Giornata Unitaria e 150° AC

Veglia dei giovani per la festa di San Marino

Coltivare l’alleanza con la terra

13ª Giornata Nazionale
per la Custodia del Creato

La Giornata per la Custodia del Creato che si celebra ogni 1° settembre ha lo scopo di ripristinare il giusto ordine delle cose, ricordando a tutti quale sia il compito originario di ogni abitante del pianeta: la terra è un dono affidata alla custodia dell’uomo.
“Finché durerà la terra, seme e messe, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte, non cesseranno”: i Vescovi italiani aprono il loro messaggio per la Giornata 2018 con questa citazione, tratta dal libro della Genesi, per evidenziare come l’alleanza tra
l’umanità e la terra sia una promessa fin dall’origine del creato.
Tuttavia, osservano i Vescovi, guardando il mondo di oggi si è tentati di pensareche questa alleanza si sia smarita, intaccata dai devastanti fenomeni atmosferici e dall’inquinamento causato dall’uomo, che feriscono la terra e quanti vi abitano.
Siamo di fronte ad una crisi ecologica che richiede una profonda conversione interiore dell’uomo che non può essere più rimandata, come ci ha ricordato Papa Francesco nella sua lettera enciclica Laudato si’.
L’invito dei Vescovi è quello di non essere rassegnati ad un degrado inevitabile, in quanto il mutamento climatico è legato in gran parte ai comportamenti dell’uomo
che possono essere modificati. Per questo è necessario passare da una giusta preoccupazione rispetto alle devastazioni causate dal riscaldamento globale a un impegno per la prevenzione, volto a ridurre l’impatto di questi fenomeni e, soprattutto, a promuovere le azioni necessarie per rimuoverne le cause. Ciò è possibile se si assume il criterio del bene comune inteso in senso ampio, includendo le generazioni future e tutte le creature, che implica scelte efficaci nel campo della politica e dell’economia ambientale, in grado di coniugare la promozione di un lavoro dignitoso ad una forte attenzione per l’ambiente.
Accanto alla sfida economica e politica, i Vescovi sottolineano che la presa in carico delle fragilità ambientali secondo una visione integrale richiede anche una prospettiva culturale che deve mirare a ritrovare il legame tra la cura dei territori e quella dei popoli che li abitano, orientando nuovi stili di vita e di consumo responsabile.
Anche la nostra diocesi celebrerà la 13° Giornata Nazionale per la Custodia del Creato il giorno 1 settembre a Montegiardino di San Marino, in collaborazione con Giunta di Castello, a partire dalle ore 17.30 con appuntamento di fronte alla chiesa parrocchiale. A seguire è prevista la celebrazione della S. Messa presieduta da S.E. Mons. Andrea Turazzi, nel parco del Castello di Montegiardino attiguo alle scuole.
Ufficio Stampa e Comunicazioni Sociali Diocesi di San Marino- Montefeltro

Telegramma a Papa Francesco

A Sua Santità
Papa Francesco
Padre Santo, la vogliamo ringraziare per l’incoraggiamento e il sostegno dato alle nostre famiglie a Dublino e a tutta la Chiesa. Le siamo vicini nel cammino. Le assicuriamo la nostra preghiera e la nostra profonda comunione. Ci benedica. Vescovo Andrea Turazzi e diocesi di San Marino-Montefeltro

Omelia XXI domenica del Tempo Ordinario

Val da Camp (Poschiavo – CH), 26 agosto 2018

Gs 24,1-2.15-17.18
Sal 33
Ef 5,21-32
Gv 6,60-69

«Volete andarvene anche voi?» (Gv 6,67). Parole che mi risuonano nell’anima con tre inflessioni di “voce” interiore che sollecitano tre risposte spirituali.

Parole con l’inflessione di una certa tristezza e amarezza in Gesù. «Tutti mi abbandonano, anche tu?». Nel Getsemani è evidente il lamento di Gesù quando Pietro, Giacomo e Giovanni si addormentano anziché vegliare con lui. E quanti altri rimproveri ai discepoli perché non lo comprendono (rimprovera la “durezza di cuore”).
Ora Gesù è nella gloria: non ha tristezze! Tuttavia, la spiritualità cristiana insegna a «tenere compagnia a Gesù nelle sue pene». Ad esempio, nella la Via Crucis, nella contemplazione della croce…
La “verità” di questo atteggiamento dell’anima, perché non sia vago sentimento, si verifica nella partecipazione al dolore dei fratelli. A San Paolo Gesù dice: «Perché mi perseguiti?» (At 9,4). Ai discepoli: «L’avete fatto a me…», quando hanno offerto anche solo un bicchier d’acqua (cfr. Mt 10,42).

Parole con l’inflessione del risentimento, quasi un rimprovero. «Vedo che vacillate, non avete fede piena in me». Trovo in questa inflessione anche un velato ricatto. Nell’anima sento che davvero tante volte sono esitante. Ringrazio il Signore che mi aiuta a smascherare la presunzione di essere un discepolo arrivato. Nell’Imitazione di Cristo si dice: «Gesù ha molti amici nell’ultima cena, pochi nell’astinenza; molti amici nell’Osanna, pochi nella salita al Calvario; molti nella consolazione, pochi nella desolazione; molti cercano i suoi miracoli, pochi cercano lui… (cfr. Lib II, c.11)».

Parole con un’inflessione che invita alla scelta. «Dietro a me solo persone libere». Come se Gesù dicesse: «Fate la vostra scelta». Anche noi, come Pietro e i discepoli, pur fra tante esitazioni, dubbi e incertezze, rinnoviamo la nostra totale adesione al Signore Gesù: «Da chi andremo… Tu solo hai parole di vita eterna» (Gv 6,68). Abbiamo visto: crediamo. Ti abbiamo incontrato: come lasciarti? Tu, nostro tutto.

Omelia nelle Esequie di don Giorgio Mercatelli

Pietracuta, 21 agosto 2018

Ap 21,1-5a.6b-7
Sal 22
Lc 23,33.39-43

Sarai con me

«È un prete molto buono», sussurro ad una signora che sta assistendo il marito, vicino di letto di don Giorgio. Don Giorgio in quel momento è assopito. La signora replica prontamente: «Lo vedo bene. C’è sempre gente che viene a trovarlo. Anche dei giovani».

1.

Carissimi, volete molto bene a don Giorgio e glielo dimostrate. Anche lui ve ne voleva e continuerà a volervene dal Cielo. Ecco il cuore di un prete, un cuore casto che ama senza trattenere, che custodisce gelosamente il segreto del suo Amore. Di quel cuore hanno goduto i parrocchiani di Mercatale per diciannove anni; per diciassette i parrocchiani di Macerata Feltria e poi ne avete goduto voi di Pietracuta e di San Leo; sempre noi, famiglia presbiterio.
Tanti, più di me e meglio di me, compresi i ragazzi del Nodo (centro diurno della Papa Giovanni XXIII), potrebbero condividere testimonianze, episodi, incontri, battute spiritose e persino aneddoti, fatterelli, dai quali, però, si vede la classe di un uomo. Anni di intenso apostolato, di presenza, di vicinanza, di creatività, sulle vie tracciate dal Concilio Vaticano II. Un prete semplice, con una personalità robusta. Un uomo spirituale, ma attento al concreto. Pastore più che “ingegnere della pastorale”; nelle parole del testamento gli obiettivi del suo progetto: «Rispetto della festa e del santo Nome del Signore: che non si bestemmi più!». Nei giorni della recente Visita Pastorale riposavo nella sua stanza. Mi incuriosiva guardare i libri della sua biblioteca: don Giorgio non era un erudito, ma non uno sprovveduto.

Un grazie a don Andrea che l’ha accompagnato in questi anni con affetto, delicatezza e rispetto. Grazie a chi l’ha custodito ultimamente. Si era reso necessario il suo ritiro nella Casa del clero a Rimini prima, e poi a Talamello, anche questa forma di vita sacerdotale, benché diversa nelle sue espressioni. Il cuore sacerdotale non cessa mai di battere e di battere per le anime, con la preghiera, con l’offerta di sé, con la gioia della propria vocazione. Vita nascosta – badate bene – che è forma eucaristica, forma prettamente sacerdotale: «E la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3).

2.

Ha voluto lui stesso indicare la lettura evangelica di questo giorno: otto versetti in tutto (Lc 23,35-43), cuore del terzo vangelo. Consentite un accenno appena per quanto riguarda il contesto. Ecco un trittico di persone (cfr. Lc 23,35-40) che insultano Gesù, il Crocifisso; i capi del popolo «che lo scherniscono: “Ha salvato altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio”»; la soldataglia che lo sbeffeggia: «Se tu sei il re dei Giudei salva te stesso»; e uno dei due malfattori crocifissi con lui: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi».
Poi, un altro trittico (cfr. Lc 23,42-49) di persone penitenti; il centurione: «Visto ciò che era accaduto glorificava Dio: veramente quest’uomo era giusto”»; la gente: «Ripensando a quanto era accaduto se ne tornavano percuotendosi il petto»; gli amici: «Assistevano da lontano».
Fra l’uno e l’altro trittico, al centro, il dialogo fra il malfattore e Gesù. Don Giorgio si vedeva in lui. Voleva certamente che tutti noi, rileggendo questa pagina in un momento tanto solenne, ci sentissimo chiamati da Gesù a stare con lui, per sempre.
Avete sentito: gli avversari di Gesù ridono di lui. Che potere può rivendicare uno sconfitto, uno che non riesce a fare nulla per salvarsi? Ma nel disegno teologico del terzo vangelo «il buon ladrone» diventa il tipo del credente, del discepolo, uno di quelli con i quali Gesù sta più volentieri, perché più disperati, più aperti alla sua parola di salvezza. «Il buon ladrone» non solo constata l’innocenza di Gesù, ma, per fede, sa vedere nello scacco della croce l’intronizzazione regale del Messia. Con preghiera umile domanda il ricordo di Gesù: «Ricordati di me». E «oggi», appena in un attimo, viene rapito il paradiso; per questo la tradizione chiama il condannato «il buon ladrone». Viste le attitudini di prestigiatore, don Giorgio ci svela il trucco di questa “magia”. È il cammino della conversione:

  1. Riconoscere Gesù come Dio;
  2. Riconoscere il proprio peccato;
  3. Chiedere aiuto a colui che ha il potere di salvare.

E Gesù promette al suo compagno di supplizio il dono di una vita eterna insieme a lui, il paradiso. Morte, risurrezione, vita oltre la vita!
Cari fratelli, domandiamoci: non stiamo correndo il rischio di lasciare la considerazione del nostro destino eterno ai margini della predicazione, della catechesi, dei nostri piani pastorali? Così facendo svuotiamo di senso il messaggio cristiano, l’evangelo.

3.

Don Giorgio, in umiltà e verità – di lui si diceva ironicamente che non avesse il peccato originale, per lo spirito d’infanzia che lo caratterizzava – si vedeva nel malfattore crocifisso accanto a Gesù e, come il ladrone, si abbandonava incondizionatamente alla misericordia del Signore. Ascoltiamolo anche noi il sussurro delle parole di Gesù: «In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso».
Il paradiso. La Parola di Dio non descrive i particolari dell’aldilà, non soddisfa le nostre curiosità. Anche la Chiesa è prudente; ci mette in guardia dalle rappresentazioni immaginative e arbitrarie. Tuttavia, parole e immagini possono servire; ma per quanto suggestive sono assolutamente inadeguate rispetto all’indicibile felicità del compimento della promessa.
La rappresentazione del paradiso è ispirata al cap. 2 della Genesi: immagini di un giardino lussureggiante dove tutto ci sarà donato in abbondanza. Ci sono le immagini del banchetto riprese tante volte da Gesù e quelle del Salmo 22: pascoli erbosi, acque tranquille, tavola imbandita sotto gli occhi dei nemici, olio che profuma il capo, calice che trabocca… L’Apocalisse descrive il paradiso come nuova Gerusalemme, dove Dio asciuga ogni lacrima, dove non c’è più la morte né il dolore (Ap 21,4). Attenzione: testi che si esprimono per figure e immagini, ma non sono un reportage! E tuttavia sono importanti, perché hanno in comune promesse di gioia, di pace, ma soprattutto la visione felice di Dio, della comunione con lui. Per sempre. «Sarai con me».

4.

Sant’Agostino descriveva così il paradiso: «Là, vedremo, ameremo, canteremo» (cfr. La città di Dio, XXII, 30).
Don Giorgio, Vedrai, quel volto che hai cercato e desiderato tutta la vita, oggetto della tua implorazione, innalzata insieme al tuo popolo: «Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto» (Sal 4,7).
Amerai, perché sei stato creato per questo. Riconoscerai le relazioni che hai costruito sulla terra – non più intaccate dalle fragilità –, i tuoi cari, il grappolo di vita e di amici, tutti resi capaci di un amore sempre nuovo, perché di amare non si è mai sazi: «Quando dici basta, sei finito» (Sant’Agostino, Sermone 169).
Canterai per la gioia. Non ci sarà più limite di tempo e la gratuità non dovrà più guardarsi dai calcoli meschini di quaggiù. Si realizzerà quanto profetò Ben Sirach: «Nel glorificare il Signore, esaltatelo quanto più potete: ne sopravanza sempre; per esaltarlo raccogliete le vostre forze, non stancatevi, perché non finirete mai» (Sir 43,30). È la liturgia del Cielo (farai invidia a don Andrea).

5.

Sabato scorso, nell’ultima visita nell’ospedale “Sacra Famiglia” di Novafeltria, ho sostato con un piccolo gruppo di persone al suo capezzale. Abbiamo pregato. Ci sembrava la cosa più importante. Don Giorgio era immobile, composto, ad occhi chiusi, con respiro impercettibile… in quel momento mi tornava alla mente un midrash sulla morte di Mosè, amico speciale di Dio.
Era venuto anche per Mosè il momento di lasciare questo mondo. La Morte si rifiutò di obbedire al comando di Dio: «Posso togliere il respiro a un uomo così mite?». Dio, allora, mandò angeli; ma anche questi rifiutarono: «Come spegnere la fiamma in un cuore così ardente per il suo popolo?». Dio stesso, allora, scese sul monte, si avvicinò all’amico Mosè, lo pregò di distendersi, di comporre le mani sul petto, di chiudere dolcemente gli occhi. Si chinò su di lui e con un bacio gli portò via l’anima (cfr. Pino Stancari, Vita di Mosè, 1984).
Essere con lui: ecco il paradiso!

Giornata del Mandato agli operatori pastorali

Omelia nella XX domenica del Tempo Ordinario

Santuario della Madonna del Faggio, 19 agosto

Camminata del Risveglio

Pr 9,1-6
Sal 33
Ef 5,15-20
Gv 6,51-58

(da registrazione)

1.

Qualche giorno fa abbiamo celebrato la solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria, assunta in Cielo in anima e corpo. Un tributo di onore alla Madre del Signore, un privilegio per la prima dei redenti, ma anche una promessa e un segno di sicura speranza per tutti. Noi non siamo angeli, siamo esseri umani, unità di corpo e anima. Ciò sia detto contro ogni forma di spiritualismo che nega la chiamata del corpo alla santità. Talvolta, anche in certe tradizioni o movimenti di pensiero, il corpo è stato visto come fonte del peccato, del male, dimenticando quello che ha detto Gesù: «Non è quello che entra nel corpo che contamina l’uomo, ma è quello che esce dal suo cuore» (cfr. Mt 15,11). Sono le intenzioni, i pensieri cattivi che portano a usare in modo sbagliato la corporeità. Questo va detto anche per le forme di spiritualità disincarnate che vedono nel corpo e nella corporeità soltanto un accessorio, addirittura un ostacolo. Ma noi andiamo a Dio con il nostro corpo (ricordate la grande lezione di san Giovanni Paolo II, le sue catechesi sul corpo). E andiamo a Dio insieme agli altri umani, corporei come noi, formando un popolo che cammina nel tempo. Ci santifichiamo con il nostro corpo. Attenzione: non dico “nonostante” il nostro corpo, perché il corpo ci consente di vivere la relazione con il dono di noi stessi. Pensate, ad esempio, all’esperienza coniugale, dove l’uomo e la donna vivono l’uno per l’altra e manifestano il loro amore attraverso i segni che lo esprimono. Ma questo vale per tutti. Vale anche per il Vescovo che, quando passa in mezzo a voi recando la benedizione da parte di Dio, lo fa non soltanto col pensiero, ma con i gesti che la liturgia suggerisce. Pensate al significato di un bacio. Il bacio esprime e sintetizza più di tutto quello che potrebbe dire un’enciclopedia intera. Paolo arriva a dire: «Fratelli, offrite i vostri corpi al Signore come sacrificio vivente a lui gradito» (cfr. Rm 12,1).

2.

Nella liturgia di oggi ci viene dato di contemplare un Dio che si è incarnato, si è fatto corpo. Il nostro non è un vago teismo, come quando si dice: «Ma sì, un Dio ci sarà pure…». No, Dio ha preso un volto umano: Gesù di Nazaret. Paolo dice che il Signore, entrando nel mondo, prega con il Salmo 40: «Un corpo mi hai dato e allora io ho detto: “Ecco io vengo… per fare, o Dio, la tua volontà”» (Eb 10, 5-7; cf. Sal 40, 7-9). Perché il Signore ha voluto assumere un corpo per redimerci? Perché è venuto a salvare uomini, non angeli; è venuto per amare con cuore umano, ha voluto provare quello che provano gli umani. «È Dio, lo sapeva…», si potrebbe pensare. Ma un conto è sapere, un conto è provare. Il Signore ha voluto soffrire; sapeva cos’era la sofferenza, ma un conto è sapere che cos’è e un conto è soffrire. Gesù ha potuto dire a una grande mistica: «Guarda se in me non vedi altro che amore» (Angela da Foligno, Memoriale, IV, 193), e ha potuto squadernarglielo davanti. «Non i chiodi mi tengono sospeso sulla croce, ma il mio amore per te». Allora le mani, i piedi, il grembo, il volto, tutto diventa il nostro modo di “essere per”. Il dono, l’amore, la dedizione, la cura, si esprimono attraverso le nostre mani, attraverso carezze e baci, attraverso ascolto e veglia…

3.

Dobbiamo fare un terzo passaggio. Il primo è stato considerare la nostra corporeità come un grande dono: onore alla nostra corporeità. Anche il rispetto che abbiamo manifestato alla reliquia di San Pio da Pietrelcina era per sottolineare questa convinzione. Il secondo passaggio è stato considerare che il Signore ha voluto incarnarsi, ha voluto assumere un corpo. Vero Dio, vero uomo. Ma c’è un ultimo passaggio: Gesù fa del suo corpo un cibo. A volte lo diamo per scontato, ma è una consapevolezza da rinnovare sempre: pane che diviene corpo da mangiare, vino che diventa sangue da bere. «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue…» (Gv 6,56). Se prima Gesù, fino al versetto 52, parlava di sé come pane – «la mia persona per voi è pane» (cfr. Gv 6,35) – da questo versetto in poi parla dell’Eucaristia. Otto volte viene detto il concetto del «mangiare la carne…». Farsi pane è come un bisogno incontenibile di Dio, un Dio che non domanda ma offre, si offre con il corpo e si offre come nutrimento. Mangiare, bere… Quando si mangia si assimila, ci si trasforma in quello che si mangia, si diventa quello che si mangia. Consentitemi un confronto. Nella cultura greca la parola, la cifra che riassume tutto l’umano e la sapienza è il pensiero. È un dono anche per noi considerare così il pensiero. Nella grande esperienza spirituale dell’Oriente, la cifra sintetica dell’umano è il respiro. Nel cristianesimo la parola sintesi è mangiare, che significa assimilare. «Se tu mi accogli, mi mangi, ti trasformi in me», dice Gesù. Come Gesù, «luce da luce, Dio da Dio, Dio vero da Dio vero»: questa è la nostra vocazione, la nostra chiamata.
Consideriamo allora la bellezza, la centralità dell’Eucaristia nelle nostre comunità. Mi sono commosso più volte alla consacrazione delle monache dell’adorazione eucaristica. Domanda: la ragazza che si consacra “spreca” la sua vita per stare davanti ad un pezzo di pane? Al contrario, aiuta a destarci dall’ignoranza, dal torpore, dall’indifferenza nostra e delle nostre assemblee verso l’Eucaristia.
Qualche tempo fa un giovane mi ha confidato il suo desiderio di fare il prete. «Per Gesù», ha detto. Mi ha sorpreso che abbia detto «per Gesù», perché ho conosciuto molti ragazzi che desiderano impegnarsi nel fare volontariato, nell’aiutare i poveri… Il secondo pensiero che ha attraversato la mia mente nell’accogliere quel desiderio è che grazie a quel ragazzo ci potrà essere ancora l’Eucaristia. Gesù ha dato al sacerdote il potere di “fare” l’Eucaristia: quello è il suo compito ed è un compito dolcissimo. Il prete “mette al mondo Gesù” quando pronuncia le parole della consacrazione: «Prendete e mangiate, questo è il mio corpo» (Mt 26,26); in quel momento accade che, nelle sue mani, quel pane diventa la persona di Gesù. Per farlo accadere varrà la pena che un uomo spenda la sua vita? Secondo me sì!

Messaggio all’Arcivescovo di Genova

A Sua Eminenza Reverendissima
Il Signor Cardinale ANGELO BAGNASCO
Arcivescovo di Genova
 
Eminenza carissima,
in questi giorni abbiamo pregato tanto e fatto pregare in tutte le nostre parrocchie e le nostre comunità per la cara città di Genova. Le siamo vicini, Eminenza, con tutto il cuore. Sotto quelle macerie c’è un po’ del nostro cuore: tanti sammarinesi e feretrani, in tempi non lontani, sono emigrati a Genova.
In queste ore abbiamo pensato all’insegnamento di Gesù a proposito di un fatto di cronaca del suo tempo: il crollo della torre di Siloe. Gesù ha spazzato via ogni insinuazione e ha invitato tutti alla conversione e alla considerazione della nostra fragilità.
Continueremo a pregare, ad essere vicini e in profonda comunione con tutti i genovesi e con lei, Eminenza. La Madonna asciugherà lacrime e darà forza e coraggio.
Suo,
 
+ Andrea Turazzi
Vescovo di San Marino-Montefeltro

Omelia nella Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria

Pennabilli (Santuario della B.V. Maria delle Grazie), 15 agosto 2018

Ap 11,19; 12,1-6.10
Sal 44
1Cor 15,20-26
Lc 1,39-56

(da registrazione)

«Risplende la regina, Signore, alla tua destra» (Sal 44).

Maria è assunta in cielo. Ma oggi vorrei invitarvi ad entrare in punta di piedi nella casa di Nazaret per respirare l’atmosfera familiare e spirituale di quella dimora. Mi dovete perdonare: avrei dovuto parlare del Cielo, dove Maria ci precede, ma preferisco accompagnarvi – una visita guidata! – alla casa di Nazaret. La visita consiste in tre passaggi. Il primo è l’avvicinamento a Nazaret. Poi entreremo in punta di piedi nella casa della santa famiglia e infine proveremo a cogliere qualche tratto dell’indirizzo che Maria e Giuseppe danno alla loro casa. In ogni famiglia ci sono regole, tradizioni, ricordi… C’è uno stile.

1.

Partiamo da Nazaret, un minuscolo villaggio annidato tra i monti della Galilea (nord della Palestina, territorio di confine con popoli e tribù pagane; lì vicino ci sono la Fenicia, Tiro, Sidone). Nazaret non è mai nominata nell’Antico Testamento. Se ne parla solo nei Vangeli e l’archeologia si imbatterà con Nazaret solo nel 1962, col ritrovamento di un frammento marmoreo a Cesarea Marittima in cui compare il nome di questo borgo. Dunque, Nazaret è ai margini della geografia e della storia di Israele: «Può mai venire qualcosa di buono da Nazaret?» (Gv 1,46), sentenzierà un giorno con scetticismo Natanaele, poi chiamato da Gesù a divenire apostolo. Eppure, la vicenda terrena di Gesù, di Maria e di Giuseppe gira attorno a questo villaggio. Ancora oggi, Nazaret, pur essendo diventata una grande città, ci parla di Maria: una fontana antica viene segnalata come “la fontana della Vergine”.
Gesù viene da Nazaret, scende a Nazaret, a Nazaret dimora. Tra le stradine, i cortili e le siepi di quel povero villaggio è racchiusa per trent’anni la vita del Messia. Da Nazaret Gesù prenderà anche il suo secondo nome: Nazareno. Sulla croce, nel cartiglio che dichiara il motivo della condanna sta scritto: «Gesù Nazareno, Re dei Giudei». Possiamo immaginare quanto gli fosse caro il suo villaggio, com’è per tanti di voi che tornate a Pennabilli con emozione: volti, vicende, tradizioni, suoni, colori, profumi… tutto quanto si imprime nella fantasia di un fanciullo e nella memoria di un giovane.
Quando Gesù sarà nel pieno della missione, ambienterà le sue parabole sullo sfondo di Nazaret e dintorni: la donna che spazza la casa per cercare una monetina tra le fessure del pavimento, la pecora smarrita del pastore sbadato, la massaia che impasta la farina col lievito, il datore di lavoro che a tutte le ore va in cerca di operai, il figlio scapestrato che, stanco di Nazaret, va verso l’ovest, sulle città delle riviera, a cercare fortuna, ecc.
Quando Gesù dirà ai discepoli che dovranno lasciare tutto per lui, indicherà come la cosa più difficile da fare, il «lasciare la propria casa», il proprio paese. Ne sanno qualcosa i missionari…

2.

Entriamo ora nella casa della Santa Famiglia. Molti di voi sono stati a Loreto: secondo un’antichissima tradizione, assai probabile, le pietre custodite a Loreto sono le pietre della casa dove sono vissuti Maria, Gesù e Giuseppe. La prima cosa che ci colpisce è che è povera. È una casa fra le altre case – non è speciale – si confonde con le altre. Probabilmente è stata costruita approfittando di una grotta, è una casa senza finestre. Vi troviamo una bottega da artigiano; c’erano in casa anche gli attrezzi per cucire e per tessere. Gesù, durante la Passione, viene spogliato di una veste tessuta tutta d’un pezzo, tessuta da Maria.
Osserviamo ora i rapporti fra le persone che abitano nella casa: Giuseppe, Maria, Gesù. Il più grande – Gesù – è obbediente al più piccolo, Giuseppe. Strana dinamica. Maria, la mamma, «osserva e custodisce ogni avvenimento nel cuore», così dice il Vangelo. Giuseppe è premuroso custode di tutti. Va sottolineato che anche le parole non dette pesano, perché le parole dette sono pochissime. Maria e Giuseppe sono sposi a tutti gli effetti. Vorrei pensare Maria non come single, come l’ha dipinta in modo sublime Tiziano nella grande tela dell’Assunta, ma come sposa. Maria e Giuseppe vivono nel rispetto reciproco, nell’amore e nella più piena unità. I loro giorni e i loro destini si intrecciano. L’evangelista Matteo racconta l’annunciazione a Giuseppe, l’evangelista Luca riferisce l’annunciazione a Maria. Non c’è contraddizione tra le due annunciazioni: Dio parla alla coppia, marito e moglie.

3.

L’indirizzo che Maria e Giuseppe danno alla loro famiglia la rende aperta e ricca di relazioni. Partecipano ai pellegrinaggi e alle feste del paese. Salgono al tempio di Gerusalemme con la carovana paesana, con la semplicità e l’intraprendenza dei nostri pellegrinaggi popolari. Condividono le vicende di famiglia con i parenti e i conoscenti: si fidano, al punto che quando si smarrisce Gesù, dodicenne, lo pensano al sicuro tra loro. C’è anche tanto rispetto e considerazione che Maria ha per il ruolo di Giuseppe. Quando, nel vangelo dello smarrimento di Gesù, la Madonna rimprovera il ragazzo dodicenne dice: «Tuo padre ed io addolorati ti cercavamo…» (Lc 2,48). Ha messo davanti a sé Giuseppe. Maria e Giuseppe sanno affrontare le prove con coraggio e determinazione nell’amore e nella stima reciproca: dall’imbarazzante maternità al parto in condizioni precarie, dall’inseguimento della gendarmeria di Erode alla fuga in Egitto, dal rientro nella povertà di Nazaret al lavoro che procura sudore e calli alle mani.
Dagli accenni del Vangelo possiamo ricostruire qualche tratto, come si fa con gli affreschi delle nostre chiese rovinati dal tempo, del profilo umano di Maria. La sua impronta è ben visibile nell’umanità stessa del figlio Gesù, la cui umanità è frutto di una relazione, di uno stile che ha ricevuto in famiglia: Gesù che parla dell’amore al prossimo, Gesù raffinato nei rapporti (gli basta uno sguardo per dire tutto), amico affettuoso. Quel ragazzo dodicenne, a differenza del giovane Samuele, il grande profeta di Israele, non resta nel tempio. Gesù non ha fatto neppure un giorno di seminario; il suo seminario è la casa di Nazaret!
Maria e Giuseppe prendono poco a poco coscienza che il loro figlio ha una paternità misteriosa ed una missione da compiere. Lo accompagnano con discrezione verso la piena autonomia. È proprio dell’amore vero dei genitori fare spazio ai figli perché possano realizzarsi pienamente trafficando i loro talenti e avventurandosi nel loro destino.
Nella casa di Nazaret si prega. E nelle nostre? Maria ha la visione di un angelo, ma sarà per una volta sola in tutta la sua vita. Luca, che ci riferisce l’episodio straordinario dell’annunciazione, conclude così: «E l’angelo partì da lei» (Lc 1,38). Non ci saranno su quella casa svolazzi di angeli, ma tutto trascorrerà nella più grande normalità.
Talvolta Nazaret viene dipinta come ideale di vita umile e nascosta e, per Gesù, come tempo di propedeutica, cioè di preparazione alla missione. In realtà, a Nazaret risplende la verità dell’incarnazione, in tutte le sue tonalità. Nazaret, dove Gesù sta con Maria e Giuseppe, è già missione redentrice in atto. Nazaret proclama, con un silenzio assordante, che il Regno di Dio è già presente. Se si togliesse Nazaret dal Vangelo l’enfasi della rivelazione sarebbe tutta sui gesti miracolosi e sui grandi discorsi. Perderemmo le parole di Gesù su famiglia, lavoro e relazioni. Per noi le parole più importanti. “Nazaret” è ciascuna delle nostre case: luogo di fede, di amore e di intense relazioni. Così sia!