Omelia I domenica di Quaresima

Dogana (RSM), 5 marzo 2017

Gen 2,7-9; 3,1-7
Sal 50
Rm 5,12-19
Mt 4,1-11

(da registrazione)

«Come per la disobbedienza di un solo uomo [Adamo] tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo [Gesù] tutti saranno costituiti giusti» (Rm 5,19).
Cari amici,
Gesù, facendosi uno con noi, ha vissuto la tentazione. E noi, facendoci uno con lui, possiamo vincere.
Qualche giorno fa abbiamo celebrato la nostra fragilità quando, durante la Messa di ingresso nel Tempo Quaresimale, il sacerdote ha cosparso il nostro capo di polvere dicendo: «Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai» (cfr. Gn 3,19).
Oggi abbiamo udito che «il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo» (Gn 2,7). Ecco il cammino quaresimale: se ci affidiamo alle abili mani dell’artista – il Signore – egli dalla nostra polvere saprà modellare un uomo nuovo. La Scrittura aggiunge: «Soffiò nelle sue narici lo spirito di vita». La nostra debolezza, con cui facciamo i conti tutti i giorni, può diventare la nostra forza grazie al soffio della grazia. La fragilità può diventare opportunità, perché in Gesù nasce, si sviluppa, cresce l’umanità nuova a cui siamo chiamati.
Stanno davanti a noi due cammini molto simili, quasi paralleli, ma con esiti diversi: il cammino di Adamo e il cammino di Gesù. Il cammino di Adamo lo porta progressivamente a rifiutare l’obbedienza filiale al Signore per ascoltare una voce suadente, subdola, che insinua il sospetto che la fede voglia mantenerlo in uno stato infantile e così lo spinge a diventare adulto sbarazzandosi di Dio e inseguendo i suoi deliri di onnipotenza.
Gesù, tentato come Adamo, non cede, si lascia progressivamente guidare dallo Spirito e plasmare dalla Parola del Padre fino al punto da smascherare la trappola e resistere alla seduzione uscendone vincitore.
Come sarà la nostra Quaresima? Che cosa ci siamo proposti?
Entriamo nella comprensione del cammino di Adamo e del cammino di Cristo. Su che cosa il diavolo sferra il suo attacco?
Il primo è l’attacco all’immagine che l’uomo ha di sé. La Genesi ci descrive Adamo, seppure con rapidissime pennellate, come uomo di intensa vita culturale e religiosa: egli esprime la sua capacità di impresa nel giardino a lui affidato, dà il nome alle cose e agli animali in segno di dominio, progetta insieme ad Eva, dialoga con Dio, ma il tentatore cerca di porgli innanzi solo l’esigenza del cibo. Fa così con Adamo e fa così con Gesù: «Trasforma questi sassi in pani… Perché – sembra insinuare Satana – i bisogni spirituali non sono così importanti». Tu hai bisogno di saziare i desideri che contano: oggi il desiderio di pane, domani il desiderio di piaceri, di denaro, di gioco…». Il tentatore cerca di ridurre l’uomo alla somma dei suoi bisogni, vuole ridurlo a consumatore.
Il secondo attacco a cui sono stati sottoposti Adamo e Gesù è l’attacco all’immagine di Dio. Di per sé il rapporto con Dio è un rapporto gioioso, fiducioso, dialogante, ma il diavolo vuol mostrare un Dio che non si prende cura di noi, un Dio che non vede e non sente la nostra solitudine. Quante volte anche noi veniamo assaliti da questa tentazione e pensiamo: «Signore, non vedi, non t’importa?». Invece siamo nelle sue mani, nel suo orizzonte, e ogni prova da affrontare va letta come un’opportunità.
Il terzo attacco è l’attacco all’immagine del prossimo. Adamo e Cristo hanno una relazione con gli altri improntata al rispetto, alla gratuità, al servizio. Satana chiede loro di non essere ingenui; chiede di osservare “i regni della terra con la loro potenza”, di pensare a quanto il prossimo gli può rendere. Il tentatore presenta il prossimo non come un fratello da amare, ma come una realtà da dominare, uno schiavo da usare.
In Adamo siamo tentati e provati, in Gesù abbiamo vinto, per questo noi lo seguiamo e durante la Quaresima affrontiamo anche il buon combattimento (2Tm 4,7).
Suggerisco per la meditazione un’opera spirituale scritta da Santa Caterina Vegri (1413-1463), di cui ricorrerà la festa tra qualche giorno. Caterina era una fanciulla cresciuta alla corte degli Estensi. Un giorno abbandonò tutto e intraprese il cammino di Francesco e Chiara fra le Sorelle Povere, le Clarisse, nel monastero del Corpus Domini a Ferrara prima e poi a Bologna. Caterina, maestra spirituale, in una breve opera ascetica e mistica, suggerì sette armi spirituali per vincere la battaglia. Le elenco brevemente: la diligenza (cura delle cose spirituali); la diffidenza di sé (coscienza della propria fragilità e difesa dai pericoli); la confidenza in Dio (Gesù ha detto «senza di me non potete fare nulla», Gv 15,8); la memoria della propria morte (come vorremmo essere trovati nel momento decisivo della nostra vita?); avere davanti agli occhi del cuore la memoria dell’Agnello che arriva fino al dono di sé; la memoria del Paradiso («è tanto il bene che m’aspetto che ogni pena mi è diletto»); l’arma totale, quella usata da Gesù: la Parola di Dio che fa indietreggiare il nemico.
Proviamo a scegliere quale arma ci è più utile in questo tempo di Quaresima.

Omelia Le Ceneri

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 1 marzo 2017

Gl 2,12-18
Sal 50
2Cor 5,20-6,2
Mt 6,1-6.16-18

1.

Oggi tutta la Chiesa fa l’ingresso solenne in penitenza. Siamo nella Cattedrale, dove si raduna insieme col Vescovo, il popolo di Dio che è in San Marino-Montefeltro; ciascuno di noi ha la consapevolezza di essere rappresentanza di tutta la diocesi. Che bello entrare insieme in questo cammino di quaranta giorni! Essi ci ricordano Mosè che rimase sulla montagna per quaranta giorni e quaranta notti prima di ricevere il dono dell’Alleanza. Quaranta giorni fu il tempo del ritiro del profeta Elia nel deserto per prepararsi alla missione. Anche noi entriamo in questi quaranta giorni, non soltanto personalmente e singolarmente, ma tutti insieme, come popolo, consapevoli dell’aiuto che ci viene gli uni dagli altri, pregando reciprocamente, avvalendoci dell’intercessione dei santi, della Madonna, sotto quel capo che è Gesù, che fa fluire e rifluire i doni della sua grazia. Quanti doni riceveremo durante la Quaresima: abbondanza di Parola di Dio, di suggerimenti pastorali, di liturgie che culmineranno nella celebrazione della Pasqua; una celebrazione in tre momenti ma che è un’unica celebrazione: giovedì, venerdì e sabato santo. Vorrei che nessuno mancasse alle sacre liturgie della settimana di Pasqua. Giovedì santo rivivremo l’ultima cena di Gesù con i suoi, quando ha celebrato la Pasqua con l’offerta del suo corpo e del suo sangue, con la consegna del comandamento nuovo, con l’istituzione del sacerdozio e con la promessa dello Spirito Santo. Venerdì santo: la grande prova. Quel giorno leggeremo il racconto della Passione secondo Giovanni. Poi ci sarà il momento folcloristico, tanto caro alla nostra cittadina, della Via Crucis, pio esercizio da vivere con Gesù nel momento della sua passione (come faremo tutti i venerdì di Quaresima in parrocchia). E, finalmente, la veglia di Pasqua, durante la quale rinnoveremo il Battesimo. Quanta sapienza in questi quaranta giorni la Chiesa mette a nostra disposizione! Un tempo la Quaresima era il momento in cui i catecumeni tenevano la preparazione prossima al Battesimo. Poi, quando il catecumenato perse un po’ della sua importanza perché si cominciò a battezzare i bambini, l’itinerario catecumenale si trasformò in ordo penitentium, che raggruppava coloro che si riconoscevano peccatori, chiedevano la preghiera del popolo cristiano, la benedizione del vescovo e il perdono di Dio. Preparazione alla Pasqua, iniziazione cristiana, ordo penitentium: ecco il significato della Quaresima.

2.

Abramo, nostro padre nella fede, si rivolse così a Dio: «Ardisco parlare a te mio Signore, io che sono polvere e cenere». L’uomo della Bibbia ha coscienza della propria povertà, della propria debolezza e riconosce umilmente che, se Dio non lo rianima con il suo soffio vitale, torna immediatamente alla polvere, proprio come diranno le parole che il diacono e il Vescovo pronunceranno imponendoci la cenere sul capo: «Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai». Parole antiche, parole della Genesi. Questi pensieri biblici ci svelano il significato che la teologia dà alle sacre ceneri, un significato che viene ripreso dalle parole della formula pronunciata sul nostro capo. Anche Gesù si è rivestito della nostra umanità e si è fatto cenere come noi, ma il Padre trasforma Gesù e quelle ceneri compattate e vivificate dallo Spirito diventano un albero di vita.
Questa sera noi riconosciamo la nostra fragilità e domandiamo al Signore che ci vivifichi con il suo soffio vitale, come fece il giorno della creazione, e come ha fatto Gesù nel giorno della sua Pasqua, quando, riunendo i suoi, alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito».
Riascoltiamo la preghiera con cui abbiamo aperto la celebrazione: «Concedi al popolo cristiano di iniziare con questo digiuno un cammino di vera conversione per affrontare vittoriosamente con le armi della penitenza il combattimento contro lo spirito del male». Questi quaranta giorni sono, infatti, anche tempo di combattimento spirituale, perché da una parte sentiamo il desiderio della vita nuova, dall’altra facciamo i conti con l’uomo vecchio che è in noi. Percepiamo che qualcosa di nuovo è iniziato con il Battesimo, ma non è ancora compiuto, perché abbiamo da lottare con i nostri vizi, con il nostro peccato. Questo combattimento deve essere generoso, fatto con impegno.
Vorrei concludere ricordando un testo di ascetica di una celebre mistica e maestra spirituale, Santa Caterina Vegri. Scrisse un piccolo vademecum per le sue allieve. Questa opera si chiama: «Le sette armi spirituali», armi per la vittoria! La prima arma è la diligenza: non lasciar cadere gli aiuti spirituali (ad esempio le ispirazioni, i propositi, i vangeli domenicali di questo tempo di Quaresima); poi la diffidenza di sé, cioè l’avere il senso del proprio limite, il fuggire le occasioni di peccato, il non contare troppo su se stessi, perché Gesù ha detto «senza di me non potete far nulla»; la confidenza in Dio: sarà lui che darà lo slancio, la voglia di continuare a donarsi, a spendersi; nei momenti di difficoltà fare memoria dell’Agnello, di Gesù nella sua penosissima peregrinazione fino al dono totale di sé; fare memoria della propria morte, disporsi come si vorrebbe essere trovati davanti a Dio nel momento della morte; fare memoria del Paradiso, saper guardare oltre, solo allora i piccoli sacrifici come le sofferenze più grandi diventano sopportabili: «È tanto il bene che mi aspetto – diceva Francesco d’Assisi – che ogni pena mi è diletto». Infine l’arma della Parola di Dio; può essere efficace memorizzare una frase, ad esempio del Vangelo della domenica, che ci accompagni nel quotidiano e farla ritornare continuamente alla mente: quella parola diventa l’arma che ci fa vincere.
Auguri a tutti di una felice e fruttuosa Quaresima!

Omelia VII domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Corpolò (RN), 18 febbraio 2017

Lv 19,1-2.17-18
Sal 102
1Cor 3,16-23
Mt 5,38-48
La parola di Gesù «Ma io vi dico», ha risuonato nel nostro cuore per tutta la settimana: ci era stata consegnata domenica scorsa. E risuonerà ancora, forte e rassicurante: è una parola divina, pronunciata con autorità. Chi si è lasciato coinvolgere ha trovato persino facile quello che sembrava insormontabile. C’è chi ha vinto tentazioni. C’è chi ha perseverato a camminare su un percorso scomodo. Davvero le parole di Gesù smascherano la meschinità dei nostri adattamenti e la nostra mediocrità.
Gesù radicalizza le esigenze della volontà di Dio fissata nei comandamenti dettati a Mosè. A noi non resta che ripetere, come Pietro: sulla tua parola getterò le reti. Come dire: «Lo vuoi tu?… Lo voglio anch’io»!
Dopo le prime quattro antitesi (si chiamano così le proposizioni imperniate sul Avete inteso che fu detto… Ma io vi dico… ne seguono altre due ancor più clamorose, riguardanti il perdono e l’amore al nemico.
Alla legge della giungla: Sette volte sarà vendicato Caino ma Lamech settantasette (Gen 4,24), era subentrata la legge del taglione che esprimeva l’esigenza di reintegrare il diritto leso, senza andare oltre: Occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede (Es 21,25), una legge presente anche nel codice di Hammurabi, apparentemente cruenta, ma in realtà era una conquista civile, che voleva limitare la pratica della vendetta sproporzionata. Gesù contrappone alla legge del taglione il perdono ed esclude totalmente lo spirito di vendetta. Le sue parole acquistano ancor più valore dal fatto che le ha messe in pratica per primo, quando è stato portato in giudizio, spogliato, schiaffeggiato, e insultato non rispondeva l’insulto; soffrendo non minacciava, ma si affidava a Colui che giudica rettamente (1Pt 2,23).
Seguono quattro esemplificazioni tolte dalla vita del tempo di Gesù, da non prendere letteralmente, ma nel loro significato. Sono situazioni che Gesù vivrà nella sua passione…
Porgere la guancia sinistra: non implica un atteggiamento passivo, ma il desiderio di far riflettere l’avversario e arrivare ad un accordo pacifico: inibire l’aggressività che acceca.
Cedere anche il mantello: al tramonto del sole il creditore era tenuto alla restituzione del mantello preso in pegno; la tunica invece poteva essere pignorata. Gesù supera tale direttiva, per amore di pace. A chi pretende la tunica dare anche il mantello, fino al punto di rimanere disarmati, quasi nudi, davanti all’avversario.
L’esempio del percorso di un miglio di strada presuppone la prassi della requisizione per un servizio pubblico. Gesù comanda la disponibilità totale; impone generosità verso tutti, anche verso i malvagi. Questa frase fa pensare alla costrizione a cui fu sottoposto il Cireneo: portare la croce al posto di Gesù (cfr Mt 27,32).
L’ultima antitesi costituisce il vertice di tutta la serie. Per il discepolo ogni persona, persino il nemico, deve essere prossimo a prescindere da razza e religione. La frase citata da Gesù si trova in Lev 19,18, ma senza la seconda parte: e odierai il tuo nemico; frase che non si trova in nessun luogo dell’AT. Un detto proposto, al tempo di Gesù, nella Regola della Comunità degli Esseni, divenuto probabilmente una massima popolare. Più probabilmente Gesù si rivolge agli scribi e ai farisei di cui parlava all’inizio del discorso della montagna: Se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei… (Mt 5,20). Un testo rabbinico del secondo secolo diceva: «Ama tutti questi, ma odia i settari, gli apostati, e gli informatori». Se il testo allude ai giudeocristiani, il Gesù di Matteo starebbe addirittura insegnando a non rispondere agli avversari con la stessa moneta, ma con l’amore per i nemici.
L’idea che Gesù ha della perfezione tornerà nuovamente, più avanti, quando la proporrà al giovane ricco (Mt 19,16-22). Matteo è l’unico tra gli evangelisti a usare questa parola (è attestata qualche volta in Paolo, nella prima Lettera di Giovanni e in Giacomo). Tuttavia l’aggettivo è radicato nell’AT con diversi significati: viene detto di Israele perché popolo profetico e differente da tutte le altre nazioni (Deut 9,13), dell’uomo che ha il cuore rivolto interamente verso Dio (cfr 1Re 11,4), degli animali da immolare a Dio (cfr Es 12,5). Dal contesto si può ritenere che Gesù intenda che la perfezione consiste nell’andare oltre la lettera della Legge, ma nell’accoglierne il cuore.
Anche altri maestri dell’umanità hanno propugnato l’amore per il nemico; l’insegnamento di Gesù però assume una valenza completamente nuova, sia per il suo esempio, sia per la motivazione: l’imitazione della perfezione del Padre celeste. Letta in parallelo con l’evangelista Luca la perfezione è la misericordia stessa di Dio: Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro (Lc 6,36).

Omelia nella festa della Presentazione del Signore al tempio

Omelia nella festa della Presentazione del Signore al tempio

Cattedrale di Pennabilli, 2 febbraio 2017

Giornata della vita consacrata

Ml 3,1-4
Sal 23
Ebr 2,14-18
Lc 2,22-40

Un incanto.
Siamo saliti alla Cattedrale cantando a Cristo Luce, luce delle genti, luce di cui la Chiesa è come un sacramento, un suo riflesso: «luce da luce». Il Signore, secondo il profeta Malachia, subito entrerà nel suo tempio. «Il Signore che voi cercate». Lo cerchiamo? Lo cerchiamo sinceramente nel nostro cuore?
«L’angelo dell’Alleanza che voi sospirate». Abbiamo fatto nostro uno dei cantici evangelici, il cantico di Simeone, l’ultimo dopo quello di Zaccaria: «Benedetto il Signore Dio d’Israele» (Lc 1,58-79); dopo quello, soltanto accennato, di Elisabetta: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo» (Lc 1,41-45); quello di Maria nel Magnificat (Lc 1,46-55) e il coro angelico nella notte di Natale: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc 2,14). Simeone compare in scena sotto la spinta dello Spirito Santo. Anche se noi non abbiamo sentito sensibilmente la presenza dello Spirito, era lo Spirito che, in mezzo a noi, ci guidava, perché siamo ancora sotto lo splendore dell’alba della Pentecoste. La Chiesa che accompagna e segue il sorgere e il tramonto di ogni giorno con i cantici del Benedictus e del Magnificat, a ricordo e in comunione con la risurrezione del Signore, ci fa chiudere le nostre giornate con il Nunc dimittis, il cantico di Simeone. Beati noi, consacrati, consacrate, fedeli, se ogni giorno possiamo dire come Simeone di aver fatto l’esperienza, varia e sempre uguale, dell’incontro, dell’abbraccio, della comunione con il Signore.
Mi soffermo un attimo sulla seconda lettura.
L’autore della Lettera agli Ebrei, a proposito del Verbo che si fa carne, scrive: «Doveva in tutto rendersi simile ai fratelli allo scopo di espiare i peccati del popolo» (Ebr 2,17). Nel tempio di Gerusalemme si rivela lo scopo per cui il Verbo doveva rendersi del tutto simile ai fratelli: espiare i peccati del popolo. Proprio per questo il Signore Gesù viene portato da Maria al tempio. Vediamo Maria sempre collaborante con il Signore; lo accompagnerà un giorno persino alla croce. Maria è stata mossa a compiere questo gesto, come ricorda il Vangelo, dall’antica prescrizione mosaica in forza della quale veniva celebrata l’appartenenza di ogni primogenito al Signore, ma c’è molto di più nel gesto di Maria che sale verso il tempio ad offrire Gesù, il Verbo. In forza della sua partecipazione alla nostra natura umana è diventato primogenito di molti fratelli ed offre se stesso per la loro salvezza. «Per questo – continua l’autore della Lettera agli Ebrei –  entrando nel mondo Cristo dice: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato…”. Allora ho detto: “Ecco, io vengo… per fare, o Dio, la tua volontà” (Ebr 10, 5-7). Entriamo, carissime e carissimi, nella contemplazione di questo atto di volontà con cui il Verbo, presentato al tempio, fa della sua vita e della sua umanità, un sacrificio gradito a Dio. Un dono che fa al Padre per essere dono! La testimonianza di Simeone ha lo scopo di svelarci questa missione unica e decisiva del Signore Gesù. E a Gesù Simeone rivolge attributi divini; lo chiama «luce», «gloria di Israele». L’incontro del vecchio Simeone col Bambino realizza l’incontro della Vecchia Alleanza con la Nuova, l’incontro dell’attesa umana con l’esaudimento, della speranza con il possesso, della domanda con la risposta. Chi impersonava l’Antica Alleanza poteva ormai morire, il tempo era compiuto: Dio visita definitivamente il suo popolo e tutte le genti. Dunque, la liturgia questa sera ci introduce in questo grande mistero: l’offerta di Gesù al Padre. Nella liturgia ebraica l’offerta in sacrificio di espiazione aveva il compito di ricostruire l’Alleanza dell’uomo con Dio, compromessa dal peccato. Ebbene, l’offerta di Cristo al Padre sulla croce, oggi prefigurata e anticipata simbolicamente nella presentazione al tempio «purifica – conclude l’autore della Lettera agli Ebrei – la nostra coscienza dalle opere morte e ci rende capaci di servire il Dio vivente» (Ebr 10,14). Bellissimo mistero sul quale il cuore deve indugiare.
Ma oggi noi, celebrando la Presentazione del Signore al tempio, vogliamo ringraziare il Padre per un dono particolare, frutto preziosissimo dell’offerta di Cristo: la vita consacrata. E’ questa, cioè la donazione totale di Cristo, la radice da cui sboccia e fiorisce la vita consacrata di donne e di uomini che seguono Cristo, amandolo con cuore indiviso, pienamente liberati mediante la pratica dei consigli evangelici (povertà, castità, obbedienza). Vedendo voi, carissime religiose, e voi, carissimi religiosi, noi siamo profondamente assicurati che Cristo è morto e risorto per noi: voi lo dite con la vostra vita. Qual è infatti il nucleo essenziale della vostra decisione? Che cosa avete inteso e deciso nel momento in cui avete risposto alla chiamata? Avete deciso di appartenere totalmente ed esclusivamente a Cristo Signore. La vostra è una vita afferrata da Cristo per sempre. E voi vi siete lasciati afferrare senza opporre alcuna resistenza; voi vi proponete di aderire in tutto a colui che vi ha sedotto e dal quale vi siete lasciati sedurre (cfr. Ger 20,7). Proprio come il giovane Samuele che dice: «Parla, Signore, il tuo servo ti ascolta» (1Sam 3,10). O come Paolo a Damasco: «Signore, che cosa vuoi che io faccia?» (At 22,10). O come il vostro modello per eccellenza, la fanciulla di Nazaret: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me secondo la tua parola» (Lc 1,38). Da qui discende l’intima ragione dei consigli evangelici che vivete; non sono soltanto “mezzi” di santificazione, ma espressione perfetta di ogni vita cristiana che consiste nel conformarsi pienamente al Signore Gesù. Allora siate fedeli alla vostra vocazione perché in essa tutti i cristiani – gli sposi, i giovani, i pastori della Chiesa – vedano svelata l’intima natura della vita cristiana come tale.
Gesù si è offerto pienamente al Padre perché il Padre possa compiere in lui la salvezza del mondo. Allo stesso modo, la vostra conformità e appartenenza a Cristo vi pone in una disponibilità totale per i fratelli. Vi offrite per offrirvi, non è un gioco di parole. Vi offrite al Signore per essere da lui offerti ai fratelli, per essere sale e luce, per essere lievito. Grazie per la generosità e l’entusiasmo col quale rinnoverete la consacrazione. State certi della nostra preghiera per voi!

Omelia III domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

22 gennaio, Monastero delle Clarisse, Sant’Agata Feltria

Inizia da questa domenica il racconto della vita pubblica di Gesù secondo il Vangelo di Matteo. Nel tempo dell’Avvento e del Natale abbiamo avuto un primo assaggio del Vangelo di Matteo coi Vangeli dell’infanzia. Lo scenario in cui si svolge la prima attività di Gesù è la Galilea e, precisamente, le città attorno al lago di Gennezaret.

«Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato…».

Per Gesù è il segno che è scoccata la sua ora. Giovanni Battista, la Voce, cede il passo a Gesù, la Parola. Il ritorno in Galilea non è una fuga. L’arresto di Giovanni anziché rendere prudente Gesù, aumenta l’urgenza del suo ministero, lo fa uscire allo scoperto: è coraggioso; cominciamo già a vederlo. Gesù inizia da dove Giovanni ha finito: «Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino». Era sceso alle rive del fiume Giordano per essere battezzato e “compiere ogni giustizia”, adesso torna a Nazaret, ma è solo di passaggio. Senza portare nulla con sé, scende nella zona del Lago di Galilea.

«Si ritirò nella Galilea, lasciò Nazaret ed andò ad abitare a Cafarnao…».

Se il messaggio è identico a quello di Giovanni: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”, diverso è il metodo. Giovanni si era ritirato nel deserto e aspettava la gente al suo battesimo. Gesù prende dimora a Cafarnao e va incontro alle folle. Fin dall’inizio è chiara la sua strategia, una strategia non di fuga, ma d’ingresso: per salvare tutti, giudei e pagani, nel caos di una cittadina di frontiera. Il Nord Galilea, e particolarmente Cafarnao, costituiscono, infatti, un miscuglio di razze e di genti. Su quelle terre, emblema di ogni periferia, cominciano a compiersi la profezia del vecchio Simeone che, al tempio, aveva salutato il bambino Gesù come “Luce delle genti” e l’oracolo di Isaia: “Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce…”.

La Galilea, Cafarnao

Non geografia, ma teologia! Quel territorio assomiglia al mondo contemporaneo, alle nostre città, perfino ai nostri borghi: abitati ormai da razze, religioni e culture diverse. Gesù si mette in situazione. E noi? Siamo fosforescenza della sua luce? Speriamo di non meritarci il suo rimprovero: “Guai a voi che percorrete terra e mare per far un solo proselita – parafrasando – senza aver fatto seriamente la scelta del Vangelo. Sognate conversioni in terre lontane e non vi accorgete della sete di verità e di aiuto di chi vi sta accanto”.

«Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli…».

Gesù annuncia il Regno di Dio. Si capisce subito che la conversione è “girarsi verso quella luce”.  La conversione non è la causa ma l’effetto dell’incontro. Talvolta ho immaginato che la conversione fosse anzitutto un fare penitenza del passato, una condizione imposta da Dio per il perdono. Ho pensato di trovare Dio come la ricompensa al mio impegno. Gesù è la buona notizia; è lui che ci viene incontro! Lo vediamo nel racconto che segue, il racconto delle chiamate. Lo sguardo di Gesù è uno sguardo creatore: pone in essere. In Simone vede la Roccia su cui fonderà la sua comunità, in Andrea il pescatore di uomini, in Giovanni l’aquila che penetrerà il mistero di Dio. Un giorno guarderà l’adultera e risveglierà in lei la sposa, amante fedele. In Nicodemo ridesterà il coraggioso mendicante del corpo del Crocifisso. E guarda me e ciascuno di voi… Ripete: «Seguimi»!

La pericope evangelica si conclude con Gesù che riprende il cammino per illuminare, per annunciare, per sanare. Se lui è la luce, i fari ne saranno dei pescatori chiamati non solo a seguire Gesù, ma per essere associati alla sua missione: pescatori di uomini. Araldi del Regno, senza laurea in Teologia!

Omelia nella Solennità di Maria SS. Madre di Dio

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Basilica di San Marino (RSM), 1 gennaio 2017
Santuario della B.V. delle Grazie di Pennabilli, 1 gennaio 2017

Consegna del messaggio di papa Francesco
per la 50° Giornata Mondiale della pace

Nm 6, 22-27
Sal 66
Gal 4,4-7
Lc 2,16-21

Cari amici,
il primo dell’anno 2017 purtroppo è già segnato dal dolore e dal sangue. Questa mattina, alle prime luci dell’alba, ho appreso la notizia sconvolgente dell’attentato terroristico a Istanbul. Può succedere di essere assaliti dalla tentazione di lasciarsi cadere le braccia. Invece occorre reagire, osare: «L’aurora osa quando sorge: rischiare, sfidare, insistere, perseverare, essere fedeli a se stessi, afferrare violentemente il destino, stupire la catastrofe con la poca paura che essa ci fa, affrontare ora la potenza ingiusta…» (Victor Hugo, I miserabili, III, I, XI).
Rinnoviamo insieme, in questo giorno, il proposito di essere – di voler essere – operatori di pace.
Il Signore Gesù proclama “beati” coloro che fanno pace, che sono in pace, che sono pace!
Il messaggio di papa Francesco, che consegneremo solennemente ai responsabili delle nostre comunità, mette al centro una questione cruciale che non ha alternative: la nonviolenza.
Questa parola, sintesi di una «pratica attiva e creativa», può diventare stile di vita e programma politico. Scrive papa Francesco: «Nonviolenza va intesa come urgenza e come nuova mentalità, come strategia di costruzione della pace sia per quanto riguarda i rapporti sociali e internazionali, sia per quanto riguarda i rapporti interpersonali. La nonviolenza è un impegno possibile e praticabile».
Un impegno che non è esclusivo della Chiesa Cattolica, ma è proprio di molte esperienze religiose e umanistiche.
Il Papa ripercorre, anzitutto, gli insegnamenti evangelici. Ricorda come anche Gesù visse in tempi di violenza. Gesù insegnò che il vero campo di battaglia, in cui si affrontano la violenza e la pace, è il cuore umano: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive» (Mc 7,21).
«Ma il messaggio di Cristo – continua il Papa – di fronte alla violenza, offre la risposta radicalmente positiva: Gesù predicò instancabilmente l’amore incondizionato di Dio che accoglie e perdona e insegnò ai suoi discepoli ad amare i nemici (cfr. Mt 5,44) e a porgere l’altra guancia (cfr. Mt 5,39). Quando impedì a coloro che accusavano l’adultera di lapidarla (cfr. Gv 8,1-11) e quando, la notte prima di morire, disse a Pietro di rimettere la spada nel fodero (cfr. Mt 26,52), Gesù tracciò la via della nonviolenza, che ha percorso sino alla fine, fino alla croce, mediante la quale ha realizzato la pace e distrutto l’inimicizia (cfr. Ef 2,14-16).
Perciò, chi accoglie la Buona Notizia di Gesù – conclude papa Francesco – sa riconoscere la violenza che porta in sé e si lascia guarire dalla misericordia di Dio, diventando così, a sua volta, strumento di riconciliazione, secondo l’esortazione di San Francesco di Assisi: “La pace che annunziate con la bocca, abbiatela ancora più copiosa”» (Fonti Francescane, n.1469).
Essere veri discepoli di Gesù oggi significa aderire alla sua proposta di non violenza.
La nonviolenza per i cristiani non è un mero comportamento tattico, bensì un modo di essere della persona, atteggiamento di chi non ha paura di affrontare il male con le sole armi dell’amore e della verità.
Il cristiano segue il suo maestro. Di lui accoglie i pensieri di pace. Da lui riceve la forza e il coraggio per attuarli. Proponiamoci di essere giusti senza essere giudici.
La non violenza ha già prodotto risultati ed ha avuto i suoi esempi storici. Il Papa ricorda il Mahatma Gandhi per la liberazione dell’India; Martin Luther King contro la discriminazione razziale Madre Teresa di Calcutta, icona dell’amore agli ultimi, Leymah Gbowee che insieme a tante donne liberiane ha organizzato incontri di preghiera e di protesta non violenta ottenendo la conclusione della II guerra civile in Liberia.
«Né possiamo dimenticare – scrive il Papa – il decennio epocale conclusosi con la caduta dei regimi comunisti in Europa. Le comunità cristiane hanno dato il loro contributo con la preghiera insistente e l’azione coraggiosa». Decisivo, in questa impresa, il Magistero e l’iniziativa di San Giovanni Paolo II.
Nel messaggio di papa Francesco tornano temi importanti quali la condanna della violenza e della guerra in nome di Dio («solo la pace è santa, non la guerra!»), la denuncia del mercato delle armi, il superamento della cultura dello scarto, l’impegno di tutti per una educazione alla pace. La formazione alla non violenza va percorsa in primo luogo nella famiglia: «La famiglia è l’indispensabile crogiuolo attraverso il quale coniugi, genitori e figli, fratelli e sorelle, imparano a comunicare e a prendersi cura gli uni degli altri in modo disinteressato e dove gli attriti o addirittura i conflitti devono essere superati non con la forza, ma con il dialogo, il rispetto, la ricerca del bene dell’altro, la misericordia e il perdono».
Il mio augurio: che dall’interno delle nostre famiglie la gioia dell’amore si propaghi nel mondo e si irradi in tutta la società. La famiglia è, per così dire, il laboratorio dove si brevetta la formula della pace, formula poi da esportare a livello industriale. Così sia!

Omelia di Natale – Messa del giorno

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 25 dicembre 2016

Is 52,7-10
Sal 97
Eb 1,1-6
Gv 1,1-18

Oggi vogliamo raccontare nuovamente il Natale. La fede cristiana non è altro che un racconto, un racconto di Cielo: il racconto della nascita del Signore in mezzo a noi. Come sapete, un racconto che viene fatto col cuore contiene una grazia particolare. I primi cristiani chiamavano tale grazia kerygma. Quando raccontiamo che il Verbo si è fatto carne, che Gesù è cresciuto, ha dato la sua vita per noi, è morto ed è risorto, in questa narrazione è concentrata la forza del Vangelo. Certo, nel fare il racconto occorre la perizia dello storico, occorrono le capacità della narrazione, ma soprattutto occorre che il racconto venga fatto coinvolgendo il cuore.
Questa mattina la liturgia ci propone una riflessione più profonda. «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo noi. E noi vedemmo la sua gloria». È il cuore del Prologo al Vangelo di Giovanni, l’evangelista che viene rappresentato come un’aquila, perché ha saputo innalzarsi alle vette della contemplazione e sorvolare gli abissi del mistero di Cristo.
Prima ancora di apparire nel grande giorno, quel Bambino è stato ricamato pian piano dallo Spirito Santo: è Dio! Ricamato con la carne e il sangue di Maria: è uomo! Mistero sul quale non finiremo mai di soffermarci per meditare e contemplare. La Parola (il Verbo, il Logos) viene “covata” nascostamente nel grembo della Vergine. È un avvenimento apparentemente infimo e segreto, ma esploderà per colmare il mondo e il tempo. Per questo gli angeli cantavano: «Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama». Ma tutto questo occorre che arrivi a tutti noi. È necessario che il Verbo prenda dimora in noi perché godiamo della sua pienezza e da lui «riceviamo grazia su grazia». Dio si è fatto uomo perché noi siamo divinizzati dalla grazia. Da qui la nostra preoccupazione di non essere mai in peccato, ma di essere tralci uniti alla vita. Non si può guardare il Natale da fuori, da lontano. Bisogna fare di se stessi abitazioni e grembi del Verbo. Egli – secondo la dichiarazione dell’angelo a Giuseppe – è l’Emmanuele, il Dio-con-noi (cfr. Mt 1,23). Un nome – Emmanuele – che viene da lontano; preparato da lunga data, vero codice genetico che, in germe, contiene registrata tutta la storia di Dio con noi, fino al suo incredibile coinvolgersi.
La fede cristiana ha questo di audace e di assolutamente unico ed originale: Dio si fa innominabile e inconcepibile senza noi, perché vuol prendere carne e nome da noi!
La natività è sposalizio che Dio consuma con il “noi” dell’umanità: meravigliosa promiscuità di carne e spirito in una unica persona, Gesù Cristo. La Chiesa da sempre confessa, nell’unica persona di Gesù Cristo, due nature (l’umana e la divina) in unità «senza confusione, senza separazione, senza mutazione, senza divisione» (Concilio di Calcedonia, DS 302). Il contenuto e il termine ultimo della fede e della speranza cristiana non è né una umanità emancipata da Dio, né un Dio goduto intimisticamente nell’indifferenza verso il mondo, perché Dio è un Dio-con-noi. Un messaggio forte per noi, oggi, qui: mai più senza Dio! Mai più con un Dio privato (“fai da te”)! Ma con un Dio che, unendosi a noi, ci fa uno tra noi, responsabili di tutti, ci fa suo popolo! Così, recentemente, ha detto papa Francesco: «Sono questi, fratelli e sorelle, i motivi della nostra speranza. Quando tutto sembra finito, quando di fronte a tante realtà negative la fede si fa faticosa e viene la tentazione di dire che niente più ha senso, ecco invece la bella notizia […]. Dio viene a realizzare qualcosa di nuovo […]. Il male non trionferà per sempre, c’è una fine al dolore. La disperazione è vinta perché Dio è tra noi» (Papa Francesco, Udienza Generale 14 dicembre 2016).
Auguri, nell’Emmanuele, il Signore Gesù!

Omelia di Natale – Messa di Mezzanotte

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di San Leo, 24 dicembre 2016

Is 9,1-6
Sal 95
Tt 2,11-14
Lc 2,1-14

Buon Natale!

Carissimi,
state sfidando il buio per inseguire una luce… siete persuasi? E questa luce brilla!
Permettetemi di iniziare il commento ai misteri che celebriamo con una citazione poco natalizia, anzi tragica. Comincia così. «Uno ad uno, sulla scena, cadono nell’oblio della morte. Amleto ha bevuto il veleno dalla coppa. Ne è rimasto un sorso. Orazio, l’amico sopravvissuto alla tragedia, vorrebbe consumarlo. “No, – sussurra Amleto – tu vivi e racconta. Racconta di me e della mia storia […], il resto è silenzio”».
Così l’epilogo dell’Amleto di Shakespeare. Citazione poco natalizia?! Ma è proprio per un “racconto” che ci siamo dati appuntamento, piccoli e grandi, nel cuore della notte. Anche il più piccolo e il più sprovveduto tra noi potrebbe raccontare, raccontare di un editto di Cesare Augusto, di Giuseppe, che da Nazareth è salito a Betlemme insieme alla sua sposa «per farsi registrare». È tempo di censimento. E potrebbe raccontare di Maria, che era gravida e di come partorì in un luogo di fortuna e avvolse in fasce il suo bambino, lo depose in una mangiatoia e di come non c’era posto per loro nell’albergo.
Il posto… Quante allusioni possibili: il posto dove abitare per chi cerca una casa; il posto di lavoro per tanti giovani che cospargono il territorio di curriculum; il posto dentro al cuore di qualcuno.
Un racconto. Che cosa c’è di più semplice? Quanti racconti di bambini nati in condizioni altrettanto precarie, venuti al mondo in terra straniera o stranieri alla loro terra. Quante storie di bimbi che non trovano posto. Fra i tanti racconti quello che ci ha mobilitati stanotte ha del paradossale, dell’incredibile: il neonato, che noi stasera adoriamo, è «lo splendore del Padre», «irradiazione della sua gloria», «Verbo eterno», «Figlio», «splendore del Fulgore divino» (così dicono di lui le divine Scritture).
«Beato chi non si scandalizza di me», dirà un giorno quel bimbo divenuto grande. E di rincalzo, il Battista, a nome di tanti e, come tanti, deluso, in un primo momento, da un Messia così dimesso e diverso da come se l’attendeva dirà: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro»? (Mt 11,3).
Un redentore-salvatore dovrebbe apparire forte, vincente e convincente; capace finalmente di dire basta all’ingiustizia, a chi è prepotente…
Viene, invece, come bambino: inerme, infante (che non riesce a parlare), profugo, esposto all’imprevisto, in balia degli eventi.
Siamo nel nucleo centrale della fede cristiana, in ciò che la differenzia in modo specifico. Il confronto con altre fedi ed esperienze religiose ci costringe a ritrovare l’identità. Non è vero che tutte le religioni si equivalgono (salvo che, per religione, si intenda un sentimento o un’etica). Può essere che il confronto con altre religioni metta in crisi e, dentro noi, crei contrasto, spiazzi. Come accade a chi improvvisamente si accorge di essere sospeso. Sente vertigine. Ebbene, noi questa sera proviamo le vertigini davanti ad un Dio che si è fatto uomo: se le cose stanno così, qualcuno potrebbe dire che è troppo. È incredibile (stupore assai salutare…).
Questo racconto ci espone alla nuda e disarmante essenzialità della fede cristiana.
Un racconto tutt’altro che infantile, o favoloso o scontato. Se ti lasci abitare da questo paradosso, pian piano constati che i conti tornano, perché la vita cambia. È un racconto sovversivo: sovverte la nostra idea di Dio. Sovverte la pratica stanca e abitudinaria della nostra fede. Sovverte il modo di pensare e di stare in questo mondo. Dio si fa uomo. Sceglie l’ultimo posto. Il mio. Viene per me, per darmi modo di vincere il male fino a dissolvere in me i pensieri cattivi e impuri; viene per restituirmi audacia, a vincere la pigrizia e la mia abitudine ad occuparmi solo del mio interesse; viene ad insegnarmi a rompere col peccato e con la superbia. E mi dice come si fa!
Tra meno di un quarto d’ora il racconto di Betlemme arriverà al suo epilogo. Riprenderà così: «Nella notte in cui fu tradito egli prese il pane nelle sue mani, lo benedisse, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli e disse: “Prendete e mangiate, questo è il mio corpo dato per voi…”» (cfr. Mt 26,26).
È venuto bambino nel presepio. Viene ora nel dono del pane spezzato. Dichiara, con parole impegnative: «Abito in questo pane». Un pane spezzato e condiviso lo mette di nuovo al mondo. Presenza che mi scoppia ogni giorno tra le mani… Così accade, se ci facciamo caso, ogni volta siamo disposti a condividere, ad amare senza possedere, a dare senza prendere, a dire la verità nella carità. Insomma: ad amare per primi. «Ma a vivere così si diventa vulnerabili!». Ma è il solo modo d’essere felici. Bisogna cominciare subito. Se credevamo d’essere qui per intervenire ad una cerimonia, ci siamo sbagliati. Il racconto ha riacceso una luce nella notte. Il racconto deve avvalersi della perizia dello storico; ha bisogno della profondità del teologo; ha bisogno della fantasia e dell’arte del narratore; ma soprattutto – questo racconto – ha bisogno del coinvolgimento del cuore e della fede. I primi cristiani lo chiamavano kerygma e riconoscevano nel racconto una forza intrinseca, quasi sacramentale. Allora raccontate ai bambini, raccontate ai giovani, non “rubiamo” loro il racconto di Gesù, “racconto del Cielo”! Facciamocene dono l’un l’altro. Il Signore sarà presente nel nostro racconto. Auguri!

Omelia di Natale – Messa della Vigilia

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Is 62,1-5
Sal 88
At 13,16-17.22-25
Mt 1,1-25

1.
«È apparsa la grazia di Dio che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’empietà» (Tt 2,11).
A Natale, come ogni volta, stupore, incanto, gioia. Ma qual è il messaggio del Natale? Che cosa significa che Gesù viene chiamato “il Salvatore”? Quali contrasti contiene il brano evangelico appena letto? E quali sono i motivi della lode?
«Signore che hai illuminato questa santissima notte con lo splendore di Cristo concedici di avere una comprensione profonda di questo mistero abbagliante. Donaci una intelligenza spirituale degli eventi che celebriamo in questa notte, come già Francesco d’Assisi, Ignazio di Loyola, Caterina Vegri… (cfr. Colletta del Natale del Signore – Messa della notte).
Noi facciamo parte di quel popolo di cui scrive il profeta Isaia, «popolo che camminava nelle tenebre e ha visto una gran luce»; un popolo che abita in terra tenebrosa, ma sul quale rifulge una luce (cfr. Is 9,1), «perché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio… Questo farà lo zelo del Signore» (Is 9,6).

2. Il racconto di quella nascita non inizia con un vago «Una volta…», ma c’è un preciso riferimento; siamo al tempo di Cesare Augusto. Per un attimo sembra di respirare l’aria serena della “Pax romana”. Ma è solo un attimo, perché in realtà la nascita del Messia avviene in un contesto drammatico, segnato da un clima di tensione e di povertà. Non si sa esattamente quando e come fu organizzato quel censimento, ma certamente fu vissuto dalla gente come l’ennesima umiliazione nazionale. I censimenti, infatti, servivano ad inasprire le imposte e quindi riaffermavano la sottomissione della nazione ebraica ai pagani. I censimenti, inoltre, comportavano non pochi disagi, lunghi viaggi e scarsità di alloggi, tanto che Giuseppe fu costretto a portare Maria a partorire in una stalla, perché non c’era posto per loro nell’albergo. Il bambino che nasce a Betlemme non è un potente che abita in un castello, ma un ebreo come tutti gli altri; fin dalla sua venuta al mondo condivide la loro difficile condizione e storia.

3.
I primi a riconoscere Gesù e ad accoglierlo sono i rozzi pecorai, esclusi dalla sinagoga e dai tribunali. Viene loro rivelato tutto quello che Israele attendeva da tempo: «È nato nella città di Davide un salvatore che è il Cristo Signore». È l’evento decisivo della storia della salvezza, per questo esplode il canto: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama».
I pastori, dopo un attimo di «grande spavento», si mettono in cammino per cercare colui che era stato loro annunciato. Lo cercano e lo trovano. Trovano un re venuto al mondo nel suo palazzo, circondato dai suoi servi? No, erano stati avvertiti che avrebbero trovato un bambino avvolto in fasce che giaceva in una mangiatoia. In un mondo in cui i potenti si consideravano semi-dei, il Messia si presenta come uno di loro pecorai, non è un potente ma un povero, è uno che abita il disagio e la precarietà.

4. I pastori provano un gaudio interiore così grande da sentire il bisogno di renderne partecipe la gente di Betlemme: «Dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro». Il loro incontro con Gesù si converte in urgenza missionaria, diventano i primi testimoni di Gesù. I pastori erano stati guidati dagli angeli, ma chi porge loro il Bambino? Maria e Giuseppe. Gesù, non lo incontrano da solo, ma in una famiglia che lo ha accolto e custodito. E non lo trovano da soli, con un percorso solitario, ma grazie ad una piccola comunità, che, come Maria, fa memoria degli eventi salvifici e ne cerca il senso «meditandoli nel suo cuore». Così noi in questa notte…

Omelia IV Domenica d’Avvento

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cailungo (RSM) – 18 dicembre 2016

Is 7,10-14
Sal 23
Rm 1,1-7
Mt 1,18-24

Meno dieci, meno nove, meno otto… insieme alle nostre comunità, conto i giorni che mancano al Natale. Meno sette, meno sei, meno cinque… Ci sono le recite nelle scuole (bravissimi i bimbi delle nostre scuole che si esibiscono davanti a nonni e genitori letteralmente impazziti). C’è chi s’affretta per gli acquisti per fare più bella la festa. Ma chi pensa al Festeggiato? Siamo pronti ad accoglierlo? Troverà, ancora una volta, soltanto paglia? Meno male che c’è la sua Mamma… Meno male che c’è Giuseppe, l’uomo dei sogni, che non parla mai, ma che sa ascoltare, che preferisce l’amore a Maria e a Dio piuttosto che l’amor proprio. Stiamo davanti al presepio e dedichiamo un po’ del nostro tempo, sempre così concitato (lo dico soprattutto per chi vive fuori di qui), alla meditazione. Mettiamoci nei panni dei personaggi del presepio, soprattutto nei panni di Maria che porta in grembo Gesù ed è ormai pronta per dargli la luce e come tutte le mamme con tanto amore ma anche con altrettanta apprensione; nei panni di Giuseppe che cerca un posto dove alloggiare Maria e il nascituro.
Dal racconto evangelico vediamo come Giuseppe per amore di Maria sia disponibile ai disegni di Dio e faccia spazio nel suo cuore al Bambino non suo. E diventa vero padre di Gesù, anche se non ne è il genitore. Con Giuseppe s’impara come accogliere Gesù: silenzio, obbedienza alla volontà di Dio, laboriosità senza attivismo, fiducia perché Dio è il protagonista e conduce gli avvenimenti. Qui, come a Betlem, succede di tutto: c’è chi è nemico di quel Bambino così intrigante e compromettente (Erode non è del tutto sparito). C’è chi è semplicemente indifferente: ha ben altro da pensare. C’è, in fine, chi ha fatto l’abitudine e non riesce a stupirsi nemmeno di un Dio che si fa bambino e che si può coprire di baci. Apro una pagina dal profeta Isaia. Faccio fatica a trattenere la commozione: così il Signore vince la mia tiepidezza: Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni. Se dovrai attraversare le acque, sarò con te…  se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai, … poiché io sono il Signore, tuo Dio, il Santo d’Israele, il tuo salvatore. Io do l’Egitto come prezzo per il tuo riscatto, l’Etiopia e Seba al tuo posto. Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo… Non temere, perché io sono con te.
Quel bambino che sta per nascere ha un nome che riassume in sé la storia di Dio con l’umanità. Il nome, nella cultura antica, rappresenta l’identità e il compito di un uomo sulla terra. Giuseppe si è trovato davanti alla responsabilità di dare il nome per il nascituro. Nell’albero genealogico disponevano di nomi illustri. Ma per quel bambino interviene il Cielo. A Giuseppe viene detto che il bambino che nascerà porterà il nome di Gesù, che significa il Signore salva. Ma aggiunge che il bambino adempirà la promessa del profeta: La vergine concepirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa: Dio con noi. Due nomi per un solo bambino! Sovrapponendo i due nomi – Gesù, Emmanuele – si comprende che egli è il Signore-salva-con noi. Per salvarci, Dio si fa uno di noi: Gesù. Nello stesso tempo è Signore con noi, perché non ci salva senza di noi: Emmanuele. Che fa Giuseppe? Tenta di sottrarsi all’invadenza del Cielo, poi ascolta. L’augurio di Natale: fai anche tu spazio al Cielo.
Meno quattro, meno tre, meno due…