Omelia nella S.Messa con i volontari della Colletta alimentare

Borgo Maggiore (RSM), 28 novembre 2019

Dn 6,12-28
Dn 3
Lc 21,20-28

(da registrazione)

Mi viene, anzitutto, questo pensiero. Ogni anno mi avete invitato con voi qualche sera prima dell’iniziativa della Colletta alimentare. Ricordo che la prima volta si trattò di una conferenza; eravamo a Domagnano, nella “Sala Montelupo”, con tanta gente. Un’altra volta, per la preparazione alla Colletta, si è visto un video insieme: il discorso che papa Francesco aveva rivolto a tutti gli amici della Colletta alimentare. L’anno successivo ho partecipato ad una conferenza stampa. Questa volta vengo coinvolto nel modo più bello di fare la preparazione, che è la preghiera.
Le letture che la liturgia ci propone per la giornata di oggi sono molto belle, ma anche impegnative. La pagina del Vangelo è quella che viene chiamata il “discorso apocalittico sinottico” (presente in tutt’e tre i Vangeli sinottici). La caratteristica dell’apocalisse di Luca parte da questo presupposto importantissimo: viviamo già nel mondo nuovo. Con la risurrezione di Gesù siamo entrati nel tempo nuovo; nel gergo dei biblisti si dice “nell’escaton”, nella pienezza. Noi, attraverso il Battesimo, configurati a Gesù, viviamo dello splendore di questa luce. Ma la vita nuova che viviamo la conosceremo a tappe. La prima è quando Gesù si è incarnato, si è fatto uomo. In seguito, un fatto clamorosissimo: la distruzione del tempio di Gerusalemme. Poi, il tempo della Chiesa: quanto durerà? Non lo sappiamo. Il quarto momento sarà il ritorno del Risorto. Dunque, siamo nell’escaton, siamo già dentro a questa luce, ma, con un procedimento tipico di Luca che ama periodizzare, nel tempo storico in cui siamo viviamo queste tappe.
L’accento viene posto sul tempo della Chiesa che, come avete sentito, non sarà un tempo né facile, né comodo per i cristiani: siamo stati avvertiti! Non c’è niente di assolutamente nuovo. Però, la tentazione di fronte ai fatti storici terribili che accadono (anche gli eventi naturali, come quelli di questi giorni) è quella di correre dietro alle ideologie e alle mistificazioni circolanti, ai “pettegolezzi” sulla fine del mondo, come il fare calcoli cabalistici nella speranza di facili quanto illusorie garanzie di salvezza.  No, ogni momento è un momento decisivo.
L’apocalisse di Luca si conclude con la bella notizia che Cristo veglierà sul suo popolo, non permetterà che venga maltrattato oltre ogni limite. Sapendo questo, i suoi fedeli sanno mantenersi saldi nella difficoltà, fedeli al suo messaggio e alla missione che nel tempo lui affida loro. Certamente una missione che ci è affidata è quella di far sì che la terra somigli sempre di più al Cielo. Deve brillare sulla terra la fraternità, l’aiuto reciproco. Il gesto che ci prepariamo a vivere ci educa alla fraternità. Mi ha colpito una frase che ha detto il Papa la settimana scorsa, in occasione della Giornata dei poveri: «Io, cristiano, ho almeno un povero per amico?». Ma ogni persona può avere bisogno di noi.
Vorrei concludere con l’immagine che è stata ripresa più volte nell’archeologia cristiana dei primi tempi, l’immagine di Daniele nella fossa dei leoni. Qual è la leonessa peggiore che ci sia? La morte. Ecco perché nell’antifona all’offertorio della Messa dei defunti c’è un bellissimo brano musicale, dove si dice che l’anima viene liberata dalla bocca del leone. Penso che la Parola di Dio questa sera ci suggerisca di coltivare questa mentalità vincente. Prenderemo delle batoste, abbiamo davanti agli occhi tutti i nostri peccati, ma «alzate il vostro sguardo», dice il Vangelo. Che ciascuno di noi esca dalla preghiera “dritto” (come la signora anziana del Vangelo, piegata su di sé, che il Signore rialza), con un “di più” di fede. Il Signore ci libererà dalla bocca del leone, ha bisogno di noi, vuole impegnarci nelle opere della carità. Così sia.

Omelia nella XXXIV domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (Santuario B. V. Maria delle Grazie), 24 novembre 2019

2Sam 5,1-3
Sal 121
Col 1,12-20
Lc 23,35-43

(da registrazione)

Dopo la bellissima giornata che avete trascorso a Pennabilli vi chiedo un favore: di contagiarmi con la vostra fede e io farò di tutto per aiutare la vostra. Io e voi, insieme, davanti a Gesù Re, ritratto nel momento supremo che è quello del suo innalzamento dalla terra. Là, Gesù è punto di gravitazione universale. L’ha detto lui: «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Dunque, il centro della pericope evangelica di questa domenica ci porta a contemplare Gesù nel momento supremo del suo amore verso tutti. Questi versetti non sono soltanto il centro del racconto della Passione, ma sono il centro di tutto il terzo Vangelo, il Vangelo secondo Luca: la misericordia di Gesù, il modo di morire di Gesù. Vorrei concentrare la mia e la vostra attenzione su quel “ladrone”, potremmo dire un ergastolano, un assassino o un ladro, che entra in scena e ha la faccia di chi ha istituito il processo contro Gesù, sia il processo civile moderato da Ponzio Pilato, sia il processo ecclesiastico moderato da Caifa. A quel malfattore viene affidato di dichiarare l’innocenza di Gesù (da che bocca viene questo pronunciamento!) e di proclamare che Gesù è Re («quando entrerai nel tuo Regno, ricordati di me»). E Gesù è realmente Re, a dispetto di chi lo fa “re per burla”, di chi gli ha messo una corona in testa per prenderlo in giro, di chi l’ha vestito di un mantello rosso e gli ha attaccato il titulus in cima alla croce (il cartello con il motivo della condanna: Jesus Nazarenus Rex Iudeorum). Gesù è veramente re e lo dimostra rispondendo alle provocazioni: «Hai salvato altri, salva te stesso se sei quello che dici di essere» (Lc 23,35). Gesù salva il ladrone, salva un uomo, non tanto dalla morte temporale, ma facendo della morte il passaggio ad una vita piena. Sì, quel ladrone ha individuato qual è la specificità del Messia, chi è il Messia, che ha da fare il Messia, cosa deve dire il Messia, il Salvatore. In questi brevi versetti quattro volte c’è il verbo salvare, perché è proprio qui che si vede la regalità di Gesù. Non regalità politiche, non regalità mondane, tutt’altro. È evidente che l’evangelista Luca da una parte vuol fare della parenesi (esortazione), facendoci osservare i ladroni, facendoci effettuare un confronto (per far risaltare il messaggio in modo più plastico). Il ladrone ha una funzione di esortazione morale perché diventa il prototipo del credente, che spira non solo con Gesù, ma in qualche modo come Gesù, in un atto di affidamento. Dunque, non soltanto parenesi, esortazione, ma anche insegnamento teologico: la fede tutta orientata verso Gesù Cristo. Il futuro dell’uomo è lui.
Vorrei sorvolare su una parola, la parola “paradiso”, che c’è poche volte nella Bibbia ed è mutuata addirittura dall’ambiente religioso persiano (di per sé vuol dire “giardino lussureggiante”). Gesù fa un’azione di riduzione della fantasia che potrebbe avere il ladrone («ricordati di me quando sarai nel tuo regno, in paradiso»). «Oggi sarai con me» non è la traduzione migliore, perché l’evangelista non usa la particella “con” che indica il complemento di compagnia, ma usa una particella che vuol dire “per”. Il paradiso esiste ed è con lui, ma Gesù ci dipinge il paradiso come relazione con lui: «Oggi sarai per me, vivrai per me e io vivrò per te e vivremo sempre così».
A parlare di morte di fronte ad una platea di giovani potrei sembrare poco inculturato, ma questo è il problema dell’umanità. Sette miliardi di persone sulla faccia della terra si interrogano tutte su questo: «Che sarà della nostra vita? Che sarà del nostro futuro?». Tenete presente che la stragrande maggioranza dell’umanità (lasciando stare noi europei) muore molto giovane; ad esempio l’età media nel Kivu è di venticinque anni, quindi chi fra noi ha più di venticinque anni può pensare che ogni anno in più sia regalato… Quando si dice che Gesù ci salva, non vi sembri fuori dalla realtà, non vi sembri una cosa dell’altro mondo, cioè una cosa che non c’entra con questo mondo, perché è la domanda fondamentale che ciascuno di noi ha nel cuore: «Che sarà di me?». A che cosa serve la Chiesa per l’umanità? L’annuncio del Vangelo è che c’è speranza, c’è futuro, c’è domani. Poi dico anche il contrario: questa relazione con Gesù – «oggi sarai con me in paradiso» – significa che c’è salvezza nella morte e nel presente. Quindi, adesso, se siamo in relazione con Gesù, siamo con un piede di qua e con un piede di là… allora siamo in una botte di ferro!
Da stamattina fino ad ora tante volte avete pensato al Signore Gesù con affetto, con riconoscenza; magari dopo avete parlato male e vi sentire carichi di peccati… ma l’importante è che siete in relazione con lui.
La settimana scorsa abbiamo registrato una trasmissione per la San Marino RTV e abbiamo chiamato mons. Mansueto Fabbri. Il tema era questo e ad un certo punto ho dato a lui parola dicendo: «Lei ha 97 anni; come si sente a quest’età, cosa pensa della morte, del paradiso?». Con il sorriso ha detto: «Io parlo già tutti i giorni con Gesù, con la Madonna, con gli angeli custodi…». C’è molto paradiso sulla terra. Anche il nostro incontrarci, il nostro volerci bene, non è paradiso? Queste relazioni che voi andate costruendo, nei vostri incontri, a scuola, all’università, in famiglia, guardando una partita di calcio: è tutto Regno di Dio.
Grazie di questo momento; mi sento molto aiutato da voi nella fede. Non scandalizzatevi di questo… Anche la fede è una relazione, si trasmette per contagio. Sia lodato Gesù Cristo.

Messaggio del Vescovo in occasione delle elezioni politiche a San Marino

Carissimi,
in questo momento di scelte importanti per la nostra Repubblica di San Marino propongo alcune considerazioni, consapevole del mio ruolo di pastore. Mi rivolgo in particolare ai sammarinesi che sono chiamati a scegliere i loro rappresentanti nel Consiglio Grande e Generale della Repubblica. Tutti siamo chiamati ad una grande responsabilità: la crisi economica è solo un aspetto, più drammatica quella valoriale che attraversa relazioni, famiglie, giustizia e coscienze. Guardo con rispetto tutti i candidati, indipendentemente dall’appartenenza partitica. Di qualcuno conosco quanto sia stata sofferta la decisione di partecipare. E questo fa onore. Fa pensare alla politica come servizio. Di tutti apprezzo il desiderio di dare il proprio contributo alla comunità e il proposito di cercare il bene comune.
L’esempio di chi scende in campo incoraggia ad uscire da ogni forma di chiusura e indifferenza. L’individualismo, poi, è una tentazione sempre in agguato. L’appello che rivolgo a tutti è di partecipare, di valutare i programmi e di andare al voto domenica 8 dicembre (siamo fortunati rispetto ad altri Paesi dove non c’è democrazia e il voto è solo un rito vuoto). Andare al voto lo chiedono la Dichiarazione dei diritti dei cittadini sammarinese e le nostre tradizioni di democrazia e di libertà. Senza esercizio di responsabilità e di partecipazione si finisce per essere «sudditi piuttosto che cittadini».
In tutti gli schieramenti ci sono giovani candidati. Questo è significativo e promettente per un duplice motivo. Senza nulla togliere agli adulti e agli adultissimi della politica, che portano competenze ed esperienza, i giovani testimoniano il superamento dei soliti pregiudizi che sfiduciano la prassi politica. Inoltre, i giovani possono offrire entusiasmo, proposte originali, rinnovamento.
Politica è anche confronto, scontro, passione. Peggio è l’egoismo, secondo la celebre frase di don Lorenzo Milani: «Affrontare i problemi da soli è l’egoismo, sortirne insieme è la politica». Se confronto, scontro e passione devono esserci, non scadano mai in mancanza di rispetto, chiusura nella trincea del proprio interesse, o inimicizia. Avversari sì, nemici mai! Senza venir meno ai propri principi ideali e al mandato ricevuto è possibile il compromesso – intendo una mediazione virtuosa – sul “da farsi” in concreto per il bene comune.
Mi aspetto siano attuate le proposte che sento più urgenti, riguardanti la famiglia, l’educazione, la scuola, l’università. Siano prioritarie le scelte in favore dei più deboli, di chi ha bisogno di solidarietà, di lavoro e di assistenza sociale, dei più deboli tra i deboli a cui non si deve negare il primo e fondamentale dei diritti, che è quello di vivere. Si possono trovare, ad esempio, altre strade per la tutela della maternità e per un dignitoso accompagnamento al fine vita, senza accanimento terapeutico e senza eutanasia. Questo dico con argomenti di ragione, da tanti condivisi, fondati sui grandi principi della Dottrina Sociale Cristiana: centralità e dignità della persona, solidarietà, sussidiarietà, bene comune.
Come credente, e con tutti i credenti di questa Diocesi di San Marino-Montefeltro, assicuro la preghiera per il miglior svolgimento delle prossime elezioni con l’intercessione del Santo Fondatore. Auguro buon lavoro sia a chi formerà il nuovo governo, sia a chi si troverà nella minoranza a svolgere un compito altrettanto importante e necessario.

+ Andrea Turazzi
Vescovo di San Marino-Montefeltro

Omelia nella XXXIII domenica del Tempo Ordinario

San Leo (Cattedrale), 17 novembre 2019

(da registrazione)

Ml 3,19-20
Sal 97
2Ts 3,7-12
Lc 21,5-19

Un caro saluto a tutti, in particolare alle autorità, civili e militari, ai responsabili della “Coltivatori Diretti” e a tutti quelli che lavorano la terra.
Talvolta si sentono delle critiche rivolte a noi sacerdoti per le nostre omelie. A volte è difficile prendere la parola in pubblico; la disinvoltura viene solo dopo tanti anni. A volte c’è una preparazione non sufficiente o addirittura si improvvisa. Un celebre teologo (protestante), Karl Barth, impiegava una settimana a preparare il suo sermone. Poi, giornate come questa sono complicate, perché dobbiamo ricordare i poveri, la Giornata del Ringraziamento, che quest’anno è incentrata sul tema del pane, e la liturgia domenicale che, di per sé, ha il posto principale.
Per quanto riguarda la Giornata dei poveri faccio una piccola integrazione all’atto penitenziale. La Chiesa, nella sua pedagogia, ogni volta che ci raduna per la Messa chiede anzitutto un atto di umiltà: il riconoscerci peccatori bisognosi di misericordia. A volte, la domenica celebro anche due o tre Messe e ogni volta chiedo perdono… Mi è capitato di pensare che tra una celebrazione e l’altra non fosse trascorso un tempo sufficiente a compiere altri peccati, ma la Chiesa mi educa a sentirmi sempre peccatore davanti alla santità di Dio, davanti alla sua maestà, e di riconoscere umilmente che vivo della sua misericordia.
Volevo fare un piccolo collegamento con l’atto penitenziale. Rubo le parole a papa Francesco il quale ha: «Il pane che chiediamo al Signore nella preghiera è quello stesso che un giorno ci accuserà» (Papa Francesco, Udienza Generale, Piazza San Pietro, 27 marzo 2019). Il pane: a noi viene da dare lode al Signore per i frutti della terra. Il pane: fa venire in mente il sudore. «Signore, dammi salute perché io possa continuare nel mio lavoro». Ma il pane – suggerisce il Santo Padre – è un atto di accusa verso di noi, perché «ci rimprovererà la poca abitudine a spezzarlo con chi ci è vicino, a condividerlo». La parola pane, soprattutto per noi di cultura mediterranea, riassume l’insieme dei beni più grandi; addirittura il pane sta ad indicare anche la vita familiare e di relazione: il pane sulla tavola, il pane spezzato. «Era un pane regalato per l’umanità, e invece è stato mangiato solo da qualcuno». L’amore non può sopportare questo. Non può sopportarlo il nostro amore e neppure l’amore di Dio può sopportare l’egoismo di non saper condividere il pane». «Signore, ti chiediamo perdono perché nell’umanità di oggi sussiste ancora questa sperequazione: c’è chi ha troppo e chi non ha nulla».
Adesso ci immedesimiamo nella lettura evangelica proclamata quest’oggi, una pagina che riecheggia il tema della “fine del mondo”. Senza pensare alla fine totale, molti di noi, nella vita, hanno vissuto episodi che sono come la “fine del mondo”; per questo si usa dire: «Mi è cascato il mondo addosso». Ai discepoli che erano incantati di fronte allo splendore del tempio di Gerusalemme, una delle cose più belle dell’antichità, Gesù dice: «Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta» (Lc 21,6). Anche Gesù era incantato davanti alla bellezza, e non solo del tempio, anche davanti alla bellezza della natura. Ricordate quando ha esclamato: «Guardate i gigli del campo!». Comunque, Gesù ha amato il tempio, la casa del Padre, alla quale è salito, la prima volta, all’età di dodici anni. Vi è rimasto tre giorni. Ci ha anche dormito. Nel tempio ha pregato, insegnato, pianto, pensando alla sua distruzione. Anche Gesù ha provato la struggente esperienza della “fine”. Venendo alla nostra “fine del mondo”, basti pensare, ad esempio, ai genitori che hanno cercato di fare del loro meglio per dare ai figli una buona educazione e hanno l’impressione di aver fallito o alla condizione di chi rimane solo col suo amore ferito, infranto. Sono confuso di fronte a chi ha appena saputo di una diagnosi infausta che il medico gli ha confermato. Potrei continuare con tanti fatti che rappresentano per ciascuno di noi come “la fine del mondo”. Non dobbiamo aver paura di chiamare per nome le nostre situazioni di crollo o di fragilità, con sano realismo. Gesù, tuttavia – ecco l’annuncio di questa domenica – ci ha insegnato che Dio resta fedele alla sua alleanza e dà compimento alle sue promesse nel modo più corrispondente, addirittura sovrabbondante, che possiamo immaginare. Anche le situazioni più disperate, i crolli più devastanti, per chi crede – dice Gesù – diventano occasione di testimonianza. Fanno apprezzare l’antica sapienza che ammonisce sulla caducità delle cose: tutto passa. Inutile cercare false soluzioni – lasciamo da parte gli oroscopi e le sentenze dei maghi – ma cercare invece una vera solidità, cercare ciò che non crolla. Penso anche alla vostra bellissima cittadina, alla rocca che la sovrasta (speriamo che non crolli mai!), ma tutto il mondo è fragile. In questi giorni abbiamo davanti agli occhi Venezia, le valli del Trentino, la piena del Po che corre verso il mare. Mi viene in mente – è stata anche trasportata in musica – una preghiera di santa Teresa d’Avila che diceva: «Nulla ti turbi, nulla ti spaventi, Dio solo basta». Non dico questo per una fuga dalla realtà, perché dobbiamo impegnarci, prevenire i terremoti, costruire argini solidi… Ma come vivere la nostra “fine del mondo”? Scegliendo Gesù come roccia che non crolla mai. Oggi, nonostante i progressi della scienza e della tecnica, stiamo facendo i conti con la precarietà, con i limiti dello sviluppo. Ricordo che un tempo si faceva molto uso di un libro di uno scienziato americano, “I limiti dello sviluppo”. Era il periodo in cui si viveva l’esplosione del benessere e della presunzione di cavarsela da soli. Invece i fatti, anche recenti, smascherano le nostre presunzioni; viviamo con l’ansia per qualche grado in più o in meno della temperatura terrestre, un blackout elettrico mette in ginocchio una metropoli… Così lo smarrimento di tanti giovani fa temere per il futuro della società. Dentro la fragilità e il fallimento, dice il Signore, puoi trovare il valore della fedeltà; anzitutto la fedeltà di Dio, ma anche la fedeltà a se stessi, nel prendere atto che siamo fragili, la fedeltà al nostro lavoro, perché Gesù, verso la fine del discorso – viene chiamato “discorso escatologico sulla fine del mondo” – dice di non lasciarsi prendere dal pettegolezzo di dire: «Quando accadrà? Quali saranno i segni?». Gesù taglia corto e dice: «Siate perseveranti, datevi da fare» (cfr. Lc 21,19).
Nella Seconda Lettura san Paolo parla del lavoro; si potrebbe dire: «Be’, se siamo destinati a finire, perchè stiamo ad impazzire a lavorare?». Guai pensare così! Il Signore Gesù, se da una parte ci fa guardare al traguardo, intanto dice «costruisci, continua l’opera della creazione: il lavoro». Chiudo con una domanda un po’ retorica: «Quando domattina andremo a lavorare quale sarà il primo pensiero che faremo?». Ci sarà chi dice: «Uffa, anche oggi… ». Ci sarà chi dirà: «Non vedo l’ora, per finire quella cosa che avevo cominciato». Qualcun altro andrà con gioia al pensiero di vedere i suoi amici e i suoi colleghi, un insegnante al pensiero di vedere i suoi bambini o i suoi ragazzi a scuola. E io incalzo: «Perché vai a lavorare?». Alla fine, la risposta è: «Ci vado per amore. Vado a lavorare per mantenere la mia famiglia, per crescere e far crescere e metto nel lavoro tutta la mia spiritualità». Pensiamo ai castori, anche loro lavorano, fanno delle dighe degne del miglior ingegnere, o alle rondini che fanno dei nidi perfetti o alle api nella loro armonia. Lo specifico del lavoro umano è che l’uomo nel lavoro mette se stesso, mette la sua capacità di amare. Auguro a tutti una festa bella. Sia lodato Gesù Cristo.

Veglia per la Vita nascente

Giornata dei formatori

Convegno giovani AC

Omelia XXXII domenica del Tempo Ordinario

(da registrazione)

Scavolino, 10 novembre 2019

Giornata del Ringraziamento

2Mac 7,1-2.9-14
Sal 16
2Ts 2,16-3,5
Lc 20,27-38

La pericope evangelica proclamata oggi è tratta dalla parte finale del Vangelo di Luca; in particolare, ci troviamo in una sezione in cui gli avversari di Gesù si fanno avanti e gli rivolgono delle contestazioni. Celebre è la seguente obiezione: «È lecito o no pagare il tributo a Cesare, cioè riconoscere uno straniero occupante, prepotente e pagano? Riconoscergli addirittura il dovere di pagargli le tasse?» (cfr. Mt 22,17). «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (cfr. Mt 22,21).
Un’altra disputa era su quale fosse il comandamento più grande nella scala dei precetti.
Oggi si fanno avanti i Sadducei, un movimento politico-culturale-religioso in gran parte composto da persone addette al culto nel tempio – erano per lo più sacerdoti, ricchi e staccati dal popolo –, che avevano per fondamento il Pentateuco (i primi cinque libri della Bibbia). Erano dei “tradizionalisti” dal punto di vista religioso (anche nell’antichità ci sono sempre state anime che si contrappongono). I Sadducei si introducono nell’interlocuzione col Maestro Gesù mediante una parabola. Sono loro che la raccontano a Gesù. Una parabola, di per sé, è un paradosso. C’è una donna che viene data ad un uomo. L’uomo muore e, secondo la legge del Levirato, bisognava che il cognato sposasse la donna, per assicurare al primo uomo che si era sposato una discendenza. Nella parabola sette fratelli, uno dopo l’altro, sposano la vedova, ma muoiono tutti e sette senza lasciare figli. La domanda pretestuosa dei Sadducei a Gesù – teniamo conto che i Sadducei non credevano nella risurrezione – è: «Quando saremo nell’aldilà questa donna di chi sarà? Chi sarà il suo proprietario? Il primo marito?» (cfr. Lc 20,33). Evidentemente, i Sadducei volevano dimostrare l’incongruenza della fede nella risurrezione. Gesù risponde, come sa fare lui, con due argomenti, anche se la risposta all’obiezione è unica. Uno di essi è rivolto soprattutto ai Sadducei. Secondo il loro pregiudizio, i Sadducei ritenevano che la risurrezione sarebbe stata la continuazione, un po’ migliorata, della condizione terrena. «No – dice Gesù – la vita di risurrezione è una novità nella quale tutto è trasformato, tutto è nuovo, e anche la realtà del matrimonio, in un certo senso, è superata». Essendo gli uomini immortali – il che non significa asessuati –, non hanno più bisogno di contrarre matrimonio per la procreazione.
Detta questa argomentazione, Gesù recupera anche un altro motivo di fede nella risurrezione e lo fa citando un versetto dell’Esodo, un libro che anche i Sadducei riconoscono come un libro ispirato, nel quale si dice che Mosè salì sul monte e vide un roveto che ardeva senza consumarsi mai (cfr. Es 3,2). Era simbolo della fedeltà di Dio, che stava per siglare l’Alleanza con Mosè e l’aveva già siglata con Abramo, con Isacco, con Giacobbe. Gesù spiazza i Sadducei dicendo loro: «Che poi i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando chiama il Signore: “Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui» (Lc 20,37-38). Tutta la forza dell’argomentazione sta nella particella “di” (in italiano): Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe… e potremmo continuare fino ad arrivare ai nomi dei nostri genitori. Dunque, la forza dell’argomentazione sta proprio nella prospettiva dell’Alleanza: il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, perché Dio del patto dell’Alleanza, è il protettore e il salvatore dei patriarchi, come di tutto Israele. La fedeltà di Dio cessa di fronte alla morte? Per Gesù la morte non può essere più forte di Dio. Essa perde il suo potere dinanzi all’impegno di fedeltà che Dio ha preso nei confronti dei “suoi”, di coloro che egli ama. Per Gesù ne va di Dio, della sua onnipotenza e fedeltà.
C’è un ulteriore sviluppo. Nella tradizione cristiana, il testo che avete sentito leggere, qualche volta ha provocato una certa svalutazione della sessualità e del matrimonio. Si tendeva infatti ad identificare la vita di risurrezione con uno stato di vita angelico: quando risorgiamo diventiamo angeli, quindi gli esseri umani devono, fin dalla terra, essere angelici. Ma l’essere come angeli non significa che la natura dell’uomo venga trasformata nella natura degli angeli. L’uomo risorto non è disumanizzato: noi risorgeremo maschi e femmine davanti a Dio. Ciò che dice il testo, «non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio» (Lc 20,36), è il superamento del rapporto sessuale nel futuro dove la vita è piena e l’uomo ormai è immortale. Al tempo di Gesù l’unione fra l’uomo e la donna era visto proprio come un braccio di ferro con la morte. La morte è sconfitta dalla vita nuova che nasce.
Mi piace citare alcune frasi di San Giovanni Paolo II a questo proposito: «La parola di Gesù indica che c’è una condizione di vita prima del matrimonio in cui l’uomo, maschio e femmina, trova ad un tempo la pienezza della donazione personale e della soggettiva comunione delle persone grazie alla glorificazione di tutto il suo essere nell’unione perenne con Dio».
Dice Gesù: «Tutti vivono per lui, il Signore. Egli non è un Dio di morti, ma di viventi» (cfr. Lc 20,38). Gesù punta tutto su un Dio capace di vincere la morte, perché egli è tutt’ora Dio dei patriarchi che, anche se morti, vivranno. Per l’evangelista Luca questa deduzione ha ormai valore di certezza. È nella risurrezione di Gesù che il Dio dei patriarchi dimostra di essere veramente il Dio dei viventi.
Vivere per lui: cosa vuol dire questa espressione? Ve la consegno perché questa settimana vi torni alla mente e nel cuore. Primo significato: vivere per mezzo di lui. L’evangelista Luca non fa che confermare quanto appena detto. Dio è colui che dà la vita. Secondo significato: tutti vivono per amore di lui. In questo senso si può leggere la frase alla luce del pensiero di Paolo. L’esistenza del battezzato è una vita per Dio, fin da ora, e in Cristo e per Cristo è garanzia della risurrezione futura. Ma la frase può anche essere situata nella linea del martirio, come abbiamo sentito nella Prima Lettura (cfr. 2Mac 7,1-2.9-14) con la narrazione della storia dei sette fratelli, presi insieme alla madre, e costretti a cibarsi di carni suine proibite. Ogni uomo che vive su questa terra riceverà da Dio la vita di risurrezione, come è accaduto ai patriarchi. Dio non lascerà nella morte chi ha dato la sua vita per lui.
Rileggendo il brano nella lingua in cui è stato scritto (il greco), mi ha colpito un particolare. Quando i Sadducei parlano a Gesù della famigerata donna, che è stata vedova di sette mariti, usano questa espressione: “prendere” la donna, “avere” la donna, “possedere” la donna, “di chi sarà” quella donna. Nella risurrezione non apparteniamo ad altri che a Dio e, fin da questa terra, apparteniamo a lui solo. Nessuno ha diritto di dire “la prendo”, “la voglio”, “la uso”, “la possiedo”. Se c’è un’appartenenza all’altro – è bello appartenere a qualcuno – non è un’appartenenza di dominio e di possesso, ma un’appartenenza per amore, nell’amore, d’amore. Un messaggio che è importante nella nostra società in cui accadono tanti episodi di prepotenza sulle donne, in una società in cui prevale una cultura che tende a dissociare il corpo dalla persona, una cultura in cui la sessualità, talvolta, viene vissuta senza relazioni autentiche.
Grazie Signore, per questa pagina di Vangelo in cui ribadisci con forza che risorgeremo, che c’è una vita oltre la morte; grazie, perché asserisci che nessuno di noi è possesso di qualcuno, ma che siamo tutti tuoi figli. Solo tu sei il Signore.

Omelia nella S.Messa in suffragio dei Vescovi e dei sacerdoti defunti

Pennabilli (Cattedrale), 8 novembre 2019

Rom 6,3-9
Sal 22
Gv 20,19-29

Quando, ormai sei anni fa, venni per la prima volta a Pennabilli, mi fece impressione vedere il mio nome scolpito sulla lapide che è affissa sotto il portico del Vescovado. Vi confesso che ancora, di tanto in tanto, mi fa pensare alla mia morte. Ma mi viene anche da pensare alla lunga catena di vescovi che si sono succeduti nel tempo. Io sono il 66°. Quattro di questi 66 vescovi sono ancora vivi, gli altri sono defunti.
È commovente pensare al ricordo che i fedeli hanno, anche a distanza di anni, dei loro pastori. Pastori: li chiamo con questo nome rifacendomi al Salmo 22, che è stato cantato durante la liturgia della Parola. È il Salmo che canta Dio, pastore del suo popolo, con i vantaggi che venivano al gregge dalle sue cure. I pastori hanno bisogno del suffragio, della preghiera della Chiesa. Non vorremmo dimenticare nessuno, sia i vescovi sepolti qui in Cattedrale, che quelli che riposano altrove. Vogliamo pregare anche per coloro che dei vescovi sono stati i diretti collaboratori, i sacerdoti.
Ecco l’importanza dei vescovi nella vita della Chiesa: Gesù in persona «chiamò a sé quelli che volle e costituì dodici apostoli» (cfr. Mc 3,13-14). Negli Atti degli Apostoli si parla della loro collocazione nel popolo di Dio ad opera dello Spirito Santo. «Su tutto il gregge lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio» (cfr. Gv 20,28).
Il Concilio Vaticano II – non dobbiamo mai dimenticarci di questa pietra miliare nelle nostre riflessioni, perché è il dono che il Signore ha fatto alla Chiesa moderna –, completando il magistero del Vaticano I, aggiunge al primato del papa la collegialità dei vescovi. Primato e collegialità sono la suprema autorità della Chiesa.
Lasciatemi spigolare qualche frase dal capitolo 3 della Costituzione Dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, dove si parla in modo particolare dei vescovi. Anche qui ricorre continuamente l’immagine del pastore e del gregge. I vescovi – dice il Concilio – agiscono da maestri di dottrina, sono sacerdoti del sacro culto, ministri della guida (LG 20). Nella loro persona, circondata dai sacerdoti, è presente in mezzo ai fedeli Gesù Cristo, di cui sono quasi sacramento del suo sacerdozio. I singoli vescovi – continua il Concilio – sono il visibile principio e fondamento di unità delle loro Chiese (LG 23). E potrei continuare, ma voglio fare una piccola sottolineatura; vi parrà secondaria, ma a me emoziona particolarmente. Ogni vescovo, si potrebbe dire, imprime qualcosa della propria fisionomia alla Chiesa che gli è stata affidata. Il vostro parroco, che è anche studioso della storia, potrebbe dirvi qual è stato il contributo di ciascun vescovo, perché ognuno, in modo più o meno incisivo, ha lasciato un’impronta. Mi viene da applicare ai vescovi, ai 62 vescovi defunti il cui nome è scritto in quella lapide, quello che scrive san Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi: «A ciascuno è data una particolare manifestazione dello Spirito per l’utilità comune, per la edificazione della comunità» (cfr. 1Cor 12,7).
In questi giorni ricordiamo l’abbattimento del muro che attraversava Berlino e la mente non può non andare a san Giovanni Paolo II. Ebbene, lui nel suo primo viaggio in Polonia, nel 1979, osservava: «Se Dio mi ha chiamato con queste idee, ciò è avvenuto affinché abbiano risonanza nel mio ministero». Come oggi papa Francesco porta la vita, la storia, le fatiche, le singolarità della Chiesa latino-americana. E se il Signore l’ha chiamato con queste idee vuol dire che lui deve avvalersene e noi dobbiamo accoglierle. Ma c’è anche un’altra verità, per la proprietà transitiva: ciascun vescovo riceve tanto dal suo gregge. Potrei raccontare tante testimonianze personali di quanto ho ricevuto in questi anni, quanto amore, quanta luce, quanta affezione, quante idee, quanti propositi, anche quante battaglie… Preghiamo, allora, per i nostri pastori defunti; preghiamo a motivo della loro importanza, come ci ha detto il Vaticano II, ma anche a motivo dei loro limiti. Anche se non sono più tra noi, abbiamo il dovere di ricordare le loro fatiche, il loro amore. Dunque, preghiamo con riconoscenza, con comprensione per i loro limiti e con indulgenza. Essi hanno annunziato la Parola di Dio. Consideriamo apertamente il loro tenore di vita e imitiamone la fede. I vescovi, successori degli apostoli – lo dico in questo ultimo giorno dell’Ottavario dei defunti – sono soprattutto testimoni della risurrezione. Vorrei precisare: di per sé non sono maestri di una dottrina, di una filosofia, ma annunciatori di un fatto, un fatto che diventa, poi, la loro dottrina. Preciso ulteriormente: troppo poco è dire che sono testimoni del fatto della risurrezione, perché non si tratta tanto del fatto quanto del Risuscitato, della persona di Gesù. Ecco, allora, come ci aiuta la lettura evangelica di questa sera: ci ripropone e ci rituffa nella Pasqua di Gesù, o meglio ancora, nell’incontro di Gesù con gli apostoli. Loro sì che erano chiusi in una tomba, la tomba del cenacolo, dove si trovavano a porte chiuse, mentre fuori era buio – ma il buio era soprattutto nel loro cuore –, prigionieri della paura. L’apparizione pasquale non solo dà loro coraggio, ma li invia in missione; infatti, lascia in dono una fortissima premura che li mette in movimento e così la risurrezione di Gesù, il fatto e la persona di Gesù, si diffonde sotto forma di apostolato.
Concludo con una breve sottolineatura per quanto riguarda la Prima Lettura. Il Battesimo fa parte della missione apostolica. Voi direte: «Che cosa c’entra accennare al Battesimo mentre si parla di apostoli, vescovi e sacerdoti?». C’è molta pertinenza in realtà, perché Gesù agli apostoli e ai loro successori ha detto: «Andate e battezzate» (cfr. Mt 28,19). Qui la meditazione, se ci fosse tempo, si allargherebbe, si approfondirebbe, dalla risurrezione di Gesù alla nostra risurrezione, passando attraverso il sacramento del Battesimo che ci fa partecipi del mistero pasquale di Gesù.
Siamo in una liturgia mesta – nel ricordo dei defunti e dell’ultimo dei nostri sacerdoti defunti, don Armando Evangelisti – ma non è una liturgia triste. Vi risuona l’Alleluia, perché ogni liturgia è l’annuncio di Gesù Risorto. Allora continuiamo a seguire i nostri pastori, avendo anche misericordia delle loro fragilità, debolezze e inconsistenze, perché non si va a scuola per “governare”, ci si trova chiamati dal Signore. Seguiamo i nostri vescovi in questa vita nuova. Ci hanno preceduto, seguiamoli.

Storia dell’Ufficio di Pastorale Sanitaria

Alla Caritas è affidata la mission di leggere e monitorare la realtà territoriale per rilevare le situazioni di bisogno, disagio ed emarginazione, non solo materiali ma anche culturali, allo scopo di far scaturire, partendo da una visione cristiana dell’uomo, strategie di aiuto per le persone che a lei si rivolgono. Tale mandato può essere assolto anche stimolando la ricerca e il confronto, finalizzati all’informazione ed alla formazione, su tematiche significative per tutta la società civile.

Partendo da questa consapevolezza e accogliendo l’invito del Segretario di Stato all’ISS, avv. Francesco Mussoni, di cercare di umanizzare l’ospedale, rendendo gli operatori sensibili e attenti al paziente e ai suoi familiari, si è costituita nel luglio 2013, su suggerimento di don Mirco Cesarini e sotto il coordinamento del direttore della Caritas Giovanni Ceccoli, una équipe composta da medici, farmacisti, infermieri, e dal cappellano dell’ospedale, che si prefiggeva lo scopo di:

  • disegnare un modello di professionalità sanitaria che, pur ispirato dalla visione evangelica, fosse proponibile a tutti e fosse da tutti accettabile. Sarebbe davvero preoccupante, infatti, se nei luoghi di ricovero o cura convivessero, gli uni accanto agli altri, professionisti che operano secondo un’ottica di neutralità nei confronti del malato, immaginando che la malattia sia solo un meccanismo che si è inceppato e la cura lo strumento del ripristino automatico di quel meccanismo, e altri professionisti che si lasciano coinvolgere in un percorso di solidarietà con i malati consapevoli che essi pongono insieme alla domanda di salute anche la richiesta che venga data risposta a quella ricerca sul senso della vita che prepotentemente si pone nel momento della fragilità. In questo modo alcuni pazienti vivrebbero l’esperienza della accoglienza e della condivisione e altri quella dell’abbandono e della solitudine. Deve essere invece possibile che coloro che giungono in ospedale, agnostici, credenti o atei, trovino un operatore sanitario, medico e non, che ascolti con attenzione la loro storia di persone oltre che quella di malati e che li aiuti a cercare una risposta al perché della sofferenza, del limite, della morte.
  • promuovere iniziative riguardanti la formazione e l’aggiornamento delle persone che operano nel settore sanitario;
  • sensibilizzare la comunità cristiana ai temi della malattia e della sofferenza;
  • promuovere iniziative finalizzate a migliorare l’assistenza ai malati, con particolare attenzione alle persone sole, emarginate, con patologie che richiedono cure particolari;
  • collaborare con le associazioni di volontariato che operano in questo campo.

L’équipe ha progettato un percorso a largo respiro, patrocinato dalla Segreteria di Stato all’ISS, organizzando nell’anno pastorale 2013-2014 vari incontri accomunati dal titolo: “La malattia interroga l’anima”. La proposta è nata dalla considerazione che il progressivo miglioramento dei metodi e delle tecniche di cura non può non essere accompagnato dall’attenzione al paziente. La malattia oltre a chiedere una risposta adeguata dal punto di vista medico-scientifico, stimola domande che vanno al di là della dimensione fisica. Il paziente, prima di essere una macchina da aggiustare, è innanzitutto una persona che si pone e pone agli altri interrogativi sul senso di ciò che sta vivendo, che chiede di essere ascoltata e con la quale occorre creare una relazione positiva. Una persona che, generalmente, non è sola, ma che è accompagnata dai propri familiari e conoscenti i quali partecipano al suo percorso terapeutico.

Il prof. Germano Policante ha affrontato il rapporto con il paziente in due incontri dal titolo “Dal curare al prendersi cura: ascolto e attenzione ai bisogni del malato” (28 novembre 2013) e “La comunicazione empatica per incontrare i malati e i loro familiari” (16 gennaio 2014).

Il dr. Paolo Marchionni con la relazione intitolata “L’umanità delle cure, aspetti etici” (13 febbraio 2014) ha approfondito l’uso dei farmaci e delle cure nel difficile equilibrio tra terapia adeguata e accanimento terapeutico.

Infine Sua Em. il card. Elio Sgreccia, padre fondatore della Bioetica Personalista, ha affrontato il tema del “fine vita” con una relazione dal titolo “Vivere il morire: aspetti etici del fine vita” (20 marzo 2014).

Nell’anno 2015, con la nomina a responsabile di don Giuliano Boschetti, si è costituito l’Ufficio Diocesano per la Pastorale della Salute e su sollecitazione di S.E. mons. Andrea Turazzi sono entrati a fare parte della équipe i rappresentanti delle Associazioni Diocesane che si occupano delle problematiche inerenti alla vita e quelle che prestano assistenza e vicinanza agli ammalati (Movimento per la vita, U.S.T.A.L.). In tal modo si è voluto dare un respiro diocesano al progetto iniziale e si è avviato il secondo ciclo di conferenze nelle quali si è affrontato il tema “Limiti e orizzonti” con l’intenzione di approfondire il rapporto tra le aspirazioni ed i desideri dell’uomo di fronte all’ostacolo della malattia.

Il prof. Daniele Celli (29 gennaio) partendo dalla constatazione che la dimensione della malattia riguarda tutti e fa parte della natura umana, sviluppando il tema assegnatogli I desideri dell’uomo e la malattiaci ha guidati alla scoperta, apparentemente paradossale, della sua positività. Secondo il relatore la vita è un regalo e la malattia è una benedizione in quanto parte della vita. C’è un Amore che ci ha voluti e pensati da sempre e la vera felicità consiste nell’andare incontro all’Amore che ci ha amati. Se riuscissimo a capire questo, allora ogni evento acquisterebbe un significato diverso: le gioie e le pene dell’anima sarebbero vissute come un’opportunità.

Il dr. Ossani nell’incontro del 12 marzo ha affrontato il tema “La famiglia di fronte alla malattia”. Ci ha aiutato a leggere e a comprendere i mutamenti avvenuti nella famiglia negli ultimi cinquant’anni e come tali cambiamenti hanno modificato il modo in cui la famiglia si pone di fronte alla malattia di un suo componente. L’assistenza al malato, da fatto sociale quale era all’interno della famiglia allargata, è diventata, nella famiglia mononucleare, fatto privato. La famiglia è allora costretta a ricercare autonomamente strumenti e risorse al suo interno, per gestire e reggere nel tempo la malattia, a volte in un clima di isolamento e solitudine. Ci ha spiegato ed aiutato a riconoscere, con adeguate esemplificazioni, i bisogni immateriali inespressi e ci ha indicato alcuni strumenti comunicativi utili per instaurare una vera relazione di aiuto (fatta di parole, di silenzi, di piccoli gesti significativi) che sia al servizio della famiglia.

Don Giovanni Nicolini (16 aprile) ci ha aiutato a rispondere a delle domande che tutti noi ci portiamo dentro: “Perché esiste la sofferenza? Perché la malattia? Perché la morte?”. Se ci limitiamo ad essere spettatori delle sofferenze degli altri e siamo troppo presi ad occuparci solo del nostro benessere, potremmo rispondere facilmente che la sofferenza fa parte della vita, che il mondo è fatto così, ma nel momento in cui facciamo l’esperienza diretta della sofferenza o perché ci ammaliamo o perché la malattia e la morte colpiscono i nostri affetti più cari, allora andiamo in crisi, ci chiediamo: “Perché proprio a me? Cosa ho fatto di male? Perché il Signore mi manda questa sofferenza? Per quale causa e per quale fine soffrire?

Nell’anno pastorale 2015-16 la riflessione e la ricerca sul fine vita hanno chiuso il ciclo triennale del progetto originario. Il sottotitolo scelto è stato: “Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale”. Per favorire la partecipazione a questi momenti di formazione, si sono programmati gli incontri nei tre vicariati e si è deciso di affrontare la complessa problematica da ottiche diverse: antropologiche, psicologiche relazionali ed etiche.

Nel primo dei tre incontri programmati la dott.ssa Melina Perrina, ha sviluppato il tema “La dimensione della morte nella società di oggi”. Il prof. Gabriele Raschi e la dott.ssa Silvia Ceccoli con la relazione “Essere vicino a chi muore” si sono interrogati sull’impatto che la malattia ha sul malato e su chi l’assiste. Mentre il primo relatore ha trattato gli aspetti etici che chi assiste il malato deve affrontare, la seconda ne ha illustrato la dimensione psicologica.

Il prof. don Vittorio Metalli, partendo dal tema assegnatogli “Nella morte, la vita”, ha affrontato l’argomento del “fine vita” dal punto di vista della morale cristiana, cercando di rileggere le principali implicazioni etiche e personali.

Considerando il riscontro positivo del progetto “La malattia interroga l’anima” avviato nel 2013, l’Ufficio Diocesano per la Pastorale della Salute, in collaborazione con la Caritas Vicariale di San Marino e con il Patrocinio della Segreteria di Stato alla Sanità e Sicurezza Sociale ha ritenuto significativo continuare il ciclo degli incontri inerenti la problematica della salute e per l’anno pastorale 2016-2017 ha scelto di approfondire il tema della disabilita, analizzata sia sotto l’aspetto culturale, che sociale e teologico. Gli incontri si prefiggevano di offrire, non solo agli operatori sanitari, ma a tutta la popolazione, l’opportunità di confrontarsi su una tematica quanto mai attuale e improcrastinabile per il suo portato quotidiano, attraverso un approccio “teorico” ed esperienziale/pragmatico. Per questo si è deciso di dare spazio alla testimonianza di persone del nostro territorio e del circondario che quotidianamente si ritrovano a convivere con la disabilità.

La dott.ssa Melina Perrina ha introdotto il tema: “La disabilità: disgrazia o grazia?”, Nanni Federico lo ha attualizzato con la sua testimonianza.

Il diac. Giorgio Pieri ha parlato di “Disabilità: esclusione o inclusione?”.

Infine don Lanfranco Bellavista, attraverso la testimonianza di alcuni membri della comunità della Piccola Famiglia dell’Assunta di Montetauro è entrato in uno sguardo di fede sul tema della disabilità e dell’accoglienza del disabile, partendo dal titolo: “Disabilità: tutti diversi… tutti salvati”. Nell’anno pastorale 2017-2018 è stato scelto come incontro annuale di formazione il titolo “Il cervello che invecchia…malattie neurodegenerative ed emarginazione dell’individuo”.

Il tema sviluppato ha posto l’accento sulle diverse problematiche che il malato affetto da malattie neurodegenerative vive e come queste si ripercuotono in ambito sociale e sanitario.

Il prof. Adolfo Morganti ha sottolineato che le diversificate condizioni di vita, le diverse realtà economico-sociali, l’apporto medico e quello familiare son sembrano sufficienti, da sole, ad acconsentire al cervello di non invecchiare. Incidono moltissimo la sfera emotiva e psicologica e gli stimoli derivanti dal confronto e dall’interazione con gli altri. Quanto più le stimolazioni sono numerose e coinvolgenti tanto più il cervello resiste ai danni dell’invecchiamento.

La dott.ssa Susanna Guttmann ha focalizzato l’attenzione sulla realtà sanmarinese, sull’importanza che, al di là delle cure mediche, assumono la solidarietà e le iniziative del volontariato.

La dott.ssa Chiara Monaldini ha, infine, affrontato gli aspetti più tecnici e specifici delle patologie che comportano una degenerazione delle cellule nervose; ha sottolineato l’importanza di una diagnosi precoce, poiché la terapia farmacologica è maggiormente efficace se iniziata all’esordio della malattia.

Nel corso degli ultimi quattro anni, in occasione della festa di San Luca, Patrono dei Medici, l’Ufficio Diocesano della Pastorale della Salute ha promosso due diversificate iniziative rispettivamente a San Marino e a Novafeltria: in Repubblica una celebrazione eucaristica nella cappella dell’ospedale per i medici, gli operatori sanitari e i volontari che prestano assistenza agli ammalati; a Novafeltria momenti d’incontro e di riflessione su temi etici, attinenti alla sanità, con il patrocinio dell’Ordine dei Medici della Provincia di Rimini e dell’Associazione Medici Cattolici di Rimini.

Nel 2015 il dr. Massimo Montesi, direttore della Scuola di Etica medica di Rimini e il dr. Antonio Polselli, oncologo riminese, hanno incontrato medici, operatori sanitari e un folto pubblico soffermandosi su “Riflessioni sull’etica di fine vita” con particolare riguardo alle relazioni familiari e a quelle intercorrenti tra medico e paziente. L’anno seguente il dr. Alberto Ravaioli, ex primario dell’oncologia riminese, è partito dall’analisi della parola “misericordia” per trattare l’argomento della “Misericordia nella sofferenza”.

La misericordia è, come dice il Nuovo Testamento, un sentimento generato dalla compassione e spinge l’uomo al soccorso dell’altro in difficoltà, cos. come illustrato nella parabola del Buon Samaritano.

Nel 2017 l’invito ad un nuovo incontro è stato rivolto al dr. Marco Maltoni, direttore dell’Hospice di Forlimpopoli, che ha trattato il tema delle cure palliative, approccio globale alla sofferenza che accompagna situazioni di patologie croniche, inguaribili, evolutive, fino a fasi di terminalità di malattia. Caratteristiche delle cure palliative sono l’attenzione alle dimensioni fisica, psicologica, sociale e spirituale della persona sofferente, mentre l’approccio deve essere multidisciplinare e d’equipe integrato dalle attenzioni in ambito familiare.

Ultimo, in ordine di tempo, l’incontro tenuto quest’anno con il prof. Adolfo Morganti, psicologo e psicoterapeuta, il dr. Cosimo Argentieri, psichiatra e psicoterapeuta ed il dr. Alberto Amadori, neurologo, che hanno parlato, dai rispettivi punti di vista, del “Cervello che si ammala” in riferimento alle malattie neuro-degenerative ed alla depressione.

Per l’anno pastorale in corso, 2018-2019, l’équipe ha deliberato di affrontare la complessa e problematica tematica delle dipendenze e ha scelto come titolo: “DIPENDENZE VECCHIE E NUOVE: la fragilità delle nostre generazioni” soffermandosi in modo più approfondito sulla dipendenza dall’alcool e con una particolare attenzione allo sballo dei giovani il venerdì o il sabato sera.

A cura dell’Equipe per la Pastorale della Salute: Boschetti don Giuliano, Angelini prof. Luciano, Antonczyk don Wladislaw, Bugli dott.ssa Anna, Ceccoli diac. Giovanni, Corsi dott.ssa Marina, Gasperoni Cesare, Marra dr. Giovanni, Muccioli Simona, Raschi prof. Gabriele, Ugolini sr. Norma, Tilio dr. Velio