni, ma vale anche per la comunità cristiana e per le famiglie. Da notare che il Vangelo dice: «Voi siete luce». Non dice io, tu, ma voi, cioè io e te insieme. Quando un io e un tu si incontrano generando un noi, in quel noi, sia il noi della famiglia dove ci si vuol bene, sia il noi di una comunità dove si accoglie o il noi di una società solidale, è conservato il senso e il sale del vivere. C’è anche un’altra virtù civile di cui vorrei sottolineare l’importanza: l’onestà. Noi diamo molto valore all’educazione della famiglia. La famiglia onesta – si dice – non è più importante di una famiglia abbiente o ricca. Diamo valore alle istituzioni educative, all’impegno di associazioni, gruppi, movimenti, ma è fondamentale la formazione della personale coscienza. Al di là del ruvido dell’argilla di cui siamo fatti, nella cella segreta del cuore là troviamo sempre una luce accesa, una manciata di sale. Permettetemi di leggere una pagina di un sapiente caro all’umanesimo e caro alla tradizione ascetica spirituale cristiana, Seneca, che così scrive in una sua opera: «Quanto tranquillo, quanto profondo e libero, dopo che l’animo o è stato lodato o ammonito e, da osservatore e censore privato di se stesso, ha concluso l’inchiesta sui suoi costumi. Io mi avvalgo di questa possibilità e mi metto sotto processo ogni giorno. Quando hanno portato via la lucerna e mia moglie, che conosce la mia abitudine, tace, io scruto l’intera mia giornata e controllo tutte le mie parole ed azioni, senza nascondermi nulla, senza passar sopra a nulla. Perché dovrei temere uno qualunque dei miei errori, se posso dire: “Questo, vedi di non farlo più; per questa volta, ti perdono. In quella discussione sei stato troppo polemico; impara a non contendere più con gli incompetenti, che non vogliono imparare, perché non hanno mai imparato. Hai rimproverato quello là con eccessiva franchezza, quindi non lo hai corretto, ma offeso; d’ora in poi, non guardare soltanto se è vero quello che dici, ma anche se la persona alla quale parli è in grado di accettare la verità”. L’uomo buono gradisce un ammonimento, ma tutti i cattivi sono estremamente restii ai pedagoghi» (De ira, Libro III, 36, [2,3,4]).
Oggi siamo tutti in festa. Scambiamoci un regalo, il regalo della reciproca stima, accompagnata dalla messa a disposizione del meglio di noi stessi.
Per quanto mi riguarda inizierò la visita pastorale nella Repubblica di San Marino il prossimo 16 ottobre. La visita pastorale di un vescovo è un incontro, non è un controllo delle comunità cristiane. È un incoraggiamento, è un ravvivare rapporti di luce. La processione che speriamo di poter fare al termine della Messa è per noi credenti il segno che «Dio visita il suo popolo» e, attraverso Marino, benedice tutti.

Omelia XIX domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Maciano, 12 agosto 2017

Mt 14,22-33

(da registrazione)

Gesù ha appena compiuto la moltiplicazione dei pani: ha sfamato cinquemila persone, senza contare le donne e i bambini. Un miracolo utilissimo, che meriterebbe la laurea ad honoris causa in economia. A quel punto Gesù costringe i suoi discepoli, i più vicini a lui, ad andare via. Perché? Gesù ha paura che si vantino di quel miracolo compiuto dal loro maestro, che vengano catturati in un entusiasmo inopportuno, deviante e non si ricordino, come aveva loro predetto, che era incamminato verso Gerusalemme. Gesù rimane a congedare la folla. Qualche interprete ritiene che Gesù abbia desiderato continuare da solo l’abbraccio con la folla che aveva sfamato. Qualcun altro pensa che Gesù abbia cercato di zittire entusiasmi troppo precoci, tant’è che, appena può, fa perdere le sue tracce salendo sul monte, da solo: dall’abbraccio della folla all’abbraccio del Padre, nella preghiera, nell’intimità con Lui. Che cosa si saranno detti? Ognuno provi ad immaginare, mettendosi nei panni di Gesù. Gli avrà parlato sicuramente della compassione verso le moltitudini, perché Gesù è umano. Poi avrà parlato della sua salita a Gerusalemme. Avrà detto: «Padre, allontana da me il calice… ». Avrà detto: «Padre custodisci il gruppo di coloro che sono disposti a credere in me, accompagnali, aiutali».
Poi la scena si sposta sulle rive del lago. Il mare è in burrasca, gli apostoli sono sulla barca, vedono in lontananza Gesù che cammina sulle acque, ma non lo riconoscono e, pieni di paura, pensano che sia un fantasma. Gesù stavolta fa un miracolo “inutile” a confronto del miracolo utilissimo della moltiplicazione dei pani: dar da mangiare a cinquemila persone. Compiuto nell’oscurità, in uno scenario irraggiungibile – in mezzo ad un lago – tutto il miracolo avviene per una questione di cuore. Pietro, quando vede una figura in lontananza, mentre tutti pensano che sia uno spirito, intuisce che è Gesù e gli dice: «Iube me venire ad te (Signore comanda che io venga a te)». In questo Pietro fa una preghiera fiduciosissima, ma anche un po’ pretenziosa nel chiedere al Signore il miracolo di poter camminare sull’acqua. Gesù glielo concede invitandolo a camminare verso di lui. Anche noi possiamo rivolgere a Gesù una preghiera come quella Pietro, quando ci troviamo davanti a decisioni da prendere, a difficoltà che pensiamo di non riuscire ad affrontare. Possiamo chiedere, come Pietro, che il pavimento di acqua che vediamo davanti a noi, diventi un pavimento di cristallo su cui possiamo camminare.
Tuttavia, quando si cammina sull’acqua, si affonda ed irrompe una seconda preghiera, molto bella anche se pare interessata, perché scaturisce dal cuore: «Signore, salvami!». Un grido del cuore. E Gesù soccorre Pietro – e con lui ognuno di noi – gli offre la mano e lo fa salire sulla barca, al sicuro. Lì si compie la grande preghiera, la grande dossologia, cioè la preghiera davanti a Gesù Signore. I passeggeri di quel naviglio si inginocchiano e adorano Gesù: sono la Chiesa del Risorto. Siamo noi e questa sera insieme lo adoriamo.

Omelia della XVIII domenica del Tempo Ordinario – San Donato

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
San Donato di Sant’Agata Feltria, 6 agosto 2017

Mt 17,1-9

(da registrazione)

Anche noi oggi come Pietro diciamo: «Com’è bello Signore essere qui!». È bello questo momento di raccoglimento, di famiglia spirituale, nonostante il disagio del caldo e il peso della giornata, ma è bella soprattutto la possibilità del nostro rapporto con il Signore. Come Pietro, Giacomo e Giovanni anche noi in questo momento siamo davanti a Gesù Trasfigurato. «Non vediamo, non sentiamo, non tocchiamo, ma tu, Gesù, sei risorto, vivo in mezzo a noi». Tra poco lo guarderemo nell’ostia santa. Anche quella è una trasfigurazione, una metamorfosi, un “Dio di pane”.
Chi è Gesù adesso? Gesù adesso siamo noi uniti a lui. Noi formiamo il suo “corpo mistico” quando mettiamo a disposizione le nostre mani, i nostri piedi, il nostro cuore, la nostra intelligenza per essere una sua presenza oggi.
C’è un dettaglio nel racconto della Trasfigurazione che è soltanto dell’evangelista Matteo (anche se la Trasfigurazione è narrata da tutti gli altri sinottici e nella Lettera di Pietro): «Si trasfigurò e le sue vesti divennero candide come la luce». Gli altri evangelisti registrano invece la descrizione: «candide come la neve». Dunque Gesù appare vestito di luce; la luce è un vestito che trasfigura. Alcuni antichi commentatori della Genesi dicono che Adamo ed Eva, prima del peccato originale, erano vestiti di luce. Dopo il peccato, si accorgono di aver perso il vestito e si sono ritrovati nudi. Ciò è detto in modo metaforico, ma è un indizio stupendo: anche noi siamo chiamati ad essere vestiti di luce. Che cos’è questo “vestito di luce”? È la grazia santificante. L’abbiamo ricevuta il giorno del nostro Battesimo. Il vestito bianco che ha coperto il nostro corpo quel giorno stava a significare proprio l’abito della grazia, cioè la partecipazione alla vita stessa di Dio. Questa luce, questo profumo, questa fragranza sono conseguenza del fatto che siamo corpo di Gesù, il suo “corpo mistico”; soltanto il peccato può togliercelo e allora appare la nostra fragilità. «Signore, conservaci sempre vestiti di luce». Così sia.

Omelia della XVIII domenica del Tempo Ordinario – Scavolino

Omelia di S.E Mons. Andrea Turazzi
Scavolino (loc. La Croce), 6 agosto 2017

Mt 17,1-9

(da registrazione)

L’episodio della Trasfigurazione è raccontato in tutti i Vangeli sinottici e nella Lettera di Pietro, perché fin dall’inizio i discepoli hanno intuito che quell’avvenimento sull’alto monte era fondamentale. Pietro, che, come abbiamo visto molte volte, ha un temperamento diretto, schietto ed irruente, fa una gaffe quando dice a Gesù: «Farò qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia». Perché Pietro si sbaglia? Mosè è uomo di luce, uomo del monte; Elia, un grande profeta, paladino sul carro di fuoco… Ma Gesù è unico, non è uno dei tre, uno della fila, è il Signore! Se ci sono Mosè ed Elia è soltanto per “rassegnare le dimissioni” davanti a lui, per affermare che solo Gesù è il profeta, il maestro, il Messia, «Gesù solo». Comprendiamo il fervore di Pietro: «È bello per noi essere qui», come quando vediamo una bella scena, un bel film, uno spettacolo… Ma anche qui Pietro si sbaglia, perché l’essenza della fede cristiana è nell’ascolto. Dio non ha volto, si fa Parola ed è presente in Gesù di Nazaret, che diventa per noi volto ma soprattutto voce. Per questo il Signore ci chiede di ascoltarlo. Noi apprezziamo anche i sentieri delle altri religioni, perché pensiamo che lo Spirito Santo abbia guidato nel tempo tanti saggi, tanti filosofi. Tutti gli uomini hanno l’intuizione di Dio nel loro cuore. Ma Gesù è colui che ce lo rivela in un modo singolare, unico. Mentre affermiamo la nostra fede in Gesù ci risuona questo invito: «Ascoltatelo». Allora non è sufficiente preparare cerimonie, fare belle sculture… Bisogna ascoltare la sua voce, il suo Vangelo. Proponiamoci durante la settimana di ascoltare Gesù e di ripetere talvolta nel nostro cuore: «Lo vuoi tu Signore? Lo voglio anch’io. Cosa faresti Signore al mio posto?». Farsi queste domande significa essere veramente discepoli.

Omelia nella Solennità di San Leone

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di San Leo, 1 agosto 2017

Gn 12,1-4
Fil 4,4-9
Mt 7,21-27

Cari presbiteri,
cari fratelli e sorelle,

a dispetto della iconografia tradizionale, che rappresenta San Leone come vecchio austero e rude, la liturgia – soprattutto le letture – è tutta in prospettiva giovanile.
Avete sentito dalla Genesi le parole rivolte ad Abram dedicate a quegli inizi benedetti, agli orizzonti futuri di cammino, anzi di avventura? «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò» (Gn 12,1).
Non sono queste le parole piene di grazia e di speranza che accompagnano la crescita dei giovani chiamati ad entrare nella vita (la ricerca di una scuola o di una università, poi di una sistemazione lavorativa e per molti il matrimonio)? Si tratta sempre di una ricerca vocazionale, bisognosa di coraggio e di valori.

Avete sentito l’invito alla gioia ribadito dalla seconda lettura? «Fratelli, rallegratevi nel Signore, sempre; e lo ripeto ancora, rallegratevi» (Fil 4,4). La gioia è la caratteristica di tutte le aurore, ma può ringiovanire anche i nostri tramonti. Ricordate il salmo: «Introibo ad altare Dei; ad Deum qui laetificat iuventutem meam» (Sal 43, 4)? Invito alla gioia ma anche al necessario, indispensabile e conseguente programma educativo, attualissimo per i nostri ragazzi, da non trascurare da noi adulti educatori: «Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, è quello che dovete fare» (Fil 4,9).
L’invito di Paolo ai Filippesi ha una corrispondenza nella parabola evangelica dell’architetto saggio che costruisce sulla roccia. Cade la pioggia, straripano fiumi, soffiano venti su quella casa, ma non cade (cfr. Mt 7,24-25).

Ci stiamo preparando alla celebrazione del Sinodo dei Vescovi su “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”. È vero, il Sinodo è dei Vescovi che si riuniscono col Papa, ma tutto il popolo di Dio è in certo modo coinvolto. Anzitutto con la preghiera, con la riflessione, con l’invio di un contributo e, particolarmente, col mettersi in ascolto dei giovani e poi col dovere di rivolgere loro con franchezza una parola, perché, a loro volta hanno bisogno di ascoltare e di imparare. Guai rinunciare alla missione educativa (cfr. 1Cor 9,16).
Papa Francesco ci chiede in questo tempo una attenzione speciale ai giovani, a tutti i giovani, alle loro attese, speranze, fragilità e debolezze. Una richiesta che diventa impegnativa e urgente, dato che secondo l’ultimo rapporto ISTAT sulla povertà sono proprio i giovani i più esposti alle difficoltà della crisi.

Parafraso uno dei responsabili della Pastorale Giovanile della nostra diocesi. Sintetizza con tre parole la situazione giovanile: fascino, malinconia, speranza.
Fascino, perché nei volti dei giovani c’è un quotidiano stupirsi e il desiderio di sentirsi parte di un grande progetto. Malinconia, perché in questa ricerca tante sono le difficoltà: difficoltà relazionali, paura del futuro, smarrimento, incertezze, fragilità… Speranza, che tiene per mano lo stupore e la malinconia, storie comunque di giovani che si affacciano alle nostre parrocchie.

È possibile ai giovani del nostro tempo costruire la loro casa sulla roccia? A prima vista è stridente la distanza tra le richieste di Gesù e la situazione che stanno vivendo. Le esperienze dei nostri giovani sembrano tutte tentativi di costruire sulla sabbia ed essi vengono spazzati via dalle prime intemperie. Nel tempo della precarietà strutturale, nella società liquida, pretendere di costruire la casa sulla roccia sembra un miraggio irraggiungibile, una speranza utopica e una ingannevole illusione.
La carenza del lavoro, le incertezze sul futuro, l’evaporazione delle sicurezze sociali rendono sempre più difficile dare una stabilità ai progetti di vita. Spesso i giovani finiscono per rimandare le scelte decisive al punto da ritenerle irraggiungibili e, in ultima analisi, poco desiderabili. Si affievoliscono non solo le possibilità, ma anche le attese, i desideri di fare cose grandi, di slanciarsi in progetti audaci. Essi arrivano a mortificare le proprie aspirazioni piegandosi a quella dittatura del relativismo che rende significativo solo ciò che rimane mobile, immediato, reversibile.

Così alla precarietà strutturale della situazione socioeconomica si sovrappone una precarietà interiore e spirituale che allontana dal dono di sé e dai progetti di bene che lo Spirito continua a ispirare nel cuore dei giovani. Nemmeno la fede è estranea a questa deriva culturale. Anziché cercare Dio nelle strade tracciate dai nostri padri e nella vita delle nostre comunità cristiane, i giovani stanno tracciando sentieri nuovi, a volte con slanci generosi ed aspirazioni autentiche, ma spesso dentro i termini ristretti della ricerca di un Dio che faccia stare bene, che consoli, che rassicuri. Un “Dio a modo mio” che ha la dolcezza del padre misericordioso, ma assai distante dal fuoco del cespuglio ardente che manda Mosè a salvare il suo popolo.

Le nostre comunità vivono con trepidazione la distanza dei giovani dalle loro liturgie, dalla vita comunitaria, dall’impegno nella carità. Tutto ciò che sta a cuore alla Chiesa sembra estraneo alla vita dei giovani e ciò che sta a cuore ai giovani appare distante dalle preoccupazioni ecclesiali. Non di rado facciamo l’esperienza di una certa incomunicabilità col mondo giovanile. Dobbiamo ammettere, pur nella volontà di incontrarli e di stare con loro, la nostra inadeguatezza e le deboli chance di aggancio e di linguaggio. E tuttavia ci troviamo di fronte ad una generazione che rischia di perdersi proprio perché non si sente chiamata. La dinamica della vita è vocazionale: si è chiamati da qualcuno all’esistenza. Si vive e si cresce perché qualcuno ci chiama a diventare grandi. Ma i nostri giovani incontrano una comunità bella, attraente, che li sprona a crescere, a spendersi e a rischiare? Si scontrano sovente con un mondo adulto che concede loro ogni divertimento, ma li tiene lontani dalla vita, dall’impegno, dal dono.

Dove trovare allora una roccia forte, una rupe solida (come questa di san Leo) su cui costruire una casa che resista alle tempeste? La roccia di cui parla Gesù non è la stabilità del mercato finanziario, la sicurezza del lavoro, la crescita economica, non somiglia alle sicurezze che abbiamo visto svanire in quest’ultimo decennio di crisi. La roccia è semplicemente Lui.
La roccia a cui allude Gesù non somiglia per niente a ciò che i nostri occhi vedono solido e durevole e a ciò che troppo spesso i nostri discorsi ecclesiali rimpiangono.
Tutto questo diventa perciò un invito alla Chiesa e a tutti i cristiani ad una profonda conversione del cuore.
Conversione, cioè fidarsi del Signore Gesù, della sua parola, della sua intramontabile attrattiva. Mostrarlo senza riduzioni o esenzioni, così come è. Fidarsi dei giovani, perché hanno la capacità di abitare da protagonisti questo tempo e il dono dello Spirito Santo per plasmare con il Vangelo le sue novità e le sue aspirazioni. Fidarsi – perché no? – anche di noi, sacerdoti, educatori e genitori: sapremo con questa fiducia stare accanto a questa “cara gioventù” (San Giovanni Bosco) per accompagnare senza timori e incoraggiare il suo cammino convinti cha la roccia incrollabile su cui costruire la casa è Gesù Cristo, ieri, oggi e sempre.

Omelia della XVII domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Colonia sammarinese a Chiusi della Verna, 30 luglio 2017

Mt 13,44-52

(da registrazione)

Oggi siamo immersi nella più bella basilica esistente: il grande tempio della natura. Osserviamo le diverse gradazioni di verde, il blu del cielo, gli alberi che si ergono come colonne… E tutti noi uniti insieme: bambini e ragazzi di tutte le età, giovani educatori ed animatori, adulti. Gli adulti che son venuti a La Verna da ragazzi – cinquant’anni fa insieme a don Peppino – sono stati i pionieri che hanno reso bello questo luogo, con molti sacrifici nei primi tempi. Per tutto questo lodiamo il Signore.

Che cosa raccomanda oggi Gesù a noi che siamo riuniti in questo grande tempio della natura? Che cosa ci invita a fare non solo questa settimana, ma per tutta la vita?
Gesù vorrebbe persuaderci – anche se in molti non si lasciano persuadere – che il Regno di Dio (modo di dire che indica il suo cuore, la sua persona) è la cosa più bella, più ricca, più utile, più necessaria che ci sia. Il Regno di Dio si può paragonare ad un tesoro, ad una perla preziosa, ad una rete piena di pesci. Tre immagini per indicare qualcosa di molto prezioso. Paragoni significativi per la gente del suo tempo. Oggi avrebbe trovato probabilmente altre similitudini. Ma anche per noi tali immagini sono stupefacenti.
Gesù vuol dirci: «Persuaditi, la mia amicizia verso di te è la cosa più preziosa che ci sia, fidati».
Gesù ci invita ad essere scaltri come colui che ha scoperto il tesoro in una terra brulla, apparentemente inospitale, una terra che nessuno si sarebbe mai sognato di comprare. Egli ha dovuto affrontare sicuramente il sarcasmo dei concittadini e le critiche dei familiari, ma, incurante di loro, ha speso tutto ciò che aveva per acquistare quel campo.
Poi, Gesù loda chi cerca la perla, la cerca dappertutto: nel suo paese, nella sua regione, nella sua nazione… Non smette mai di cercare. È un collezionista.

Qual è il fazzoletto di terra in cui trovare il tesoro? In quale posto si trova la perla preziosa?
Il tesoro è dentro di noi, nel nostro cuore, nell’amicizia appena sbocciata con il Signore Gesù. Il suo Regno è dentro di noi. Per questo dobbiamo essere astuti come colui che ha trovato il tesoro, come San Francesco d’Assisi che ha abitato questi monti. Qualcuno l’ha sgridato: suo padre, la gente del suo tempo. Gli hanno dato del pazzo, ma lui era più furbo di tutti. Continuiamo a cercare!
La mia famiglia, il mio campo a Chiusi della Verna, Colonia San Marino, sono il luogo del tesoro, il luogo in cui trovare la perla preziosa. Non dobbiamo dire: «Ah, se fossi in un altro posto, se fossi in un’altra famiglia!». No, il tesoro è proprio qui.  Dobbiamo accettare che nel nostro pezzo di terra, oltre al tesoro che sta sotto, ci siano anche le erbacce, le ortiche, i sassi, gli insetti… Dobbiamo abbracciare il “pezzo di terra” che il Signore ci ha dato con tutto quello che contiene, ma cercando ogni giorno il tesoro che vi sta nascosto.

Concludo con una parabola moderna inventata da me. Nella mia città di origine, Ferrara, c’è un bellissimo palazzo costruito nel 1400. Si chiama Palazzo dei Diamanti. Esso è completamente rivestito di pietre appuntite a forma di diamante. Sono tantissime, saranno almeno diecimila. Una leggenda dice che in una di quelle pietre è nascosto un diamante. Quando mi capita di passare per la strada dove si trova il palazzo mi sembra tutto mi sembra fatato, semplicemente perché so che in una punta c’è un diamante. Il fatto di sapere che in una delle punte si trova un diamante rende il palazzo più bello, fatato, affascinante. È quello che capita nella nostra vita quotidiana. Abbiamo davanti a noi una nuova settimana. Sarà bellissima, perché ci sarà un momento in cui tra noi e Gesù avverrà un “ciak” che renderà tutto più bello, trasfigurato.

Omelia XIV domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

La Verna, 9 luglio 2017

Campo adulti Azione Cattolica

Mt 11,25-30

(da registrazione)

Il Vangelo registra un’esplosione di gioia di Gesù. La redazione dell’evangelista Luca è più esplicita, perché dice che Gesù «esultò di gioia nello Spirito Santo ed esclamò: “Ti rendo lode…”» (Lc 10,21).
Gesù ha vissuto altri momenti di gioia; ad esempio alle nozze di Cana a cui partecipa per far festa con gli sposi, e addirittura trasforma l’acqua in un vino migliore del precedente, oppure quando Maria di Magdala rompe davanti a lui il vaso di profumo che si effonde per tutta la casa e ne gioisce, a dispetto del brontolio di Giuda.
Nel brano odierno la gioia di Gesù viene motivata da un fatto che l’ha commosso. Gesù ha appena svelato i segreti del Regno e ha visto che molti che hanno la presunzione di essere dotti nelle Scritture non riescono a capirli, mentre «i piccoli», i semplici, ne colgono il significato. Ritorna alla mente il brano dell’Antico Testamento in cui Nabucodonosor ebbe una visione che nessuno a corte è in grado di interpretare, tranne il piccolo Daniele. La conoscenza del Signore, dunque, non è appannaggio delle persone superdotate intellettualmente, non proviene da raffinati corsi di filosofia, ma è per tutti. Non che Gesù disprezzi la cultura, lo studio, il sapere; anzi, da bambino interrogava e rispondeva ai dottori del tempio di Gerusalemme e tutti erano ammirati dalla sua sapienza. Gesù vuol dirci che c’è una conoscenza che viene dal mettersi, come lui che è figlio – che è, quindi, «un piccolo» –, nella relazione col Padre. Nell’esperienza della relazione col Padre si trova il sapere che dà sapore.
La conclusione è: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi» (Mt 11,28). Noi, di solito, intendiamo «stanchi e oppressi» per i fatti della vita, ma, in questo contesto, gli stanchi e gli oppressi erano quelli che giacevano sotto il peso della legge, di una selva sterminata di prescrizioni che si dovevano osservare; quasi tutte giustissime, ma che non erano capite nella giusta prospettiva. Gesù afferma che tutta la legislazione e tutto il sapere dell’Antico Testamento può essere un gravame.
In realtà, nel testo c’è anche una sottile vena polemica. Infatti, il Vangelo di Matteo è stato scritto pensando soprattutto agli Ebrei, quindi per i cristiani provenienti da un giudaismo da cui devono imparare difendersi.
Le più belle melodie sono leggibili e cantabili soltanto se ci si mette nella prospettiva di Gesù, nell’esperienza di una vita filiale. «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
Consideriamo questo Vangelo anche nella prospettiva dell’Inno alla carità (cfr. 1Cor 13) che abbiamo meditato questa mattina. Se possedessimo tutte le scienze e conoscessimo tutte le lingue, ma non avessimo la carità, cioè non avessimo un legame filiale con il Signore, cioè non accogliessimo il suo amore, non saremmo nulla; anche se compissimo opere strepitose, guarigioni, o sapessimo darci alle fiamme del martirio, ma non avessimo in noi l’amore, non saremmo nulla.