Archivio per mese: maggio, 2021
Summer school “Prendersi cura della bellezza”
/in I fatti e i giorni, ISSR /da Paola GalvaniL’Istituto Superiore di Scienze Religiose “A. Marvelli” è lieto di invitarVi al primo appuntamento di una speciale Summer School dal titolo
Prendersi cura della bellezza. Percorsi per la valorizzazione del Patrimonio artistico ecclesiale e del turismo religioso. Il percorso prevede l’interazione dinamica di diverse metodologie e modalità formative (seminari di ricerca, laboratori di metodologia, visite guidate in siti di eccellenza, esperienze virtuose e testimonianze, ecc.) incentrate sulla valorizzazione del patrimonio artistico ecclesiale in una prospettiva anche di rilancio del turismo religioso e culturale, dopo le pesanti limitazioni di quest’ultimo anno di pandemia. Desideriamo tornare a prenderci cura dell’arte sacra e della bellezza ma, al contempo, proporre la divina bellezza come cura della persona, bellezza che dona stupore e genera senso.
Il primo appuntamento è programmato per il prossimo fine settimana;
Venerdì 21 Maggio pomeriggio – dalle 15,30 alle 18,30
La riflessione di apertura, dal titolo “La bellezza come cura. Arte, spiritualità e impegno sociale”, è stata affidata a Don Alessio Geretti (parroco di Tolmezzo e studioso del rapporto tra arte ed evangelizzazione, che ha trasformato il paese friulano di Illegio in una sorta di laboratorio permanente di arte sacra contemporanea).
Seguiranno poi dei Laboratori di metodologia su I linguaggi della bellezza. Esperienze di valorizzazione e nuovi orizzonti comunicativi, dedicati ad alcune esperienze operative virtuose presentate da Francesco Ramberti (Kaleidon Rimini) e da Jessica Lavelli (Cooltur Piacenza).
Sabato 22 Maggio (mattino – dalle ore 9 alle 12,30)
Nella mattinata interverrà S. Ec. Mons. Paolo Giulietti (Vescovo della Diocesi di Lucca, presidente del Consorzio Francesco’s Ways) sul tema: Arte, bellezza e pellegrinaggio. Viaggio nei luoghi dell’anima.
Successivamente sono previsti ulteriori approfondimenti su Gli antichi cammini, tra fede, arte e natura, con il contributo di diversi esperti: Monica Valeri (APT Emilia-Romagna); Franco Boarelli (I cammini di Francesco in Emilia Romagna), Sara Baldini (Guida turistica Emilia Romagna, ISSR “A. Marvelli”).
Nel pomeriggio di sabato 22 (a partire dalle 15,30) si svolgeranno delle speciali Visite “Alla riscoperta del Trecento Riminese e delle Chiese monumentali di Rimini” guidate da alcuni docenti del Master (A. Giovanardi e A. Panzetta).
Don Alessio Geretti
è delegato episcopale per la Cultura, direttore dell’Ufficio Diocesano per l’Iniziazione Cristiana e la Catechesi, responsabile della pastorale socio-politica dell’Arcidiocesi di Udine, docente di teologia dogmatica presso lo Studio teologico del Seminario interdiocesano e di iconografia cristiana presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Udine.
Da anni è direttore e curatore del Comitato di San Floriano di Illegio, che ha proposto annuali mostre internazionali d’arte sacra dal 2000 in poi, ad Illegio, a Bruxelles, ai Musei Vaticani e inoltre a Palazzo Venezia, a Castel Sant’Angelo e a Galleria Borghese a Roma. Così Illegio, un piccolo paese di montagna, si è innalzato ad esempio dello sviluppo possibile condiviso dal basso, del rilancio umano e sociale. Numerosi sono stati i riconoscimenti che lo hanno portato ad essere protagonista significativo nel mondo culturale nazionale ed internazionale.
Ec. Mons. Paolo Giulietti
Arcivescovo della Diocesi di Lucca dal 2019, già Direttore del Servizio nazionale per la pastorale giovanile della CEI, coordinatore delle Giornate mondiali della gioventù (del 2002 a Toronto e del 2005 a Colonia) e dell’incontro dei giovani italiani con Benedetto XVI a Loreto nel settembre 2007 (Agorà dei giovani italiani). È presidente del Consorzio Francesco’s Ways che si occupa della promozione del territorio regionale umbro, finalizzata alla commercializzazione di prodotti turistici nell’ambito del pellegrinaggio e del turismo religioso. È promotore dei pellegrinaggi a piedi e grande conoscitore degli itinerari verso le principali mete di spiritualità europee; è anche autore di alcune guide per pellegrini.
È membro della Commissione Episcopale per l’educazione, la scuola e l’università e delegato per i giovani della Conferenza Episcopale Toscana.
Per informazioni più dettagliate sul Programma della Summer Scool visitare il sito www.issrmarvelli.it, oppure rivolgersi alla Segreteria dell’ISSR “A. Marvelli” (Via Covignano 265, 47923 Rimini, tel. 0541-751367, email segreteriacaf@ismarvelli.it ).
Omelia nella Solennità dell’Ascensione
/in Omelie vescovo Andrea /da Paola Galvani#FlashdiVangelo, 16 maggio 2021
At 1,1-11
Sal 46
Ef 4,1-13
Mc 16,15-20
In ogni pagina di Vangelo il protagonista è indiscutibilmente Gesù. Tuttavia, a volte si direbbe che ci sia un altro protagonista, un co-protagonista: nella pagina odierna è il Cielo. Siamo subito avvertiti da due messaggeri, gli angeli, che compaiono sulla scena della Ascensione di Gesù, di non equivocare: quando si parla di Cielo non si intende tanto la dimensione cosmica, spaziale, ma la realtà divina. «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio, il Verbo era Dio… E il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,1.14). Oppure come canta l’antico inno incastonato nella Lettera ai Filippesi: «Lui, che era di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso e divenendo simile agli uomini è apparso in forma umana… » (cfr. Fil 2,6-7). Il Cielo è sceso sulla terra. C’è del Cielo sulla terra, a partire dalla bellezza che ci avvolge. Ora Gesù ritorna al Cielo; dopo aver parlato con i discepoli per l’ultima volta, «sedette alla destra del Padre» (Mc 16,19): espressione di una forte caratura teologica. C’è terra nel Cielo!
C’è un bellissimo midrash, un commento al Salmo 8, dove l’orante, Davide, canta la bellezza del cielo e della natura; descrive le stelle, lo splendore della luna nella notte, gli animali che, nella notte, cercano un riparo e, soprattutto, l’uomo, «fatto poco meno degli angeli» (Sal 8,6). Il commentatore si fa una domanda: «Perché Davide parla di tutte le creature e non nomina la realtà più splendida che c’è, il sole?». Dà questa spiegazione: Davide è stato svegliato nel cuore della notte dalla brezza che accarezza le corde della sua arpa e non ce la fa a resistere, va davanti alla grande finestra del suo palazzo e, accompagnato dal suono dell’arpa, intona questo bellissimo Salmo. Poi, il commentatore conclude in una maniera sorprendente, quasi impertinente: «Se comprate una casa, prendetela con finestre grandi!». È evidente la proposta simbolica: dobbiamo coltivare lo sguardo verso il Cielo, perché siamo fatti per il Cielo; anzi, per il dono del Battesimo e per l’effusione dello Spirito, è certificato che siamo fatti di Cielo. L’etimologia della parola “desiderio” è suggestiva: de-sidera, dove “de” indica la separazione, la distanza, la tensione verso le stelle, “sidera”, come un elastico lanciato verso quella che è la sua origine. Noi veniamo dalle stelle, dal Cielo: «Come in cielo, così in terra». Ecco perché Gesù, oltre che insegnarci questa preghiera perché ci sia Cielo sulla terra come c’è terra nel Cielo in Lui, vuole che evangelizziamo, che facciamo questo racconto del Cielo a tutti, non solo a quelli che vengono in chiesa, o a quelli che sono ben disposti o che sono della nostra opinione… Dobbiamo annunciarlo soprattutto a chi è povero di cuore, a chi è in difficoltà, a chi è ammalato. Poi, guardando noi stessi, possiamo dire: «C’è anche una parte di me che non mi piace, nella quale nascondo quello che mi opprime, quello che tendo ad emarginare, la parte per la quale provo imbarazzo o vergogna». Paradossalmente è proprio lì che si è più ricettivi, più disposti ad accogliere la Parola di vita del Signore. Se facciamo questa operazione, a nostra volta diventiamo capaci di parlare «le lingue nuove» a cui allude Gesù, cioè di incontrare la persona là dov’è, non dove vorremmo che fosse. Annunciate il Vangelo! Ecco dove possiamo incontrare Gesù che ha detto: «Avevo fame, mi avete dato da mangiare; grazie per il bicchiere di acqua fresca che mi hai dato: l’hai dato ad un fratello, è come l’avessi dato a me; che bello che sei qui e mi riconosci nel dono di questo pane spezzato…».
C’è chi ha tentato di trattenere Gesù; penso all’amore prepotente di Maria di Magdala che, riconoscendolo, fa per abbracciarlo e lui si sottrae dicendo: «Non continuare a tenermi stretto così!». Anche gli apostoli sul monte dell’Ascensione volevano quasi fermare Gesù… Gesù adesso è presente in un’altra dimensione. Che bello poterlo riconoscere! «Tutto ciò che fu visibile del Nostro Redentore è passato nei segni sacramentali» (Leone Magno). E il primo segno sacramentale è il fratello che vive accanto a noi: c’è del Cielo sulla terra!
Anno di San Giuseppe
/in I fatti e i giorni /da Paola GalvaniANNO GIUBILARE DI SAN GIUSEPPE
Inaugurazione sabato 1° maggio nella Cattedrale di Pennabilli ore 10
Memoria di San Giuseppe Lavoratore
- Sul mensile “Montefeltro”: ogni mese vi saranno due contributi, una breve meditazione biblica sulla vita di san Giuseppe e il commento di una raffigurazione artistica di san Giuseppe.
- Indulgenze: la Chiesa offre in questo Anno di San Giuseppe la possibilità di lucrare indulgenze in varie circostanze, una ricchezza spirituale a tutti disponibile (le indicazioni sono scaricabili qui).
- Ricerca iconografica: le immagini di san Giuseppe nel territorio della Diocesi sono svariate. Si rivolge un cortese invito ad ogni comunità di riprodurle su supporto informatico da inviare in Centro diocesi (segreteria della Curia) per l’allestimento di una mostra. Data probabile dell’inaugurazione della mostra, 31 luglio, a san Leo, nella vigilia della festa; nel contesto si terrà il lancio di una nuova compilation di canzoni su san Giuseppe composte da padre Elia Cirigliano.
- Camminata del Risveglio al Santuario diocesano della Madonna del Faggio (22 agosto): vi sarà una particolare dedicazione a Giuseppe, “sposo di Maria”.
- Preghiera per la Chiesa e per le vocazioni: su una immaginetta appositamente preparata (vedi fac-simile) verrà pubblicata una preghiera da recitarsi al termine della Messa domenicale per chiedere a san Giuseppe il suo patrocinio sulla Chiesa e la sua intercessione per il dono di vocazioni di speciale consacrazione.
Omelia nella VI domenica di Pasqua
/in Omelie vescovo Andrea /da Paola Galvani#FlashdiVangelo, 9 maggio 2021
At 10,25-27.34-35.44-48
Sal 97
1Gv 4,7-10
Gv 15,9-17
Una pagina di Vangelo sconvolgente… Come si può commentare? Basterebbe leggerla, accoglierla nel cuore e viverla. Tuttavia, proviamo a dire qualcosa.
Questo brano procede con un andamento tipicamente orientale: i periodi si avvitano uno dopo l’altro per temi ricorrenti, ma con un centro, un focus, che è il v. 11, laddove Gesù dice: «Vi do la mia gioia; voglio che la mia gioia in voi sia piena». Non si tratta di euforia psicologica o di chissà quale emozione; non è altro che il riverbero in noi della grazia, del rapporto che Gesù va stabilendo con ciascuno. Mi dispiace quando il cristianesimo viene presentato come qualcosa di triste, mortificante, negativo. Sono necessari anche i predicatori che a volte ci richiamano, ma l’annuncio è sempre un annuncio pasquale, di gioia, come dice papa Francesco: «Gesù è vivo, è vicino e ti salva».
Questi temi Gesù li aveva già anticipati nei versetti precedenti, adoperando la metafora dell’agricoltore, della vite, dei tralci, della potatura… Questa volta l’allegoria prende la forma dei rapporti interpersonali: l’amore, l’amicizia. È molto bello che, per parlare del mistero di Dio Trinità d’amore, il Signore adoperi questo linguaggio umanissimo. Gesù ci presenta l’esemplarità del suo rapporto con il Padre. Il Verbo è totalmente ascolto, in relazione col Padre, si fa “vuoto” perché il Padre possa autocomunicarsi a lui. Il comandamento a cui allude Gesù non è altro che questo, cioè l’essere per, un’apertura infinita, smisurata, divina appunto. Ebbene, Gesù dice che siamo stati pensati, voluti, creati, perché a nostra volta possiamo vivere questa relazione con lui. Poi aggiunge: «Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi». Ci si aspetterebbe che Gesù dicesse: «Come io ho amato voi, voi amate me». Invece è: «Amatevi tra voi…».
Gesù pronunciò il discorso che stiamo leggendo la serata dell’Ultima Cena: parole importantissime, come un testamento, come le ultime parole che si pronunciano quando si sta per partire e si danno le ultime raccomandazioni. Pensate, ad esempio, a quando si parte per un viaggio internazionale e si entra all’aeroporto; dopo aver fatto il check-in si è dall’altra parte della frontiera e si rivolge l’ultimo saluto. Così queste parole di Gesù sono preziosissime. Dovremmo ascoltarle come le ha ascoltate l’evangelista che ce le ha riferite: Giovanni appoggiava il suo volto sul petto di Gesù. È da quella postazione che vogliamo gustare quelle parole.
Un’altra sottolineatura. Gesù adopera più volte in questo brano la parola “come”: «Come il Padre ama me, così voi…; come io amo voi, così…». Quel “come” non indica una quantità – noi non possiamo amare come ama Gesù, non abbiamo le sue viscere di amore – ma la qualità del nostro amore. Dimorare in Lui significa fare nostro questo stile.
Riferisco un passaggio di una lettera che mi ha scritto una ragazza che ha avuto molti sbandamenti e travagli nella sua vita, una ragazza in cerca di senso. Ad un certo punto mi dice: «Dove lo trovo Dio? Non riesco a vederlo nella persona che parla con me, non lo vedo in una chiesa vuota… E parlo con Lui, urlo verso di Lui e gli dico: “Sono qui, guardami, ci sono anch’io… Tu dove sei?’”». Parole che fanno riflettere. Ci sarebbe da augurarsi che quella ragazza possa incontrare una persona che sappia amarla senza pretese, in modo disinteressato, senza giudicarla… Questo non sempre può accadere. Tuttavia, ci sono nelle nostre giornate dei gesti, dei segni, delle suggestioni, ad esempio alla lettura di un libro o persino quando si guarda un film, che fanno percepire che tu ci sei in quell’amore di Dio; allora capisci che non è qualcosa che si merita, che si conquista, che si guadagna, ma qualcosa nel quale ti ci trovi: rimanere in questo amore.
Ho saputo di un collega che ha iniziato un’omelia nelle carceri, rivolgendosi alle detenute presenti con queste parole: «Voi siete qui perché Dio vi ama». Una frase che sorprende… Lui intendeva dire: «Siete qui perché vi ha punito la giustizia umana, ma, nella vostra condizione di sofferenza, di disperazione, il Signore vi incontra». Anche noi dobbiamo avere questa capacità di essere accanto all’altro nel momento della sua difficoltà. Chi può dire di amare così? Il Vangelo si conclude con questo invito: «Se rimanete in me, potete chiedere tutto quello che volete e il Padre ve lo concederà». Chiediamogli allora di saper amare così. È la preghiera che faremo questa settimana: «Signore, fa’ che sappiamo amare con lo stile, con la qualità del tuo amore».
Dogana (RSM), 9 maggio 2021
At 10,25-27.34-35.44-48
Sal 97
1Gv 4,7-10
Gv 15,9-17
Sapete qual è uno dei punti critici della Chiesa di oggi?
Ci troviamo ad essere cristiani senza mai aver deciso di esserlo. Non sempre la consapevolezza di essere cristiani è chiara dentro di noi ed è frutto di una scelta personale.
Il sacramento della Confermazione è l’occasione per dire con forza: «Voglio essere cristiano».
Inizierò il rito della Santa Cresima con domande a cui ognuno, personalmente, deve rispondere. Chiederò di rinunciare a Satana e alle sue opere e poi chiederò se credete nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo.
A volte qualche genitore o qualche collega sacerdote pensa che pochi capiscano veramente cosa stanno facendo, cosa significhi, in realtà, la Cresima. Gesù, durante l’Ultima cena, ha iniziato a lavare i piedi agli apostoli. Pietro si è sottratto dicendo: «Signore, non sono degno che tu lavi i piedi a me, non lo voglio». Gesù ha risposto: «Pietro, tu adesso non sai quello che sto facendo, lo capirai…». Come un rotolo che viene disteso, adesso ci viene fatto un dono straordinario: lo capiremo vivendo. Stendo le mani su questi ragazzi, insieme a don Raymond, un gesto antico, che erano soliti compiere i primi cristiani. È un gesto simbolico con cui si chiede allo Spirito di Gesù di scendere su loro. Poi, cari ragazzi, compio su voi un gesto che considero come un bacio: il Signore Gesù, baciandovi sulla fronte, vi comunica il suo Spirito d’amore. Ungerò la vostra fronte con un olio profumato e parlerò di un sigillo. Se parlassi con un linguaggio moderno potrei quasi dire che è un segno che si imprime in voi come un tatuaggio, che non si può più rimuovere: anche se il sigillo della Santa Cresima è invisibile rimane per sempre. Si può contare sempre sulla presenza dello Spirito di Gesù. Lo Spirito, invisibile ma presente, dà la forza di Gesù, l’amore di Gesù. Domani mattina, quando vi sveglierete, pensate a questo bacio che Gesù ha impresso sulla vostra fronte. Il bacio è la cosa più muta che ci sia, come lo Spirito Santo che non si vede, non si tocca, non si abbraccia, ma nello stesso tempo è anche la cosa più eloquente. Quando dai un bacio autentico ad una persona, gli stai dicendo che gli dai la tua anima, che lei è vita della tua vita.
Infine, il Vescovo dovrebbe dare un piccolo schiaffo – in realtà è una carezza – che sta a significare: «Caro ragazzo/a, adesso tocca a te! Devi esprimere con la tua vita quello che hai dichiarato di voler essere».
Sansone è un personaggio della Bibbia, un uomo forte e gigantesco che, volendo dare il colpo definitivo ai Filistei, i nemici che avevano sempre tormentato gli Ebrei, catturò delle lepri e le mise in un serraglio. Alla coda di ogni lepre legò una torcia a cui diede fuoco. Le lepri, spalancato il serraglio, corsero nei campi di grano e di orzo dei Filistei, incendiandoli. Così i Filistei furono sconfitti da Sansone. In un certo senso, oggi Dogana ha delle lepri che porteranno un incendio compiendo atti concreti di amore (non si vuole bene con il pensiero, ma con delle decisioni). Dico a voi, ragazzi: potete cominciare già da adesso. Mi state ascoltando: è già un atto di amore. Dopo andrete a casa e sarete festeggiati: lasciatevi amare, parlate con i nonni e gli zii, anziché mettervi subito a giocare con il cellulare. Anche questo è amore. Ed è quello che propone Gesù: Dio è amore, non è uno spirito solitario che vive in una noia eterna. Dio è la danza di tre Persone che nominiamo nel Segno della croce: il Padre, quando sfioriamo la fronte, il Figlio quando ci fermiamo con la mano sul cuore, lo Spirito Santo quando tocchiamo le spalle. Un unico Dio in tre Persone. Abbiamo dovuto smentire il politeismo di altre religioni, ma, insistendo molto sul monoteismo, abbiamo dimenticato che Dio è Trinità di Persone, di amore. Ad un certo punto, questo circuito d’amore si apre e veniamo chiamati a far parte di questa Trinità d’amore.
Gesù ci dà il suo “comandamento”. A volte facciamo molta confusione tra comandamenti, precetti… Anche gli Ebrei avevano ricevuto i comandamenti (mitzvot) e li avevano specificati così minuziosamente che erano diventati 613. Tutta la giornata era sotto la legge. I precetti erano come un campanello che ricordava che tutto quello che facevano era sotto il segno di quell’amore. Il primo comandamento (tutti gli altri non erano altro che conseguenze) è: «Ricordati che ti ho voluto bene, che ti ho liberato dalla schiavitù dell’Egitto, che ho fatto alleanza con te, che ti amo immensamente». Gli Ebrei ebbero questa grande intuizione: mettere sotto il segno dell’amore tutta la giornata, ogni azione: prima di alzarsi, prima di mangiare, prima di lavorare…
Gesù, per rispondere all’equivoco che fa diventare farisei, ipocriti, ci ha detto che non vi sono 613 precetti, ve n’è uno solo. Sant’Agostino diceva: «Ama e fa’ ciò che vuoi». È il comandamento dell’amore. «Chiedete nel mio nome quello che desiderate di più»: il nostro cuore non desidera altro che amare, perché siamo stati pensati e costruiti così. Ecco perché viene la gioia.
Ho avuto la fortuna di fare il postulatore della causa per un sacerdote santo, don Dario Porta. Ora la causa è arrivata a Roma. Avrei tanti episodi da raccontare. La sua vita è stata scoppiettante di gioia. I santi sono le persone più felici di questo mondo. Ho avuto la fortuna di incontrare di persona madre Teresa. Era l’ultimo anno della sua vita; camminava curva e il suo volto era solcato di rughe, ma aveva uno sguardo che nessun influencer di oggi saprebbe battere. Era diventata amore.
Sia lodato Gesù Cristo.
Omelia nella V domenica di Pasqua
/in Omelie vescovo Andrea /da Paola Galvani#FlashdiVangelo, 2 maggio 2021
At 9,26-31
Sal 21
1Gv 3,18-24
Gv 15,1-8
«Rimanete in me e io in voi». Tempo fa ho saputo di un ragazzo di buona famiglia che ha combinato dei guai e si è trovato in carcere. Oltre al dispiacere per sé, soffriva molto per aver disonorato la sua famiglia. Ha pianto, ha chiesto perdono e di tanto in tanto scriveva ai famigliari chiedendo: «Mandatemi un segno che mi avete perdonato». Una volta arrivò una lettera. La aprì. Era molto emozionato. Vide che dentro c’era una fotografia di famiglia e si accorse che da essa era stata ritagliata la sua immagine… Quel ragazzo, in seguito, ha avuto molti problemi per il senso di abbandono che provava. Dio non elimina nessuno dal suo cuore. Siamo scritti sul palmo della sua mano, come dice il profeta Isaia (cfr. Is 49,16). Siamo parte di lui e tutto quello che siamo viene da lui, da quella linfa vitale che da lui fluisce dentro di noi, come tralci di una vite.
Mi indispettisco, talvolta, perché mi sembra di non farmi capire quando parlo della bellezza di essere tralci uniti alla vite che è il Signore Gesù. Ad esempio, parlo di vita di fede e si capisce “pratica religiosa”, oppure insisto nel dire “dimensione spirituale” e si capisce qualcosa che cava fuori dal tempo, dallo spazio, dalla vita normale di tutti i giorni; oppure parlo di portare frutti buoni e subito si pensa alla morale. Invece, vorrei far capire di più questo dono che chiamiamo grazia, grazia perché non è merito nostro. Gesù sottolinea: «Senza di me non potete far nulla». È lui che ci porta. In un’altra parabola il Signore dirà: «Che dorma o che vegli il seme cresce da sé, per la forza che ha dentro» (cfr. Mc 4,27): stando all’allegoria della vite, per la linfa che scorre nelle radici e nel tronco. La grazia è un dono straordinario che ci fa persuasi che siamo davvero figli, ma non per modo di dire, perché siamo creature: abbiamo veramente contratto una figliolanza. Gesù è fratello. Lo Spirito vive in noi. Tutto quello che facciamo, in qualche modo, è come se fosse fatto dal Signore. Solo una cosa può toglierci da questa dinamica di vita: il peccato. Ma, proprio perché il Signore non cancella il nostro volto, abbiamo sempre la possibilità di ricominciare. Mi piace molto, in questa allegoria, l’immagine di un Dio contadino che lascia da parte il suo scettro e prende in mano la zappa per farmi crescere. Non sta sul trono, ma si siede sul prato e guarda la sua vite, i suoi tralci, con fierezza. Mi piace pensare che in Gesù quel vignaiolo si è fatto vite, è una cosa sola con me. Allora penso che non devo aver paura di lui, anzi devo essere fiero: lui crede in me.
La potatura non è amputazione. Si pota per purificare, si pota per rafforzare. Il Risorto sogna che la sua vite si espanda sul mondo intero, lo abbracci intero e vuole che ogni tralcio porti dei segni di amicizia, di condivisione, di giustizia.
Racconto un episodio semplice, come è gran parte delle nostre giornate, ma vale soprattutto per le decisioni più importanti. Ieri una persona mi ha accompagnato in auto a Novafeltria. Arrivati ad un semaforo, ho visto che quella persona ha frenato ed è andata un po’ in dietro. Mi sono lamentato perché avevo molta fretta. Aveva visto un’auto che stava per immettersi sulla via principale e ha pensato di fargli posto, visto che c’era una lunga fila al semaforo. Il guidatore, quando ha capito che gli era stato ceduto il posto, si è illuminato. Avrà pensato che la sua giornata era cominciata bene… Tanto buonumore è stato liberato da un semplice atto di amore. Se restiamo in Gesù, se restiamo innestati come tralci nella vite, faremo tantissime esperienze di questo tipo. «Rimanete in me»: dobbiamo proporci di rimanere nella sua Parola, ascoltarla, maturarla dentro. «Io in te, Gesù, tu in me»: una cosa sola.
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Perticara (RN), 2 maggio 2021
At 9,26-31
Sal 21
1Gv 3,18-24
Gv 15,1-8
S. Cresime
Una di voi, Martina, ha letto una pagina molto appropriata sulla Cresima: c’è la storia del vostro cammino fino a questo giorno, grazie al vostro parroco e grazie alle vostre catechiste; poi c’è il vostro presente, con quello che accadrà fra poco: lo Spirito Santo scenderà su di voi e imprimerà il suo sigillo (oggi si direbbe il suo tatuaggio!), un segno indelebile e invisibile, ma che tocca e rimane nella struttura profonda della vostra persona.
Ammaestrato dagli antichi Padri della Chiesa preferisco parlare di un “bacio”, perché un bacio dice tutto, più di una enciclopedia: dice l’amore di Dio per ciascuno di noi. Del resto, lo Spirito non è raffigurabile se non attraverso delle metafore o delle allegorie. Un bacio è muto: quando baci non puoi parlare; nello stesso tempo il bacio è eloquentissimo, perché con esso dici: «Tu sei vita della mia vita, respiro del mio respiro».
Oggi il Signore Gesù, presente risorto in mezzo a noi, vi dona il suo Spirito. E lo Spirito effonde su di voi i suoi sette doni, ma, in realtà, si tratta di un unico dono con sette diverse sfumature. Come avete giustamente raffigurato voi, l’unica fiamma, l’unico amore, ha sette riverberi diversi. L’amore è sapienza in senso etimologico, cioè è ciò che dà sapore, gusto al nostro vivere. Quando facciamo le cose per amore, anche le più ardue, oppure quelle noiose e ripetitive, sono riscattate. L’amore riscatta fatica, noia, stanchezza, frustrazione, dà sapore. Il dono dell’intelletto è l’amore che va in profondità, che non si ferma a quello che appare esternamente. Il dono del consiglio è l’amore che sa scegliere quello che è più giusto, più utile, più necessario. Il dono della scienza è l’amore che sorregge nella fatica di imparare, che rende curiosi di sapere. Il dono della fortezza è l’amore che sa resistere, che va all’attacco con una sana e giusta aggressività, intraprendenza, coraggio davanti alle difficoltà, e che è anche pazienza. Il dono della pietà è l’amore che sa manifestarsi. L’evangelista Giovanni, nella Seconda Lettura invita ad amare non «a parole, ma con i fatti», potremmo dire “con i muscoli”, compiendo cose concrete. Un esempio. Ieri una persona mi ha accompagnato in auto a Novafeltria. Avevo molta fretta e c’era una fila infinita ad un semaforo. Questa persona, dopo avere frenato dietro le altre auto, ha inserito la retromarcia ed è andata indietro… Lì per lì mi sono lamentato perché temevo di perdere tempo. Non mi ero accorto che aveva visto un’auto che stava salendo da una strada laterale e si è preoccupata che, a causa della lunga coda di automobili, non riuscisse ad immettersi nella strada principale. L’autista dell’auto che saliva dalla strada laterale, quando ha capito che gli era stato ceduto il posto, si è illuminato. Avrà pensato che la sua giornata era cominciata bene… È stato un atto d’amore. Dunque, la pietà è l’amore che si manifesta concretamente. Infine, c’è il dono del timor di Dio, che non è la paura di Dio, ma l’amore che non vuole perdere l’Amato.
A proposito di amore e di Amato, riprendo il brano di Vangelo proclamato poco fa. Si tratta di un’altra allegoria che Gesù adopera per dire chi è Lui. Domenica scorsa ci aveva detto che è il Pastore vero, ora dice: «Io sono la vite, voi i tralci». Gesù dice questa allegoria durante l’Ultima Cena, quando sta per congedarsi dai suoi discepoli. Dunque, sono parole da ascoltare profondamente, come le ha ascoltate colui che ha reclinato la sua guancia sul cuore di Gesù, l’evangelista Giovanni, il più giovane del gruppo. Da quella postazione speciale ha sentito queste parole: «Rimanete in me». Nella pericope evangelica, appena otto righe, per sette volte incontriamo il verbo rimanere. Di lì a poco Gesù sarà abbandonato da tutti, persino da Pietro che gli aveva detto: «Ti seguirò dovunque tu vada…» (Lc 9,57). E Gesù: «Quando il gallo avrà cantato due volte, mi avrai già rinnegato tre volte». È stato così.
«Rimanete in me». Rimanere, dimorare, indica dove si può restare e “fare casa” con una persona. Già all’inizio del Vangelo due dei discepoli avevano chiesto: «Dove abiti? Dove dimori?» (cfr. Gv 1,38). Come dire: «Dove vai a dormire?». «Rimanete in me, come tralci uniti alla vite». È la linfa che unisce il tralcio alla vite. La linfa, che non è frutto del tralcio, è puro dono: è la grazia. Essere nella grazia significa essere nell’amore, nella linfa; essere una cosa sola con il Signore. Da notare: il tralcio da solo non può far frutti, ma neppure la vite. La vite ha bisogno dei tralci! Sembra che il Signore dica che ha bisogno di ognuno di noi, vuole che siamo tutt’uno con lui, che dentro di noi accada l’alchimia che trasforma la linfa in frutti. Il Signore vuol dirci: «Ho creato un mondo e vorrei che fosse nell’armonia e nello splendore». Si completerà nel cielo, ma fin da adesso deve essere «in terra come in cielo». Il Signore dice a ciascuno: «Tralcio, porta frutti! Ho bisogno di te. Trasforma il dono che ho messo nel tuo cuore in possibilità di altra vite». Il Signore vorrebbe che la sua vigna abbracciasse il mondo intero.
Cari ragazzi, quand’ero bambino volevo fare il missionario perché ero cresciuto con questa idea: Gesù doveva essere conosciuto da tutti. A quel tempo si parlava molto della Cina come continente promettente di una nuova fioritura di cristiani. Facevo per loro tanti piccoli sacrifici. Ero felice quando ero in grazia di Dio. Qualche volta venivo sorpreso dal pensiero: «Sono un tralcio di Gesù!». Ricordo che di tanto in tanto ero sorpreso da questo pensiero: quello che sto facendo è come se lo facesse Gesù. E se qualche volta accadeva di fare un peccato, ero triste. Allora andavo da Gesù e tornava la gioia.
Vi auguro di essere sempre luminosi come oggi, pieni della linfa del Signore, perché portiate frutto. Anche un bicchier d’acqua offerto per amore davanti a Dio diventa una cosa grande. «Voglio rimanere in te, Gesù. Tu in me e io in te». Così sia.
Omelia nella Festa patronale di San Giuseppe Lavoratore
/in Omelie vescovo Andrea /da Paola GalvaniGualdicciolo (RSM), 1° maggio 2021
At 9,26-31
Sal 21
1Gv 3,18-24
Gv 15,1-8
Oggi in Cattedrale a Pennabilli è stato aperto l’Anno giubilare di San Giuseppe, sposo di Maria, padre legale (putativo) di Gesù e si è dato inizio al “mese di maggio” dedicato alla Madonna con una grande supplica per la fine della pandemia, secondo l’indicazione di papa Francesco: trenta Santuari sono coinvolti nella staffetta di preghiera che si concluderà il 31 maggio nei giardini vaticani. Oggi si apre a Roma, in San Pietro, con sessanta giovani (uno di loro è di San Marino!).
Nel 1955 papa Pio XII istituiva la memoria liturgica di San Giuseppe Lavoratore per testimoniare l’importanza del lavoro nella visione cristiana.
Oggi non si può celebrare la memoria di san Giuseppe Lavoratore senza tornare alle parole di papa Francesco nella Lettera Apostolica Patris Corde, a lui dedicata. Il lavoro di san Giuseppe «ci ricorda che Dio stesso, fatto uomo, non ha disdegnato di lavorare. La perdita del lavoro, che colpisce tanti fratelli e sorelle e che aumenta negli ultimi tempi a causa della pandemia dev’essere un richiamo a rivedere le nostre priorità» (PC 6).
Un carisma, quello di san Giuseppe, che si riassume nella capacità di essere “custode” di un tesoro prezioso, perché – spiega ancora il Papa – egli ci insegna che il lavoro è «partecipazione all’opera stessa della salvezza, occasione per affrettare l’avvento del Regno, sviluppare le proprie potenzialità e qualità, mettendole al servizio della società e della comunione».
È la seconda volta che celebriamo la festa di san Giuseppe Lavoratore in pandemia. La sofferenza si è fatta più forte; dall’inizio dell’emergenza, in Italia ci sono 900mila occupati in meno. E, se anche ci dicono vi siano timidi segnali di ripresa (a marzo), la disoccupazione giovanile tocca il 33%. Anche i Vescovi – nel loro Messaggio – denunciano la preoccupazione per le disuguaglianze e chiedono di abitare una nuova stagione economico-sociale. «Nel mondo del lavoro si sono aggravate le disuguaglianze esistenti e create nuove povertà».
Perché lavoriamo? Molti possono rispondere dicendo che si lavora per portare il pane a casa. Verissimo. Ma forse lo scopo più vero e più profondo del lavoro dovrebbe essere quello di trovare il modo di esprimere noi stessi. Nel lavoro ci si percepisce utili e significativi. La mancanza di lavoro, invece, è come un’amputazione alla dignità della persona. Molte volte la mancanza di lavoro getta nella più profonda depressione.
San Giuseppe è conosciuto come un lavoratore, un artigiano. Gesù sarà chiamato «il figlio del falegname» (Mt 13,55). È certo che san Giuseppe avrà insegnato il suo mestiere anche a Gesù. Il Figlio di Dio ha lavorato come ogni uomo al mondo. Ma anche chi ha un lavoro non è detto che lo viva come qualcosa che lo renda felice e lo gratifichi. Infatti, a volte si fanno lavori che non vorremmo fare e li facciamo solo per necessità. Così il lavoro non è più il luogo dove io esprimo me stesso, ma è il luogo dove accumulo frustrazioni. Tutto questo, però, può essere capovolto attraverso una conversione dello sguardo: il lavoro ci gratifica e ci santifica non solo quando ci aiuta ad esprimerci, ma quando lo facciamo “per amore”! Allora anche la cosa più noiosa o stancante diventa bella, quando sai che la stai facendo “per amore” di chi ami. San Giuseppe è illuminante per questa logica del “fare per amore”.
Quanta luce, quanta ispirazione ci viene dalla meditazione sul Vangelo che abbiamo appena ascoltato. Gesù ci propone una nuova allegoria. Viene presa dal mondo del lavoro agricolo: la vite, i tralci, la potatura, il contadino… Gesù segnala la necessità di «portare frutto». Voi direte “frutti spirituali”… E non sono frutti spirituali il bene che si fa per la propria famiglia e il proprio Paese? E praticare un lavoro ed una professione in modo onesto non è testimonianza? Ed essere in grazia di Dio non è – per il lavoro che svolgiamo un produrre come se Gesù operasse per mezzo nostro? Noi in lui e lui in noi, uniti insieme, portiamo frutti di santità. Tutto quello che un discepolo fa unito a Gesù acquista un valore aggiunto. Si tratta di un valore di santificazione, di redenzione, di costruzione del Regno di Dio.
Conseguenza: anche il lavoro più semplice e più nascosto non perde in preziosità; anche la sofferenza per il non-lavoro (malattia o condizione di anzianità) è, in qualche modo, “lavoro”: inazione, ma lavoro interiore di santificazione. E c’è il lavoro verso la nostra crescita umano-cristiana, il lavoro-preghiera e la preghiera-lavoro.
Solo il peccato ci stacca dalla vite: allora la linfa non arriva a noi, allora il tralcio – che siamo noi – non produce frutti soprannaturali di grazia.
«Senza di me non potete far nulla!». E quello che facciamo senza di lui (il nostro attivismo) è soltanto paglia!
In questo è glorificato il Padre: che siamo discepoli di Gesù e che portiamo frutto.
Omelia nella celebrazione del 1° Maggio
/in Omelie vescovo Andrea /da Paola GalvaniPennabilli (RN), Cattedrale, 1° maggio 2021
Gen 1,26-2,3
Sal 89
Mt 13,54-58
1.
Motivi di preghiera in questo 1 maggio: apertura solenne diocesana dell’Anno giubilare dedicato a san Giuseppe, sposo di Maria, padre legale (putativo) di Gesù; ricordo grato, e per altri versi preoccupato, del mondo del Lavoro, con la presenza di una rappresentanza di lavoratori della Val Marecchia; inizio del “mese di maggio” dedicato alla Madonna con una grande supplica per la fine della pandemia, secondo l’indicazione di papa Francesco: una staffetta di preghiera per ogni giorno di maggio, da un capo all’altro del mondo, da un Santuario mariano all’altro. A questi motivi di preghiera ognuno aggiunge i suoi personali, con la certezza che il Signore ci ascolta e ci esaudisce come ritiene sia meglio, certezza accompagnata dal desiderio di una vita più santa, a partire da oggi (“fare bene il mese di maggio”). Facciamo tesoro della grazia che ci è data e delle ispirazioni al bene che sorgono in noi.
2.
Nella odierna liturgia ci è dato di rileggere alcune battute della grande sinfonia della creazione. La Parola potente di Dio «chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono», mette ordine nella creazione e introduce in essa pace e armonia, luce e bontà. Fa sorgere gli esseri. Fa vivere. Questa è la sua vittoria! Dio è il creatore del mondo e il Signore della storia. Così ce lo presenta la fede cristiana. Allora tutta la creazione è buona, perché è fatta da Dio. Ed è buona perché Dio ama le sue creature, vuole la vita e non la distruzione. Tutti siamo partecipi della sua bontà.
3.
Il Signore affida all’uomo la creazione, lasciandogli il compito di portarla a compimento. L’uomo è il re del creato. Ma l’uomo deve fare il re nel modo di Dio, non secondo il suo capriccio.
Il passo che narra la creazione dell’uomo ha un carattere di profondo ottimismo. L’uomo è immagine di Dio: c’è un abisso tra l’uomo e il resto del creato. L’uomo è capace di conoscere e di amare; sa che Dio gli parla ed è in grado di rispondere. Questa è la sua dignità. Questa è la sua responsabilità.
L’uomo domina la creazione: ciò dimostra la sua superiorità. «Credenti e non credenti – afferma il Concilio Vaticano II nella Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (GS 12) – sono concordi nel ritenere che tutto quanto esiste sulla terra deve essere riferito all’uomo come a suo centro e a suo vertice».
Lo sviluppo della scienza, la conquista dello spazio, i progressi della tecnica possono e debbono essere una risposta all’invito del Creatore.
4.
Notate: ad un certo punto Dio sembra sospendere il ritmo vertiginoso della creazione. L’autore della Genesi introduce un misterioso dialogo, facendoci assistere ad una deliberazione e ad una solenne decisione di Dio: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gen 1,26). Questo plurale, interpretato in vari modi, sembra alludere ad un misterioso dialogo. La dignità dell’uomo è grande e grande la sua responsabilità: come Dio, l’uomo ama, conosce, domina. Ma di fronte a Dio dovrà rispondere di queste sue facoltà.
5.
Caliamo questi pensieri nell’attualità. Oggi assistiamo a modelli socio-economici che contrappongono sviluppo da una parte e sostenibilità dall’altra; si vuole lo sviluppo a tutti i costi, passando sopra al rispetto dovuto all’ambiente, alla salute, ecc. Così pure la dimensione globale, governata da grandi poteri, va contro l’autonomia locale delle persone che responsabilizza. È nostro compito riaffermare la dignità dell’uomo nella sua interezza, con il suo diritto alla salute, al lavoro e alla tutela del creato.
Si terrà nell’ottobre prossimo, a Taranto, la 49a Settimana Sociale dei Cattolici Italiani. In questo grande convegno – a cui parteciperà anche una delegazione della nostra Diocesi – si intende dare un contributo concreto per sostenere ed orientare un nuovo modello di sviluppo capace di ridefinire il rapporto fra economia ed ecosistema, ambiente e lavoro, vita personale ed organizzazione sociale.
Come dicevo, l’uomo è re del creato, ma non alla maniera del despota: usa della natura e dell’ambiente, ma non ne abusa. Tutto orienta al bene comune. Dopo questi mesi di pandemia ci siamo persuasi ulteriormente di come tutto sia connesso. Ora dobbiamo prenderci cura di un grande ammalato: il nostro pianeta.
6.
Il Vangelo riporta questo interrogativo dei nazaretani. «Non è costui il figlio del falegname?» (Mt 13,55). È certo che Giuseppe avrà insegnato il mestiere di falegname anche a Gesù. Il Figlio di Dio ha lavorato come ogni uomo al mondo.
Perché lavoriamo? Molti possono rispondere dicendo che si lavora per portare il pane a casa. Verissimo. Ma forse lo scopo più vero e più profondo del lavoro dovrebbe essere quello di darci l’occasione di esprimere noi stessi. L’uomo è un “piccolo creatore”. La mancanza del lavoro è come un’amputazione alla dignità della persona. Nel lavoro ci si percepisce utili e significativi. Si porta un piccolo contributo, ma importante. La mancanza di lavoro getta nella più profonda depressione. In questo senso, il tema del lavoro ha a che fare con la fede e con la santità.
7.
Ma anche chi un lavoro ce l’ha non è detto che lo viva sempre come qualcosa che lo renda felice, che lo realizzi. A volte facciamo lavori che non vorremmo fare, non ci piacciono del tutto e li facciamo solo per necessità. Così il lavoro non è più il luogo dove io esprimo me stesso, ma dove accumulo anche frustrazioni, fatiche, malumori. Tutto questo può essere capovolto attraverso una conversione dello sguardo: fare per amore! Per il pane, per la mia autorealizzazione, per il mio posto nella società, ma alla fine si lavora per amore, per amore di qualcuno. La vera domanda è se abbiamo capito che dovremmo trovare un motivo “per cui” lavorare, per cui fare le cose.
San Giuseppe è illuminante per questa logica del “per amore”!