Omelia nel conferimento della cura pastorale della parrocchia dei Santi Pietro, Marino e Leone di San Marino Città a don Marco Mazzanti sdb

XIX domenica del Tempo Ordinario

Is 53,10-11
Sal 32
Eb 4,14-16
Mc 10,35-45

Gesù accondiscende alla preghiera di Giacomo e di Giovanni: «Che cosa volete che io faccia per voi?» (Mc 10,36). Gesù è disposto ad esaudirli. I due apostoli, fratelli, ci fanno sorridere per il loro candore: «Vogliamo sedere nella tua gloria uno a destra e uno a sinistra». Nella Bibbia la gloria di Dio non è la fama o la celebrità, ma la presenza luminosa, attiva e potente di Dio. La gloria, ad esempio, si è manifestata nello splendore del Sinai, il santo monte, poi nella nube lungo i sentieri dell’Esodo. I Salmi cantano i cieli che proclamano la gloria di Dio. Potremmo dire che la gloria è l’essenza stessa di Dio nel suo manifestarsi come presenza amorosa accanto al suo popolo e, quando è necessario, contro i nemici. Ma l’evangelista Giovanni, un giorno, dopo la lezione impartita dal Maestro, spiegherà che la gloria di Dio ha preso forma: la forma dell’umanità di Gesù, che è il sacramento dell’incontro con Dio. Dio adesso ha il volto di Gesù, non è qualcosa di inimmaginabile. Dunque, la gloria è mistero, presenza, prossimità… Ecco la gloria di Dio: il sorprendente modo di fare di Dio!
I discepoli, ancora in cammino, hanno equivocato; hanno pensato la gloria alla maniera umana. Ma la lezione è chiarissima, lampante: «Chi vuol essere il primo tra voi sia il servo di tutti» (Mc 10,44). Nonostante la gelosia che i due fratelli Giacomo e Giovanni hanno scatenato nel gruppo, ci riescono simpatici. Con fierezza, infatti, dichiarano a Gesù che sono pronti a tutto, anche a bere il calice. Fierezza nel proponimento e insistenza fiduciosa nella loro preghiera: «Vogliamo che tu ci conceda quello che ti chiediamo». Non aveva detto Gesù: «Chiedete e otterrete»? (Mt 7,7). Pregare non è pretendere che Dio faccia quello che vogliamo noi, ma disporsi a fare quello che lui vuole da noi, come insegna la preghiera del Padre Nostro: «Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra» (Mt 6,10). Così ha pregato Gesù nel Getsemani: «Abbà, Padre, tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt 26,39). Gesù parlando di un calice allude alla Passione; un calice amaro di tutto il fiele che è nel mondo.
Impariamo un’altra cosa: la gloria di Gesù è nel dono della sua vita. Una vita “rapita” per chi lo uccide, ma “donata” nell’interpretazione che dà Gesù. Da qui l’insegnamento del Signore sull’autorità. Autorità come servizio. Dio si è posto non sopra ma davanti; Gesù si pone ai nostri piedi e li lava: ci guarda dal basso! Il padrone fa paura, il servo no: il Vangelo sancisce la fine della paura di Dio. Il padrone esige e pretende per sé, il servo si impegna e vive per un altro. Il padrone si serve degli altri, Gesù fa sua la nostra causa. Il padrone giudica e castiga, Gesù perdona e soccorre. Il padrone vuol vedere i frutti, il Signore è seminatore.
Autorità che fa crescere. Fa sì che ognuno dia il meglio di sé, metta in gioco i suoi talenti. L’autorità vera non è mai autoritarismo, ma autorevolezza! Sa vedere il positivo e promuove… come don Bosco!
Autorità come dono di sé. «Il figlio dell’uomo è venuto per servire e dare la sua vita»: il parroco dirige, insegna, è competente, ma nello spirito del servizio e nella dimenticanza di sé per fare posto. Ora comprendiamo il senso evangelico del “potere”: il potere di amare.

Siamo qui questa sera per compiere un gesto che ricorda le investiture che si facevano nell’antichità. Consegnerò delle chiavi a don Marco. Le chiavi possono essere simbolo di potere. Un giorno Gesù disse a Pietro: «A te darò le chiavi… » (Mt 16,19). Così anche agli apostoli: «In verità vi dico, tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in Cielo e quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche nei Cieli» (Mt 18,18). Si tratta del potere come lo intende Gesù, come servizio, come dono di sé, come calice.
Consegnerò a don Marco due chiavi, la terza dovrete consegnarla voi, anche a nome di coloro che non sono presenti questa sera. La prima chiave che gli darò è quella della chiesa, della vostra chiesa, che vi accoglie e che vi sta tanto a cuore, che è il vostro gioiello, la vostra fierezza, il luogo a voi più caro. È la casa che accoglie i bimbi nel giorno del loro Battesimo, i fanciulli per la Prima Comunione, gli adolescenti per la Cresima. È spalancata per la Messa domenicale, per le feste della comunità e della famiglia, per i matrimoni. Tutti raduna per accompagnare i defunti al cospetto di Colui che accoglie misericordioso. Ma questa chiesa è di pietra ed è solo un segno; le pietre vive siete voi, che con la Parola di Dio e con i sacramenti avete sempre più autocoscienza di essere il popolo di Dio, il Corpo di Cristo, il Tempio dello Spirito Santo. In questa chiesa, il parroco, in mezzo a voi, anzitutto prega, adora, con voi, per voi. A don Marco dico: «Abbi cura di tutti, facendoti aiutare dai Consigli pastorale e degli affari economici per il discernimento comunitario ed amministrativo». A voi dico di corrispondere al vostro parroco, di collaborare, sì da essere tutti insieme «un cuor solo ed un’anima sola» (At 4,32). Per vivere quella sfida che si chiama sinodalità.
Consegnerò un’altra chiave: quella del Tabernacolo (il luogo dove conserviamo l’Eucaristia). Insieme con la Parola, l’Eucaristia ci fa comunità, ci fa famiglia. Il parroco custodisce il Tabernacolo come il cuore della Chiesa, cuore della comunità. L’Eucaristia è tutto per la Chiesa, tutto per il cristiano, perché è Gesù. Adoratela, onoratela, contemplatela insieme al vostro parroco.
C’è una terza chiave: non posso dartela, caro don Marco. È la chiave che possono darti solo i tuoi parrocchiani: la chiave dei loro cuori. Ognuno di voi ha la chiave del suo cuore: consegnatela, pieni di fiducia, al vostro nuovo parroco. Con la chiave che metterete nelle sue mani lui potrà entrare in voi, ascoltare le vostre confidenze, accogliere le vostre domande.
Tra poco accompagnerò don Marco al confessionale e metterò sulle sue spalle una “sciarpa” color viola; si chiama stola: è il segno della potestà di rimettere i peccati, ma anche di consolare, di guidare coscienze, di sostenere con la direzione spirituale.
Sono certo, don Marco, che i tuoi parrocchiani, con fiducia e schiettezza, metteranno nelle tue mani la chiave dei loro cuori; incontreranno, attraverso di te, la misericordia del Padre e non dovranno temere nel confidare fragilità e dubbi. Darai tanto a loro, ne sono certo. E altrettanto riceverai da loro. Crescerà, giorno dopo giorno, l’affezione. E, del resto – si sa – il cuore è il cuore: ha i suoi ritmi e i suoi tempi, ha bisogno di ricevere e di dare. Tu, don Marco, prenderai «l’odore di queste pecore» e loro da te prenderanno la sicurezza che la tua fede e la tua personalità sapranno infondere.
Ti affido un altro compito. Ti chiedo di avere a cuore le vocazioni: tutte, quelle religiose, quelle missionarie, quelle contemplative e quelle al sacerdozio. E a tutti chiedo di avere cara la vocazione al sacerdozio. Abbiamo tanto bisogno della presenza del sacerdote. Ce ne accorgiamo di più quando non c’è. Il sacerdote ci dà l’Eucaristia, tiene unita la comunità, pronuncia a nome di Gesù le parole che ci sono indispensabili: «Io ti perdono… da tutti i tuoi peccati». Così sia.

Omelia nella S. Messa di Chiusura della Settimana in onore della Madonna delle Grazie

Ferrara (Cattedrale), 14 ottobre 2018

Ester 8,3-8.16-17
Sal 66
Ef 1,3-6.11-12
Gv 2,1-11

Eccellenza carissima,
ti ringrazio molto dell’invito; è molto bello per  me essere qui questa sera, anche se non posso fare la tenda, perché sono missionario. Lo desideravo tanto da bambino e ora mi è possibile, vado in missione. Permettimi, prima di commentare la Parola di Dio, di lasciar partire un pensiero verso i tanti fratelli e sorelle, amici, maestri, a cui continuo a voler bene, e anche a quanti non ritrovo; per ultimo il carissimo don Marcello, parroco di Bondeno.

Oggi la Chiesa è in grande festa per sette nuove canonizzazioni. Tra i nuovi santi, Papa Montini. Le persone più mature ricordano certamente la sua persona, le tempeste che ha dovuto attraversare. Mi verrebbe quasi da chiedere se è stato più martire Paolo VI o San Oscar Romero. Prego con voi per il Santo Padre, il Pietro di oggi, Papa Francesco. Vorrei che gli fossimo vicini, come Maria sotto la croce che l’umanità sta vivendo nelle guerre, nei profughi, nei tanti poveri nel mondo, nelle difficoltà e nelle disunità che patisce la Chiesa. Grazie Santo Padre. Vediamo in te il volto misericordioso di Gesù e sentiamo il tuo desiderio di costruire ponti, di sciogliere nodi e catene che riducono le energie sul cammino verso la fraternità. La società di oggi vive tanti cambiamenti e sente, Santo Padre, il dono della tua parola. Vede in te la bussola che nella verità del Vangelo sine glossa porta ad accogliere, sprona al coraggio di affrontare le sfide, si alza per difendere la vita fin dal primo concepimento e anche nel saper vedere nelle inquietudini un motore educativo nello spirito del dialogo con tutti. Penso al Sinodo dei giovani che si svolge in questi giorni. Si sta rivelando sempre di più un Sinodo sugli adulti, perché il problema pare che siamo proprio noi adulti.

La liturgia di questa sera ci fa leggere una pagina del libro di Ester, un libro della Bibbia scritto per tempi difficili come i nostri. La protagonista, Ester, è una ragazza orfana che porta scritta nella sua storia la sofferta realtà della diaspora giudaica (l’esilio). La sua vicenda, ambientata nei sontuosi palazzi del re di Persia, assomiglia – spero che gli esegeti non mi sgridino – alla fiaba di Cenerentola: anche qui c’è un capovolgimento delle sorti. In breve: la splendida regina Vasti si rifiuta di comparire davanti al re che vuole mostrare al popolo e ai capi la sua bellezza. «È un oltraggio», gridano i saggi di corte. Si deve immediatamente sostituire l’orgogliosa regina. Viene bandito allora un concorso di bellezza: la più bella sarà regina al posto di Vasti. Anche la piccola Ester – il suo nome significa “Stella” – viene iscritta dallo zio che l’ha presa a casa sua da quando è rimasta sola e orfana. Il re rimane conquistato dalla sua bellezza e la vuole regina, accanto a lui. Intanto a corte un potente ministro del re, Amàn, sta organizzando un programma di sterminio degli Ebrei. Lo zio di Ester riconosce provvidenziale l’elezione della nipote: il Signore vuol servirsi di lei per salvare il suo popolo (Ester come Mosè!). E così accade: il popolo è salvo e lo zio di Ester viene esaltato mentre il cattivo ministro viene punito. Per i Giudei era spuntata una luce, una stella: ci fu letizia, esultanza, onore. La liturgia ci fa vedere nella provvidenziale intercessione di Ester il ruolo di Maria presso il Signore che l’ha voluta come tenerissima madre e regina, accanto a Lui e accanto a noi. Perché ricorrere a Maria? Forse che il Signore ha bisogno d’essere convinto? Sarebbe puerile pensarlo. L’Onnipotente vuole piuttosto coinvolgere la creatura nel suo piano d’amore e Maria in esso ha un posto singolare. La preghiera e il coraggio della piccola Ester sono figura della tenerezza e dell’amore di Maria. A Ferrara la chiamiamo: Madonna delle Grazie. Ho visto il bellissimo manifesto con tutte le immagini di Maria nel nostro territorio; una più significativa dell’altra, ognuna legata anche ad un evento fondatore della devozione in quel mondo. Ci fu un tempo in cui un’immagine di Maria stava all’ingresso della Cattedrale. Era chiamata la “Madonna del cantone”. I ferraresi, prima di salire verso il Signore, in questa infinita cattedrale, sostavano davanti a lei: erano certi che le cose erano fatte, si erano rivolti a lei… Non fu così anche alle nozze di Cana? La premura di Maria spostò in avanti le lancette dell’ora di Gesù!

Cana. C’è una festa di nozze; ce lo racconta l’evangelista Giovanni: una festa di paese, con tanti invitati. E lì viene proclamato il Vangelo dell’amore sponsale: Maria è sposa ed è attenta a quello che accade attorno a lei: un’attenzione servizievole e premurosa. Spicca il suo senso pratico. Previene l’imbarazzo degli sposi novelli. Anche qui c’è ancora una parola della madre verso il figlio Gesù: «Non hanno vino» (Gv 2,3). Sa che nella vita di ognuno l’amore può venir meno come il vino delle nozze. L’amore sulla terra è a rischio. La diminuzione, il venir meno, il tramontare sembrano una costante per le esperienze umane. Maria, a Cana, non si rassegna; sente che le cose possono andare diversamente: dal debole al forte, dal poco al tanto, dall’acqua al vino, dalla fragilità alla santità. Gesù, allora, interviene. Sarà il suo primo miracolo. Ma c’è una parola della Madre anche per i servi – e per noi – indaffarati tra i tavoli del ricevimento: «Fate tutto quello che lui vi dirà» (Gv 2,5). Nel racconto è prefigurata la vocazione di Maria ad una maternità universale: parlerà al suo figlio di noi e parlerà a noi di lui. Maria, Madre delle Grazie, prega per noi.

Omelia nella XXVIII domenica del Tempo Ordinario

Carpegna, 14 ottobre 2018

Sap 7,7-11
Sal 89
Eb 4,12-13
Mc 10,17-30

  • Messa di chiusura della Visita Pastorale nella parrocchia di Carpegna
  • (da registrazione)

    Un tale va ad incontrare Gesù. Chi è? Che nome ha? Il mio, il tuo: quel tale è il prototipo di un possibile discepolo. È in cerca di buoni maestri e ha adocchiato Gesù: «Ecco un buon maestro!». Attacca bottone, magari un po’ imbarazzato all’inizio, con lui. «Maestro buono, che cosa devo fare per avere una vita eccellente?». Una volta si diceva “vita eterna” per dire l’eccellenza. Sapremo dopo, nel contesto, che quel tale è un giovane, ricco e aristocratico moralmente. Ci sorprende la risposta di Gesù. Gesù è un rabbi particolare, infatti sembra smarcarsi. Lui non è un “buon maestro”, un maestro di accademia; anzi, non ha da proporre nessuna dottrina particolare, nessuna filosofia sua, nessun insegnamento suo, se non quello del Padre, Dio. È a lui, alla sua misericordia, al suo amore che deve guardare questo cercatore di buoni maestri. Attenzione, Gesù non dice di essere cattivo o mediocre e tanto meno peccatore; dice che lui è soltanto segno, manifestazione e irradiazione di un Altro. Per Gesù quello che conta è accogliere la manifestazione definitiva della bontà perdonante di Dio. La vita eccellente – la vita eterna come diciamo noi – abbraccia tutto: presente, passato e futuro. Invece noi quando diciamo “vita eterna” pensiamo all’al di là, ma è riduttivo. La vita eccellente è una eredità, ti tocca, per concessione, per grazia. E come tale va raccolta, fatta fruttificare, custodita. Il Decalogo, i dieci comandamenti, servivano proprio a questo. Era il modo concreto col quale l’antico popolo di Israele accoglieva il dono dell’Alleanza, dono di un’amicizia e di una vita eccedente.

    Cosa dice quel tale a Gesù? Ognuno di voi potrebbe rispondere così: «Io ho osservato tutti i comandamenti fin da bambino» (cfr. Mc 10,20). Gesù crede alla sincerità di quel ragazzo e non considera affatto la sua risposta come orgogliosa o esibizionista, tant’è che lo invita alla sequela. Attenzione però, la sequela, il discepolato non sono volontarismo, non consistono nell’essere a tutti i costi il primo della classe, un eroe immacolato, un’asceta incorruttibile, una sorta di Lancillotto (cavaliere senza macchia). Il discepolo è colui che accoglie Gesù, perché in Gesù è comparso l’orizzonte, nella storia grande come nella nostra piccola storia, la regalità di Dio, l’amore di Dio: la vita eccedente. Farsi discepolo è concentrarsi sulla persona di Gesù. Va bene una vita irreprensibile, ma non basta. Occorre semplicemente Altro; siamo in un altro ordine di cose. Occorre seguire Gesù, fare strada con Gesù, abbandonare senza rimpianto tutto ciò che dis-trae da lui.
    Che cosa devo fare per avere. Notate i verbi: sono molto autoreferenziali. Sfogliamo il Vangelo, andiamo verso la fine e troviamo “il discepolo”: è un disgraziato, un ladrone, crocifisso con Gesù. Quali sono i verbi che coniuga? «Gesù, ricordati di me quando sarai nel tuo regno» (Lc 23,42).

    Torniamo a quel tale, a me e a ciascuno di voi. «Gesù, fissatolo, lo amò» (Mc 10,21). Ecco, cari amici di Carpegna, che cosa è venuto a fare il vescovo tra voi. È venuto semplicemente a dirvi, a ricordarvi, che Gesù guarda ciascuno di voi con immensa tenerezza. Credetemi!
    Il pastore è venuto a Carpegna per questo. Ho sentito tanta accoglienza, cordialità, affetto, al di là della mia persona. Vi ringrazio. Ho incontrato una comunità ospitale, pur con i suoi problemi e i suoi diverbi. L’ospitalità è la vocazione naturale di Carpegna, con i suoi terrazzi naturali spalancati e baciati dal sole. Poi ho trovato una comunità solidale. Ho visto impegno per gli altri, per chi è in difficoltà; non alludo solo alla Protezione Civile, ma a tante iniziative di cui ho sentito parlare, alla Casa “Paradiso” per gli anziani. Da qui lo slogan che vi vorrei lanciare. Sarebbe bello che in ogni casa di Carpegna ci fosse questa frase: «La mia casa è aperta al sole, agli amici, a Dio». Così ho sentito stando tra voi, girando su e giù per questi terrazzi naturali, accompagnato dal vostro giovane parroco. Penso ai saluti cordiali del mattino al bar e per le vie del paese, quasi un ricamo. Penso alla cura per l’infanzia, per i ragazzi, alle scuole, all’oratorio, agli Scout, ai genitori che hanno trascorso una serata di laboratorio con me. Ad un gruppo di loro ho chiesto di scrivere il decalogo dell’educatore. L’idea mi è venuta vedendo le pietre disegnate dai catechisti con i dieci comandamenti. Sono uscite delle affermazioni bellissime, tra le quali mi ha sorpreso questa: «Si educa col sorriso». Ovviamente, dietro al sorriso c’è tutto un pensiero, una pedagogia. Un altro gruppo di genitori ha scritto ironicamente i capitoli per un manuale del perfetto diseducatore, in cui sono stati autodenunciati gli atteggiamenti sbagliati (a volte si fanno degli errori quando si educa). Un altro ha scritto una lettera aperta ad un ipotetico Paolo, un preadolescente.

    Case aperte al sole, agli amici e a Dio. Ho visitato tante case che hanno accolto Gesù in persona, l’Eucaristia. C’è in Carpegna un monastero invisibile che trapunta tutto il paese, dove si continua a soffrire – ahimè – ma si prega e, soprattutto, si continua ad amare. Carpegna è un paese sano; l’ho avvertito nella serata passata al municipio. Non solo tolleranza, ma di più, cortesia e amicizia, a tal punto che un vescovo, in un luogo laico, ha potuto pronunciare il nome di Gesù senza difficoltà. Perché quando c’è amicizia ognuno può dare quello che ha incontrato, senza pretesa di comandare o di esibire privilegi.
    Ho visitato anche il Poligono militare. Lì si è parlato della pace e, con le Forze dell’ordine, i Carabinieri Forestali, di educazione.
    In parrocchia, ho visto laici non solo con deleghe («Tu fai così… »), ma per collaborazione e, più ancora, corresponsabilità: la parrocchia ci appartiene. Ci sono diversità di gruppi e di associazioni in spirito di comunione. Il Consiglio pastorale, con la direzione del parroco, deve garantire, insieme alle proposte di devozione (che sono tante), proposte di formazione solida per tutti, anche per quelli che non fanno parte di nessun gruppo. Una formazione per gli adulti, un po’ come viene garantita a tutti i ragazzi indipendentemente che siano Scout o no. In parrocchia occorre immaginare un tipo di formazione che vada al di là delle singole appartenenze. Potrebbe essere di aiuto in questo l’Azione Cattolica, con le sue caratteristiche.

    Torniamo a quel tale, io e ciascuno di voi. Il Vangelo dice che se ne andò via col volto scuro e triste. Si era ripiegato su se stesso. Aveva tutto, ma gli mancava la cosa più necessaria, più utile, più bella: guardare Gesù, incrociare i suoi occhi che lo amavano, occhi pieni di tenerezza.
    Il mio messaggio ai carpignoli è quello di non guardarsi, non perdere tempo, ma guardare a Lui. Allora i vostri volti saranno sempre più raggianti.

    Omelia in occasione delle S. Cresime a Fratte

    Fratte, 7 ottobre 2018

    S. Cresime

    Gen 2,18-24
    Sal 127
    Eb 2,9-11
    Mc 10,2-16

    (da registrazione)

    Cari ragazzi,
    si avvicina il momento della Santa Cresima. Mi rivolgo a voi, ma anche a tutta la comunità, perché quello che accadrà in questa chiesa ha molto a che fare con la Pentecoste, quando lo Spirito di Dio scese sul gruppo dei discepoli di Gesù. Erano discepoli spaventati, discepoli che vedevano come un’impresa smisurata quella di annunciare il Vangelo fino agli estremi confini della terra: erano semplici pescatori. Poi fra loro vi erano litigi, perché si chiedevano: «Chi è il più grande fra noi?» (cfr. Mc 9,33-36).
    La prima cosa che mi viene da dirvi è che dobbiamo aiutarci ad avere fede. A scuola e negli ambienti che frequentate incontrerete persone di cultura diversa, di differenti convinzioni. Un gruppo di studenti delle scuole superiori, che ho incontrato la scorsa settimana in parrocchia, mi ha confidato che nella loro classe tutti i compagni si dichiarano atei. Voi, tra poco, rinnoverete le promesse battesimali. Anche per voi verrà il momento del combattimento, in cui vi chiederete: «Sarà vero quello che il mio parroco mi ha insegnato? Sarà vero quello che i catechisti mi hanno continuamente ripetuto? Sarà vero quello in cui crede la mia famiglia?». Ricorro spesso, quando parlo ai ragazzi, a questa immagine. Se noi potessimo, per assurdo, fare un’intervista ad un bimbo prima che nasca, quando è ancora nel grembo della mamma e chiedergli: «Com’è la tua mamma? Che colore hanno i suoi capelli? E i suoi occhi?». Lui non saprebbe cosa rispondere. Eppure non c’è nessuno di più intimo a quella mamma di lui. Ma lui non la conosce, non la vede, non la sente, se non indirettamente. Così siamo noi. Il Signore Dio è un grande mistero che ci avvolge, è un amore infinito, ma noi ancora non l’abbiamo visto e possiamo solo credere. Se vedessimo, non ci sarebbe bisogno della fede. La fede è fiducia. «Mi lascio cadere in te, Signore, chiedo la forza del tuo Spirito per potermi mantenere fedele». Mi sovviene di paragonare la fede anche ad una rete nella quale ci si può lanciare, una rete che ci sorregge, nella quale siamo sicuri che verremo custoditi, non cadremo per terra. Un’altra immagine mi viene dalla città da cui provengo, Ferrara, la “città delle biciclette”. Quando si pedala la dinamo fa luce: più si pedala e più ci si vede. Così è la fede: più ci si fida, più ci si vede.
    E che cosa fa lo Spirito Santo? Ci unisce, perché tutti abbiamo lo stesso Spirito, e suscita in mezzo a noi tanti doni, tanti carismi, per l’utilità comune.
    Questa domenica, attraverso la pagina del Vangelo, lo Spirito ci dà di comprendere e contemplare la bellezza di una grande vocazione, la vocazione della maggioranza delle persone, il matrimonio. Tutto parte da una parola di Dio. «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2,18). Dunque, il male originale, il primo che è apparso sulla terra, prima ancora del peccato, è la solitudine, perché non c’è nessuno che basti a se stesso, nessuno che possa essere felice da solo. Neppure il paradiso è sufficiente. Per questo Dio dice: «Farò un aiuto che gli corrisponda». Questo aiuto, all’inizio, fu Eva per Adamo e Adamo per Eva. Eva è stata data ad Adamo nel sonno, perché è un dono. Adamo non se l’è costruita da solo, non è una sua creatura. È stata tratta dal fianco (da una costola), perché pari nella dignità, ineffabilmente attraente. L’uomo e la donna, insieme, sono chiamati ad un amore per sempre. All’inizio, prima della «durezza del cuore» (Mc 10,5), era proprio così. «I due formano una carne sola» (Gn 2,24). Poi, con la «durezza del cuore», col peccato, sono venuti i distinguo, le concessioni legali, i ripudi legittimati. Ma Gesù fa agli sposi il dono del matrimonio. Il sacramento del matrimonio è una vocazione, è un dono, è una missione. Quando si è ragazzi si pensa al matrimonio come al momento in cui andare finalmente a vivere insieme, ecc. No, il matrimonio è una missione. Ci si accorge di questo col passare degli anni, quando all’innamoramento succede un amore che interpella. Credo che nei momenti di difficoltà, che non mancano in nessuna coppia, ci sia tanto bisogno di fare memoria del sacramento che ha unito lo sposo alla sposa: quel sacramento continua a vivere e ad operare, è sorgente di forza e di luce. Ripensare a quel giorno, quando abbiamo messo sull’altare il nostro amore umano – sicuramente grande, bello, significativo – e poi, al termine della liturgia, ci è stato ridato con un valore aggiunto, perché lo sposo amerà la sua sposa come Gesù ama la Chiesa e la sposa avrà la prova dell’amore di Gesù attraverso la tenerezza del suo sposo (e viceversa). Ecco cosa fa lo Spirito Santo. «L’uomo e la donna saranno una carne sola. L’uomo non osi separare ciò che Dio unisce» (cfr. Mc 10,8-9). Oggi immagino che nelle parrocchie del mondo, chiunque debba prendere la parola su questo brano di Vangelo, può sentirsi in imbarazzo, perché in tutte le nostre famiglie c’è qualche problema; non tutti sono riusciti a mantenere l’impegno dell’indissolubilità. Se fossero qui presenti, vorrei dire loro come dice Sant’Agostino: «Anche se il matrimonio è andato in crisi, per i motivi che la vostra coppia conosce, sentitevi parte della comunità; la comunità prega per voi, evita accuratamente i giudizi e vorrebbe accompagnarvi durante il tempo del discernimento, per capire bene cosa è accaduto».
    In questi giorni, a Roma, il Papa ha convocato il Sinodo sui giovani. Attenzione, lo studio parte dai giovani ma in realtà riguarda noi adulti. La Chiesa cerca di ringiovanirsi, di essere sempre più piena di entusiasmo, perché al Signore si arriva non per un’imposizione, per un decreto, per dei divieti, ma perché ci si innamora di lui. Allora bisognerebbe sempre che le nostre comunità, ancorché siano ridimensionate rispetto ad una volta, siano entusiaste, piene di Gesù. E Gesù – state certi – è attrattivo. «Vieni Spirito Santo, vieni nei nostri cuori, nei cuori di questi ragazzi e nei cuori di noi adulti». Così sia.

    Omelia nella XXVII domenica del Tempo Ordinario

    Macerata Feltria, 6 ottobre 2018

    Messa di chiusura della Visita Pastorale

    Gen 2,18-24
    Sal 127
    Eb 2,9-11
    Mc 10,2-16

    (da registrazione)

    1.
    Mi è bastata poco meno di una settimana per affezionarmi sinceramente alla parrocchia di Macerata Feltria. Ho incontrato solo una minima parte di voi, considerato che la vostra comunità è di circa 2000 persone; tuttavia, sono stati incontri sufficientemente profondi per poter dire che vi stimo tanto. Ho condiviso con voi preoccupazioni e speranze. Questa mattina ho incontrato il signor Sindaco, la Giunta, la Protezione Civile, i Vigili Urbani e i rappresentanti di varie realtà civili. Pur nella distinzione degli ambiti e dei ruoli – Gesù ha detto di «dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare» (Mt 22,21) –, ho visto che c’è dialogo e collaborazione. Il municipio e la parrocchia, in fondo, si rivolgono agli stessi soggetti e lo fanno per cercare il bene comune.
    Ho incontrato varie realtà educative: è stato molto bello per me sentire che c’è sensibilità nei confronti dell’emergenza educativa. Ho incontrato le realtà dello sport, una dimensione importante per i nostri ragazzi, di socializzazione e di maturazione. Bellissimo l’incontro con le scuole, dal nido alle scuole medie. Ho potuto lasciare ai ragazzi questo messaggio: «Non dire mai “sono troppo piccolo per…”», intendendo per portare pace, per lasciare una scia di buonumore, per portare Gesù, perché – lo dice il Concilio –: «I primi apostoli dei ragazzi sono i ragazzi stessi» (AA 11). Poi, c’è stato l’incontro con gli insegnanti; con loro ho potuto sottolineare la responsabilità del grande tema della comunicazione. «Comunicare: verbo infinito!», soprattutto con gli strumenti di oggi, così importanti e così delicati. Ma la prima e fondamentale legge della comunicazione resta la cura dei rapporti: insegnare la relazione con le sue regole di verità, di accoglienza e di benevolenza. Saper guardare negli occhi.
    In questi giorni, poi, ho fatto visita a 30-35 famiglie, dove ci sono anziani e ammalati. Non è stato possibile raggiungere tutti, ma ho visto tanta fede, tanta pazienza, tanto amore. Per me è stata una grande lezione vedere persone che continuano a soffrire, continuano a pregare e continuano ad amare. Ugualmente sono stato toccato dalla visita del Centro Santo Stefano e della Villa Verde; ho visto grandi sofferenze, ma anche una direzione molto qualificata dal punto di vista della professionalità di chi cura i nostri ammalati, alcuni molto gravi. Mentre dicevamo qualche preghiera con don Graziano mi veniva da pensare: «Chissà attraverso quale feritoia il Signore arriva alla mente di queste persone… ». A noi sembrano un muro di marmo, eppure sono creature del Signore. In loro risplende la vita di Gesù.
    Poi ho vissuto l’incontro con la parrocchia, con i tanti gruppi: è bello vedere una parrocchia articolata, perché diverse sono le età, diversi sono i carismi, le attitudini, le attenzioni. Tutti i gruppi mi hanno mostrato tanta accoglienza, con l’aiuto di don Graziano. Penso ai Consigli pastorali parrocchiali e degli affari economici. Tanti lavori sono stati completati in questi anni, tanti recuperi artistici, con l’aiuto di benefattori. Ho trascorso un po’ di tempo con i catechisti, così preoccupati e desiderosi di indovinare modalità e metodo per coinvolgere i bambini. Oggi non funziona più fare catechismo come in passato; bisogna cercare modalità nuove, anche se, alla fine, abbiamo capito che la fede si trasmette nella relazione. Conta soprattutto che quando si viene in parrocchia ci si senta accolti, amati, festeggiati, perché la parrocchia è il luogo dove si è più vicini a Gesù. Nell’incontro con gli operatori Caritas si è riso e pianto, si è condiviso e si è ascoltato. Poi penso al coro e all’animazione liturgica. Sono contento che in parrocchia ci siano chierichetti, ministri istituiti e ministri straordinari della Comunione. Li incoraggio. Fra una settimana arriverà anche un gruppo di fidanzati per prepararsi al grande passo del matrimonio. Poi, il gruppo degli sposi e i genitori dei bambini e dei ragazzi del catechismo.

    2.
    Stando in mezzo a voi ho colto tre emergenze: la famiglia, i giovani, il lavoro.
    La meravigliosa pagina della Genesi che abbiamo letto illumina la storia di ogni famiglia. Tutto parte da una parola formidabile di Dio: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2,18). Dunque, il male originale, il primo che è apparso sulla terra, prima ancora del peccato, è la solitudine. Non c’è nessuno che basti a se stesso, nessuno che possa essere felice da solo. Neppure il paradiso è sufficiente. Per questo Dio dice: «Farò un aiuto che gli corrisponda». Questo aiuto è Eva per Adamo e Adamo per Eva. Eva viene data ad Adamo nel sonno, perché è un dono per l’uomo; non ne è padrone, visto che gli è venuta nel sonno. Tratta da una costola, perché pari nella dignità e ineffabilmente attraente. L’uomo e la donna, insieme, chiamati ad un amore per sempre. Mi rendo conto che la nostra mentalità moderna fa fatica a capire il “per sempre”; ma il “per sempre” non fa stancare, anche se sembra che non ci sia niente di nuovo, perché il tu che mi sta di fronte e mi completa è un infinito. E quando dici “basta!” sei finito (Sant’Agostino). All’amore non c’è mai fine.
    Vi racconto una confidenza familiare. Io sono l’ultimo nato dei miei fratelli; sono uscito di casa da bambino per andare in Seminario, perché volevo fare il prete, e sono tornato a vivere con i miei genitori quando ero giovane sacerdote e loro erano anziani. Qualche volta li ho sorpresi, ormai ultrasettantenni, a scambiarsi un bacio. Ma ricordo anche che, quando discutevano animatamente, mia mamma diceva che sarebbe andata a lavorare fuori… Il “per sempre” è un progetto di Dio. La famiglia è una missione: col passare del tempo si scopre di essere responsabili davanti alla vita, davanti alla società, davanti alla Chiesa. All’inizio, prima della «durezza del cuore» (Mc 10,5), era così, si viveva l’uno per l’altro. «In principio… » era una grande grazia. Poi, con la «durezza del cuore», dopo che il peccato è entrato nel mondo, sono venuti i distinguo, le concessioni legali, i ripudi legittimati. Ma Gesù fa agli sposi il dono del sacramento del Matrimonio. A volte si pensa poco al sacramento, ma esso è un torrente che scorre: si può sempre attingere alla grazia (reviviscit, si dice in teologia). Mi è capitato di dire a qualche coppia in difficoltà che non sono uno psicoterapeuta e neppure un esponente di un’agenzia, ma che li invitavo a pregare e a confidare nel sacramento che avevano ricevuto. Il sacramento dà tutte le grazie necessarie, nel momento opportuno, per aver pazienza, per perdonare, per aver fiducia nell’altro, per ricominciare sempre. Potrei raccontare diversi casi in cui il sacramento del Matrimonio ha fatto miracoli. L’amore umano viene consacrato da Gesù e riconsegnato con un valore aggiunto. Quando due ragazzi vengono all’altare, posano le fedi su di esso, il sacerdote pronuncia la formula del sacramento e, quando scende dai gradini, porge loro gli anelli; ebbene, loro sono venuti qui con il loro amore umano – sicuramente grandissimo – ma, dal momento in cui mettono l’anello, acquistano un valore aggiunto: «I due saranno una carne sola» (Mc 10,8).

    3.
    La seconda emergenza sono i giovani, che sono la nostra gioia e la nostra delizia, ma anche la nostra preoccupazione: è quanto è uscito dagli incontri e dai colloqui con molti di voi. Attenzione, il problema dei giovani è il problema degli adulti. Il primo compito delle nostre comunità è quello di vivere un’autenticità gioiosa, che affascina i giovani. Ai giovani vanno comunicate cose piccole ma vere, non le “vernici”; i giovani non ne vogliono sapere delle “vernici”, del perbenismo, del “si è sempre fatto così”. Ma se diciamo con convinzione quello che abbiamo sentito quando abbiamo incontrato il Signore, se gli raccontiamo come l’abbiamo incontrato, prima o poi faremo breccia nei loro cuori. Poi ci sono i nostri errori, gli errori e gli orrori della Chiesa, a creare ostacolo, ma ciò che allontana i giovani è la mancanza di ascolto e che non li coinvolgiamo. Attenzione, sarebbe sbagliato ridurre la Chiesa a queste mancanze. Oggi esiste un clima culturale che tende ingiustamente a presentare male la Chiesa. Noi dobbiamo far sentire che la proposta cristiana è prima di tutto un dono, un annuncio d’amore, e non è riconducibile ad una mera serie di precetti o di divieti.
    In questi giorni, a Roma, si è aperto un Sinodo sui giovani. In verità è soprattutto un Sinodo sulla comunità cristiana, perché parlare dei giovani significa parlare di noi adulti e del rinnovamento delle nostre comunità cristiane. Gli ambiti coinvolti sono tanti: la liturgia, l’impegno di carità, la testimonianza della misericordia. Nella nostra piccola diocesi di San Marino-Montefeltro, grazie all’Ufficio di Pastorale Giovanile, c’è un tessuto tenue, ma saldo, legato alle diverse forme di associazionismo cattolico. Penso all’Azione Cattolica, agli Scout, a Comunione e Liberazione, ai Giovani Valconca. Bisognerebbe agganciare i nostri ragazzi quando c’è qualche bella manifestazione, come la Giornata Mondiale della Gioventù, i campeggi diocesani, ecc. In quelle occasioni possono fare amicizia con chi appartiene a queste associazioni. È vero che ci sono molti giovani che si sono allontanati e non frequentano ordinariamente la comunità e c’è il rischio di una visione alleggerita dell’essere cristiano. Occorre impegnarsi perché non si vanifichi la bellezza dell’essere discepoli di Gesù, di vivere nella sua pienezza. A volte i nostri giovani si sentono vagamente cristiani, ma perdono il nucleo essenziale dell’esperienza cristiana, il cuore della fede che è l’incontro con Gesù. È la gioia cristiana che può affascinare i nostri ragazzi.
    La conclusione potrebbe essere questa: mettersi in ascolto dei giovani, cercando occasioni di incontro e di dialogo, anche con le nostre povertà e i nostri limiti. Non possiamo gareggiare con i centri benessere o i centri di divertimento, ma con quella gioia artigianale che viene dalla nostra vita. Poi, impariamo a sognare con i giovani, proviamo a guardare il mondo con i loro occhi. A volte abbiamo dei preconcetti nei loro confronti, ma capita anche di essere smentiti. A me è capitato: ho accompagnato 75 giovani della nostra diocesi a Cracovia per la Giornata Mondiale della Gioventù; siamo stati insieme quindici giorni. Sono rimasto colpito dal rispetto che avevano reciprocamente. E infine è importante offrire una testimonianza coerente; ad esempio, non si può invitare alla preghiera se non si prega per primi…
    Del lavoro parleremo in altra occasione.

    4.
    Lascio un messaggio alla parrocchia di Macerata Feltria: «Continuate ad essere belli come la vostra chiesa». Questa è una bellissima chiesa di pietra, voi siete la Chiesa viva. Essere belli vuol dire essere sempre in grazia di Dio. Fate così: fuggite il peccato e, se vi capita di sbagliare, andate subito a confessarvi. Se c’è la grazia santificante, anche se non ce ne accorgiamo, Gesù è in mezzo a noi ed è attrattivo: questa è la risposta a tutti i nostri problemi. Sia lodato Gesù Cristo.

    Omelia nella celebrazione eucaristica in occasione dell’Investitura dei Capitani Reggenti

    San Marino (Basilica del Santo), 1 ottobre 2018

    Gc 3,13-18
    Sal 84
    Mt 5,38-48

    (da registrazione)

    Abbiamo ascoltato un tratto della Lettera di Giacomo, una delle grandi figure della Chiesa primitiva, il primo vescovo di Gerusalemme, chiamato anche «il fratello del Signore» (Gal 1,19). Giacomo scrive a dei cristiani che attraversavano tentazioni e difficoltà. Dopo la conversione e il primo entusiasmo, via via erano andati perdendo di lucentezza, di coraggio, di speranza. Non c’era più mordente nella loro vita cristiana. La Lettera di Giacomo non è un trattato di teologia, piuttosto un insieme di consigli pratici, neppur tanto collegati tra di loro, ma riconducibili ad un denominatore comune: non basta ascoltare il messaggio, bisogna viverlo. «La fede senza le opere – scrive Giacomo – è morta» (Gc 2,26). Ecco le incongruenze che Giacomo denunciava nei cristiani di allora: fanno distinzione di persone (non trattano tutti allo stesso modo); mancano di carità facendo cattivo uso della lingua (parlano male gli uni degli altri); sono litigiosi; consolano a parole i poveri ma non fanno niente per aiutarli; ci sono tra loro persone che pensano solo al guadagno; alcuni si sono arricchiti defraudando il salario agli operai. Di fronte a tutto questo, Giacomo riafferma il comandamento supremo dell’amore che deve tradursi in gesti concreti. Non bastano le semplici dichiarazioni d’intenti. Conclude, poi, mettendo a confronto, una sapienza «che non viene dall’alto, terrestre e materiale», con «una sapienza che viene dall’alto» (cfr. Gc 3,15-17). Sapienza, nella lingua italiana, richiama il sale, ciò che dà sapore, gusto. La sapienza che viene dall’alto è piena di virtù; una sapienza che rende bella la vita davanti a se stessi – che è la cosa più importante – e davanti agli altri. La sapienza è ardua da conquistare, anche se poi, nel contesto del Nuovo Testamento, la sapienza è un dono dello Spirito di Dio. Sembra che Giacomo sottolinei di più l’aspetto dell’impegno, definendola ardua da conquistare, ma gustosa.
    Sentite l’elenco delle virtù che ne sono corredo. La sapienza è pura, pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale, sincera: sette virtù. La virtù è stata definita in vari modi; ad esempio, si parla di virtù come controllo della ragione su se stessi, virtù come giusto mezzo per evitare gli eccessi, oppure come abito operativo, abitudine al bene, quindi come stile. Soltanto l’uomo virtuoso dentro, nella sua radice, compie atti buoni. Gli vengono, per così dire, naturali. Le possibilità morali dell’uomo affiorano da una tendenza costante al bene. Gesù dirà: «Non può un albero buono fare frutti cattivi» (Mt 7,18). D’altra parte, in che cosa consiste questa bontà dell’uomo se non in una disposizione permanente dell’animo, capace di sussistere al di là dei singoli atti. Come educarci alla virtù, giacché la cura dell’anima è la cosa più necessaria, più utile, più bella? Ci si educa anzitutto coltivando pensieri di bene. Tutto, in fondo, si gioca laddove uno è solo con se stesso. Ci si educa custodendo quel progetto di vita che è illuminato dalla «sapienza che viene dall’alto», ma anche con la ripetizione di atti virtuosi, con l’ascesi. Quest’abitudine buona facilita e rende più disinvolto, meno esitante, il nostro fare il bene e accresce la libertà interiore, lo spessore di una vera humanitas. Certo, non mancano i sospetti sulla virtù e più ancora sui cosiddetti virtuosi. Gesù stesso ha insistito sulla necessità del “cuore obbediente” più che degli “atti obbedienti”.
    C’è chi mette nella virtù qualcosa che rimpicciolisce; per esempio un freno che inibisce la spontaneità, oppure come un “tic tac”, una routine ordinata ma senza slanci. Per non dire l’ipocrisia, gli atteggiamenti di facciata, per convenire al perbenismo. Talvolta, si intende la virtù come assenza di coraggio per adeguarsi all’educazione comunemente accolta, recepita. I virtuosi allora vengono paragonati ai ciottoli che il torrente ha levigato; non hanno spigoli, sono puliti, rotondeggianti, probi, ma non è questa la virtù. Accogliamo questa critica che smaschera atteggiamenti equivoci. La virtù autentica è un progetto di vita, è il costante, personale impegno ad imprimere una direzione al proprio agire, fino alla fedeltà alle piccole cose. «Chi è fedele nel poco, sarà fedele anche nel molto» (Lc 16,10). Ci sono virtù indispensabili e fondamentali che la tradizione chiama cardinali in quanto sono i “cardini” che sostengono l’impianto della nostra vita e delle nostre relazioni: la giustizia, la fortezza, la prudenza, la temperanza. Quattro virtù che il cristianesimo ha trovato nell’Antico Testamento e che erano proprie del pensiero antico.
    La pagina evangelica ci dice che la cosa più importante, la meta, il fine, il motore di tutto è la carità. Con l’autorevolezza del suo «Ma io vi dico» (Mt 5,39), Gesù ci invita a tendere alla perfezione. «Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei Cieli» (Mt 5,48). Quanta stima verso l’uomo, verso ogni persona! Che bellezza, che audacia, che ideale! San Marino preghi per noi e ci ottenga la sapienza che viene dall’alto.

    Omelia nella XXVI domenica del Tempo Ordinario

    Macerata Feltria, 30 settembre 2018

    Apertura della Visita Pastorale nella parrocchia di Macerata Feltria

    S. Cresime

    Num 11,25-29
    Sal 18
    Giac 5,1-6
    Mc 9,38-43.45.47-48

    (da registrazione)

    1.
    Rispondo ad alcune domande: «Chi sono io?».
    Sono il Vescovo di San Marino-Montefeltro. Venendo da fuori, posso dire che la nostra diocesi è molto bella e posso anche testimoniare che è completa, anche se non è una diocesi grande come quella di Milano o di Firenze. Consiste in 860 km2, ma in gran parte è spopolata… Molte persone hanno cercato lavoro e possibilità di miglioramento per la loro famiglia altrove, emigrando. È composta da 82 parrocchie, comprese quelle più piccole. Nella diocesi risiedono cinquanta sacerdoti, sedici religiosi e sette monasteri di clausura. Inoltre, sono presenti tre eremiti e dieci diaconi (proprio ieri ne sono stati consacrati due; uno di loro faceva il camionista: il Signore chiama chi vuole, quando vuole e dove vuole). Questa diocesi ha un vescovo. Quelli che vengono a Messa conoscono il mio nome, che viene incastonato nel Canone, la grande preghiera della Chiesa, dove accade la consacrazione del pane e del vino. Vengo nominato non per manie di grandezza, ma perché, fin dall’antichità, i cristiani hanno avuto coscienza che il vescovo è successore degli apostoli: è colui che testimonia la risurrezione di Gesù. Furono gli apostoli a vedere Gesù Risorto e Gesù a loro ha affidato il compito di annunciare. Gesù ha voluto che anche i discepoli e le donne, tutti, fossero annunciatori della sua risurrezione. Siamo qui, cari amici, questa domenica, non perché siamo appassionati di un morto, Gesù, ma perché siamo appassionati di un vivo: Gesù è vivo in mezzo a noi!

    2.
    «Che cosa viene a fare il Vescovo nella nostra parrocchia? Viene a fare l’ispettore?».
    No, non è questo lo scopo della visita. La Visita Pastorale è una sorta di piccola missione. Il Vescovo viene per incoraggiare, perché i tempi sono duri, per tutti; e viene per riscaldare i cuori. È vero, è finito il cattolicesimo sociologico, cioè “automatico”, legato alle vicende del territorio e della storia locale. Oggi il cristianesimo diventa sempre di più un’opportunità nella libertà e nell’accoglimento della grazia. Forse le nostre comunità oggi si sono rimpicciolite, ma devono essere vivacissime, entusiaste. Qui si viene – rispondo così all’ultima domanda – per incontrare Gesù. Segno della sua presenza è anzitutto la sua Parola. Incontriamo Gesù anche nei segni sacramentali: «Tutto quello che fu visibile del nostro Redentore è passato nei segni sacramentali» (SAN LEONE MAGNO, Tractatus 74, 2: CCL 138 A, 457). Ci sono dei gesti che Gesù stesso ha pensato, voluto e istituito. Ne nomino solo alcuni, ma tutti e sette i sacramenti sarebbero da dire cantando, pieni di gratitudine, perché in quell’umile segno il Signore Gesù dà appuntamento ai suoi discepoli.

    3.
    Pensiamo al Battesimo. La stragrande maggioranza di noi è battezzata, è stata tuffata simbolicamente nell’acqua, ma in verità il tuffo era ad altre profondità, era addirittura nella vita di Dio. Da bambini non comprendevamo; l’hanno fatto per noi i genitori e i padrini e le madrine. Sono state pronunciate su di noi alcune parole. «Tu sei figlio, figlio mio» (cfr. Mc 1,11). Pensate, abbiamo un Dio che ci è dato. Poi continua: «Tu sei… l’amato». Questa parola fu pronunciata su Gesù. La parola «l’amato» («agapetòs» nella lingua greca), era parola che veniva riservata solo ad Isacco, il figlio della promessa. La «voce dal cielo» la pronuncia su Gesù e, nel Battesimo, è pronunciata su ciascuno di noi. Ognuno di noi è «l’amato». Vi chiedete spesso perché noi sacerdoti teniamo tanto a che veniate in chiesa la domenica. Ci teniamo perché ognuno di noi ha bisogno di sentire che all’inizio della nostra vita sta questa parola: siamo amati. Veniamo in chiesa per sentirci amati, per essere rincuorati in questa certezza. La terza parola che abbiamo udito nel giorno del Battesimo fu: «Tu sei mio compiacimento». Il Cielo, chinandosi su quella creatura che viene tuffata nell’acqua che simboleggia la vita di Dio, è pieno di gioia. E se uno dicesse: «Ma io sono un peccatore?»; per lui Gesù ha detto: «C’è più festa in cielo per un peccatore che si presenta e chiede umilmente perdono, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (cfr. Lc 15,7). E tutti abbiamo bisogno di conversione!

    4.
    Voglio nominare un altro sacramento, il sacramento della Cresima. Cari ragazzi, tra poco verrete qui davanti, stenderò le mani su di voi e invocherò lo Spirito Santo, insieme a don Graziano, affinché scenda su di voi. Poi verrete uno ad uno e ungerò la vostra fronte con un olio profumato. All’inizio sentirete l’umido di quest’olio sulla fronte, poi non sentirete più nulla, ma il simbolo rimane: il bacio del Signore non si cancellerà mai. Qualsiasi strada prendiate nella vita, qualsiasi esito avrà la vostra esistenza, sarete baciati dal Signore. Dicendo forte il vostro «credo», accettate di crescere come cristiani.

    5.
    Accenno ad un altro sacramento. Tra poco don Graziano, insieme con me, pronuncerà delle parole sul pane; sono le stesse parole che ha pronunciato Gesù: «Prendete e mangiate questo è il mio corpo dato per voi» (Mt 26,26).
    Ricordo che in parrocchia, quando mi chinavo sul pane e pronunciavo quelle parole, i bambini che venivano alla Messa, magari per la prima volta, si guardavano attorno stupiti, perché vedevano tutta la comunità che scendeva in un profondo raccoglimento. E io, che alzavo la voce durante la Messa per farmi sentire bene e per sgridarli un po’, dicevo sottovoce le parole di Gesù sul pane. Quel silenzio era emozionante anche per me sacerdote. Per noi sacerdoti che da tanti anni celebriamo la Messa c’è il rischio diventi un’abitudine. Invece quelle parole, ogni volta, sono straordinarie. Ecco la presenza di Gesù Risorto. Noi ci inginocchieremo davanti a Lui. Dopo la Comunione canteremo e ci uniremo alla festa di un popolo intero che si nutre di Gesù, ma, finito il canto, vorrei che ciascuno di voi ragazzi instaurasse nel cuore una conversazione con Gesù. Vi suggerirò brevemente come imbastire il vostro colloquio a tu per tu con il Signore.

    6.
    Farò soltanto una sottolineatura sul bellissimo brano del Vangelo di Marco. Mi ha colpito la sproporzione fra il gesto d’amore che Gesù prende come simbolo e la ricompensa: la ricompensa è il Regno di Dio, il gesto è dare un bicchier d’acqua fresca ad una persona che ha sete. La Parola del Signore è una rivoluzione, perché noi siamo abituati a fare le cose in modo contrattuale. Invece il Signore Gesù ribalta questa logica: «Basta un bicchiere d’acqua per ottenere il Regno di Dio». Mi viene da ripetere quello che dicevo tante volte nella mia comunità. Ora siete voi la mia comunità. «Non c’è amore? Non lamentarti: metti amore tu». Il bicchier d’acqua è soltanto un simbolo di tutto il bene che tu puoi fare e così farai crescere il livello umano e spirituale della comunità.
    Al rovescio – ma non mi soffermerò tanto – lo scandalo. La parola “scandalo” significa “inciampo” (in greco “trappola”). Dobbiamo stare molto attenti: basta un bicchier d’acqua per avere la ricompensa grande del Regno di Dio, ma basta uno scandalo per sentire quelle parole inimmaginabili sulla bocca di Gesù: «Meglio per lui che gli si metta una macina da mulino al collo… » (cfr. Mc 9,42). «Signore, non vogliamo essere di ostacolo alla fede di nessuno. Ti chiediamo perdono se qualche volta abbiamo scandalizzato. Vogliamo partecipare con papa Francesco alla purificazione della Chiesa». Accompagniamo papa Francesco con la nostra preghiera e la nostra comunione.

    Omelia nella S.Messa per l’Ordinazione diaconale di Luca Bernardi e Vittorio Fiumana

    Pennabilli (Cattedrale), 29 settembre 2018

    At 8, 26-40
    Sal 22
    Ef 4, 1-7. 11-13
    Gv 15, 9-17

    (da registrazione)

    1.
    Oggi la Chiesa di San Marino-Montefeltro è in festa per l’ordinazione diaconale di Luca Bernardi e di Vittorio Fiumana; sente, gode e proclama che il conferimento dell’Ordine Sacro del Diaconato è un frutto della risurrezione di Gesù. Viene data, per l’imposizione delle mani del Vescovo, la grazia secondo la misura del dono di Cristo. Egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, allo scopo di edificare il Corpo di Cristo (cfr. Ef 4,11-12).
    Secondo la testimonianza dei Sinottici (Marco, Matteo e Luca), Gesù aveva raccolto dodici uomini accanto a sé. «Salì sul monte – scrive l’evangelista Marco – chiamò a sé quelli che volle ed essi andarono da lui. Ne costituì dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni» (Mc 3,13-15). Contrariamente agli usi rabbinici Gesù stesso prende l’iniziativa della scelta: chiama a sé, chiama quelli che vuole, chiama sul monte. Questi sono gli amici speciali di Gesù e i suoi inviati, cioè apostoli. Sono con lui sia a motivo della permanenza con lui – «rimangono nel suo amore» (cfr. Gv 15,9) – sia per il fatto di essere mandati lontano da lui, ma non c’è contraddizione. Essi ri-presentano Gesù nella forza della sua venuta come Risorto: «Chi accoglie voi, accoglie me» (Mt 10,40). Questi amici di Gesù, nello stesso tempo, condividono il suo destino e vivono con lui un’esistenza pasquale, perché trovano la vita perdendola, passano dalla morte alla vita perché amano (cfr. Mt 16,25; 1Gv 3,14). Avete sentito, li chiama amici (cfr. Gv 15,15). Notate, le apparizioni pasquali sono per i discepoli degli invii in missione; lasciano in loro una forte impressione e li mettono in movimento, corrono (cfr. Gv 20,2-4). La risurrezione si ripercuote e si diffonde sotto forma di apostolato: «Mi è stato dato ogni potere – è il Risorto che parla – andate nel mondo intero» (cfr. Mt 28,18). Il modo di questi uomini di essere discepoli, di stare con lui, è di essere inviati. Attraverso loro la signoria pasquale si estende su tutte le nazioni. Dallo stare con lui, da questa immanenza, discende il loro andare, inevitabilmente. «Tutto ciò che fu visibile del nostro Redentore – l’abbiamo ripetuto tante volte in questi ultimi tempi – è passato nei segni sacramentali» (San Leone Magno, Tractatus 74, 2: CCL 138 A, 457). In voi, per la configurazione a Cristo, è dato di ripresentare il suo essere servizio d’amore: «Come il Padre ha amato me, io ho amato voi» (Gv 15,9).

    2.
    Avete sentito nella prima lettura qual è il servizio del diacono Filippo, e pure il vostro principale servizio, insieme alla carità e alla liturgia. È il servizio di cui ha più bisogno il nostro popolo: annunciare Gesù. Il diacono Filippo è docile allo spirito, è capace di salire sul carro e poi di andare al sodo nello spiegare le Scritture e quando scompare c’è grande gioia. La risurrezione impone alla predicazione un tema nuovo. Gesù annunciava: «Il Regno di Dio è vicino» (Mc 1,15) e i discepoli durante la loro “propedeutica” avevano ripetuto quell’annuncio. Adesso però è Gesù l’Annunciato, lui soltanto. Nel libro degli Atti, l’apostolo è definito come colui che è testimone della risurrezione. Colui che Gesù invia non è maestro in una dottrina, in una filosofia, in un’etica, ma annunciatore di un fatto. Ecco come un funzionario romano percepiva il crescente fenomeno cristiano: «Un certo Gesù, morto, che Paolo sosteneva essere ancora in vita» (At 25,19). Un bel biglietto di presentazione del cristianesimo! Preciso: non si trattava tanto del fatto della risurrezione in sé – magari su questo argomentiamo noi – quanto invece del risuscitato. Essi annunciano il Cristo Salvatore mediante la sua risurrezione. Se si fosse tolto loro quel nome non gli sarebbe rimasto più niente da dire. Sono apostoli perché proclamano Gesù Risorto. Come i Dodici, Paolo per divenire apostolo ha dovuto essere conquistato da Cristo e poi legato al suo mistero. Anche voi, ormai diaconi, siete apostoli per vocazione, per una chiamata, per una decisione, presa da Lui prima che da voi, «prigionieri a motivo del Signore» (Ef 4,1), come ci ricordava la seconda lettura. In altre parti Paolo dice prigioniero di Gesù Cristo, «ambasciatore del Vangelo in catene» (Ef 6,20), in catene per Cristo. Anche voi, prescelti, in catene per amore, per annunciare il Vangelo. Custodite in voi i segni di quel mistero. Nel vostro cuore risplenda la luce del volto di Cristo.

    3.
    Siete, e spero che lo restiate per tutta la vita, persone umili. Siete poveri, ma farete ricchi molti. Siete un sacramento della presenza del Risorto nel mondo. Non vorrei vi sentiste schiacciati, perplessi, imbarazzati per questo. Sentite quello che Gesù vi ha ripetuto: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate» (Gv 15,16). Azzardo: in un certo senso mi verrebbe da dire che Gesù muore perché siano fatti gli apostoli. Dice: «Per loro io consacro me stesso» (Gv 17,19). Gesù immola se stesso per voi, si perde in voi, perché voi siate Lui! Il sacramento che vi costituisce diaconi per sempre non si aggiunge come un optional, non è una semplice funzione esteriore, ma si identifica come una consacrazione pasquale. Il vostro servizio porterà frutto in questo: nell’essere in comunione con Cristo. Se rimanete in Lui, il chicco di grano che è Gesù, che è morto, porta frutto (cfr. Gv 12,24). È in questo modo che viene glorificato, ma porta frutto attraverso di voi, come attraverso i discepoli, i battezzati. In loro risuscita fecondo. Attenzione però, Gesù non è vivo perché voi lo annunciate, ma lo annunciate perché è vivo! Voi siete le mani, i piedi, il cuore del suo incontro con gli uomini. Allora «comportatevi in maniera degna della chiamata che avere ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità» (Ef 4,1-2). «Questo vi ho detto perché la gioia del Signore sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11) e ne goda la nostra Chiesa tutta. Così sia.

    Omelia nella celebrazione del Mandato agli operatori pastorali

    Pennabilli (Cattedrale), 23 settembre 2018

    Gv 20,11-18

    (da registrazione)

    All’inizio di questo nuovo anno pastorale, se fosse possibile, darei a tutti il biglietto per andare a Gerusalemme, perché vorrei salissimo insieme al sepolcro, dove era deposto Gesù, per rivivere lo stupore e la gioia delle donne e dei primi discepoli e per sentir risuonare, come la prima volta, l’annuncio: «Gesù è risorto. Non è qui. È vivo!» (cfr. Mc 16,6).
    In mezzo a noi ci sono tante persone che alla tomba vanno spesso, perché hanno dei loro cari, e piangono. Ci sono persone che, di fronte alla prospettiva di mettersi in cammino verso il sepolcro dove è deposto Gesù, si chiedono: «Chi ribalterà la grossa pietra?». Ognuno di noi ha “la sua grossa pietra”, quella che gli fa dire: «Schiacciato qui sotto non faccio ragionamenti, grido!». La grossa pietra può essere un perdono che non arriva o un perdono che non parte, un’abitudine di peccato che non si riesce a vincere o un dramma in famiglia. C’è chi arriva a dire «basta». Ma l’andare al sepolcro di Gesù, in quel luogo di buio, paradossalmente fa incontrare la luce.
    Vorrei trascinare tutti i miei fratelli per mano – per l’incarico che ho devo aprire la strada – per salire tutti insieme al sepolcro.
    Auspico che la nostra spiritualità sia connotata fortemente dalla risurrezione. Tutte le pietre verranno rovesciate se crediamo nel Signore Gesù! Quando arriviamo al Santo Sepolcro, è come se venissimo rimandati indietro. Pensiamo alle migliaia di pellegrini che sono saliti a Gerusalemme nel corso dei secoli. Pensiamo ai crociati andati per liberare il Santo Sepolcro. In questi ultimi anni i pellegrini sono triplicati. Alla tomba si ode una parola che ricaccia tutti indietro: «Non est hic!». È utile sentirci dire che il Signore non è lì. Sappiamo dove cercarlo.
    Nella lettura breve dei Vespri abbiamo ascoltato la narrazione di un incontro col Risorto. Maria di Magdala va alla tomba, ma non vede il Signore. Quando arriva, non lo riconosce. C’è una costante nei racconti di risurrezione: Gesù c’è, ma non viene riconosciuto. Non l’hanno riconosciuto i pescatori sul lago: lo riconoscono soltanto dopo aver ascoltato l’invito: «Gettate ancora le reti dalla parte destra della barca» (cfr. Gv 21,6). I due di Emmaus hanno fatto strada con Gesù senza capire chi fosse e l’hanno riconosciuto quando ha spiegato le Scritture e ha spezzato il pane: «Non sentivamo forse ardere il cuore dentro di noi mentr’egli ci parlava…» (cfr. Lc 24,32). Così Maria di Magdala: lo riconosce soltanto quando si sente chiamare per nome: «Maria!» (cfr. Gv 20,16).
    La nostra situazione di cristiani del terzo millennio non è così differente da quella dei primi discepoli. Loro lo vedevano, ma non lo riconoscevano; allo stesso modo noi facciamo fatica a riconoscerlo. Però, mettendoci in ascolto della Parola, credendo che è vera e cercando di viverla, sentiamo la sua presenza. Ad esempio, Gesù dice di «perdonare settanta volte sette» (cfr. Mt 18,22): proviamo, vedremo che cosa si muoverà dentro di noi. Gesù dice: «Siete sale della terra e luce del mondo» (cfr. Mt 5,13-14), accettiamo la sfida, vedremo quanta forza troveremo. Proviamo a vivere concretamente la Parola.
    Nel Vangelo di oggi (cfr. Mc 9,30-37) abbiamo letto che Gesù prende un bambino e lo mette «nel mezzo». Perché «nel mezzo»? Perché fosse equidistante. Quel bambino rappresenta “la fragilità”; è piccolo, reclama protezione, aiuto. Gesù lo mette «nel mezzo» affinché ognuno ne sia responsabile e possa fare qualcosa per quel bambino. Penso a quanto sta accadendo a San Marino, dove si sta lavorando ad una legge per l’introduzione dell’aborto. Anche noi siamo responsabili: quel bambino che non viene accolto è un fragile. Un altro fragile è sicuramente l’anziano, un altro l’ammalato, il profugo, ecc. Ognuno sa quali sono le fragilità in cui si imbatte ogni giorno. Quella fragilità è il bambino che Gesù mette nel mezzo. Ma il bambino nel mezzo è anche un maestro, perché i bambini sanno cavar fuori da noi il meglio, ci insegnano la fiducia, ci insegnano a ricominciare. Ad esempio, piangono e poi improvvisamente ridono…
    Concludo leggendo alcune righe di una preghiera di San Bernardo, uno dei più brillanti scrittori del Medioevo. È Gesù che parla con Maria di Magdala: «Donna, perché piangi? Chi cerchi? Colui che cerchi è con te, e non lo sai? Possiedi la vera, eterna felicità e piangi? Hai dentro di te quello che cerchi al di fuori. E veramente stai fuori, piangendo vicino a una tomba. Ma Cristo ti dice: il tuo cuore è il mio sepolcro: io non vi riposo morto, ma vivo in eterno. La tua anima è il mio giardino… Il tuo pianto, il tuo amore e il tuo desiderio sono opera mia: tu mi possiedi dentro di te senza saperlo, perciò mi cerchi al di fuori. Allora ti apparirò all’esterno, per riportarti nel tuo intimo e farti trovare nell’interno quello che cerchi fuori. Maria, io ti conosco per nome, tu impara a conoscermi per fede… Non toccarmi, perché non sono ancora asceso al Padre: tu non hai ancora creduto che io sono eguale, coeterno e consustanziale al Padre. Credi dunque questo e sarà come se mi avessi toccato. Tu vedi l’uomo, perciò non credi, perché non si crede quello che si vede. Dio non lo vedi: credi e vedrai». (S. Bernardo, In Passione et resurrectione Domini, 15,38)

    Omelia nella XXIII domenica del Tempo Ordinario

    Monte Cerignone, 9 settembre 2018

    S. Cresime

    Is 35,4-7
    Sal 145
    Gc 2,1-5
    Mc 7,31-37

    (da registrazione)

    Si narra nella Bibbia che un grande re – forse il più grande re d’Israele – la notte precedente la sua incoronazione si mise in preghiera. Sentì un’ispirazione interiore, un suggerimento dell’anima, proveniente da Dio, che diceva: «Che regalo vorresti per la tua incoronazione?». Il re rispose: «Signore, donami la sapienza, donami un cuore che sa ascoltare». Il Signore Dio lo apprezzò molto e gli disse: «Siccome non hai chiesto né oro, né ricchezze, né fama… ti farò dono della sapienza» (cfr. 1Re 3,5-15). Quel re era Salomone. Venne addirittura dall’Africa la famosa regina di Saba a rendergli omaggio, tanto era celebre la sua sapienza. Salomone dimostrava la sua sapienza elargendo pareri e sentenze colme di saggezza. Da dove gli veniva un parlare così sapiente? Gli veniva da un cuore che sa ascoltare.
    Accade così anche nella struttura delle nostre persone: chi è sordo non riesce a parlare; emette suoni, fonemi, farfuglia, ma non può pronunciare parole. Come metafora, ciò vale per la nostra vita, per i rapporti tra noi. Sai ascoltare veramente? Allora ti verranno parole adeguate o silenzi veri, cioè pieni di verità, sapienti.
    I primi anni che ero parroco, una sera dopocena, mi telefonò una persona in lacrime per darmi una notizia terribile: suo figlio aveva perso la vita in un incidente stradale. Quando le dissi che sarei andato subito a trovarla, si arrabbiò con me e mi disse che l’indomani avrei dovuto spiegarle perché era successo. Quella sera andai a dormire molto turbato, mentre provavo continuamente a mettere in fila i pensieri che avrei dovuto dirle. La mattina successiva chiesi al Signore di rendermi capace di ascoltare profondamente e di accettare come rivolte a me le parole che, eventualmente, avesse detto contro di lui. Lasciai da parte pensieri, concetti, parole e andai da lei solo per ascoltare il suo dolore. Quando la signora mi venne incontro l’abbracciai e lei mi raccontò quanto era successo e cosa provava. Se si ascolta profondamente, ci si coinvolge. Penso ai figli: ascoltano veramente i loro genitori? Anche al di là delle parole? E i genitori, ascoltano veramente? In qualche famiglia si parla tra sordi… un piccolo corridoio di tre metri sembra un labirinto. Quanti figli perduti nelle nostre case! Si possono perdere i figli anche in un piccolo appartamento, se non si ascoltano. Così insufficiente sono tante volte il nostro ascoltare e le nostre comunicazioni.
    Dalla metafora passiamo al racconto evangelico. Ecco un uomo – racconta il Vangelo –prigioniero del silenzio. Una vita chiusa, accartocciata su se stessa, come la sua lingua. Però, è un uomo fortunato, perché ha degli amici che lo portano da Gesù e gli dicono: «Trova un rimedio, perché vivere senza relazioni, senza poter sentire, senza poter parlare, è un non vivere. Ci vuole qualcosa di straordinario… Signore, fa qualcosa!». È bellissimo vedere il procedimento col quale Gesù restituisce quell’uomo alla relazione, al rapporto, che è vitale. Gesù lo porta fuori dalla folla e dalla confusione. Stabilisce un rapporto “a tu per tu” con lui, intimo. Poi, gli accarezza orecchi e bocca: c’è un contatto corporeo, quasi indiscreto. In bocca abbiamo solo tre cose: il respiro, la parola, la saliva. Ebbene, in questo contatto corporeo, il Signore Gesù mette la sua saliva sulle labbra del sordomuto. C’è, inoltre, un coinvolgimento empatico di Gesù: Gesù alza gli occhi al cielo, sospira, si coinvolge; ha di fronte un uomo che è privato della cosa più necessaria, il rapporto, e pronuncia la parola aramaica, «Effatà», che vuol dire: «Apriti!» (Mc 7,34). «Apriti!», come una finestra che riceve il sole, come uno scrigno dentro al quale c’è un tesoro, come una conchiglia che mostra una perla. Questo è il nostro cammino per diventare credenti.
    Dico a voi ragazzi: «Ascoltate le parole dei vostri genitori, dei catechisti, del parroco, dei vostri insegnanti, affinchè possiate incontrare Gesù, che vi renderà persone capaci di ascolto. Allora saprete dire parole sapienti, come il grande re Salomone». Questa è la Cresima: verrete qui davanti, anch’io compirò un gesto con un contatto fisico (traccerò un segno sulla vostra fronte), sentirete il profumo del sacro crisma (segno del bacio dato dal Signore sulla vostra fronte). Dopo mezz’ora non si sentirà più niente, ma quel bacio rimarrà per sempre. In qualsiasi posto andrete, qualsiasi cosa farete nella vita, quel bacio sarà indelebile. Auguri, per il vostro cammino e per il vostro incontro con Gesù.