Omelia nella XXXI domenica del Tempo Ordinario

Belforte, 4 novembre 2018

Dt 6,2-6
Sal 17
Eb 7,23-28
Mc 12,28-34

(da registrazione)

Oggi in Italia si ricorda la fine della Prima Guerra Mondiale, cento anni fa. Ognuno di noi ha qualche nonno o bisnonno che ha combattuto e, in molti casi, ha lasciato anche la vita. «Una inutile strage», disse papa Benedetto XV: 18 milioni di caduti. Abbiamo un dovere di riconoscenza verso di loro. Abbiamo il dovere di fare memoria. Preghiamo per tutti. Oggi faremo una grande invocazione per la pace.

Ho molte cose da dirvi alla fine di questa settimana trascorsa in mezzo a voi.  Quando penso a Belforte all’Isauro la prima immagine che mi viene in mente sono le chiavi attaccate alle porte. Le chiavi attaccate alle porte dicono fiducia. Belforte è un borgo nel quale ci si offre aiuto reciproco e il conoscersi bene è la prima risorsa insieme alla collaborazione tra municipio e parrocchia, tra istituzioni educative e associazioni, fino alla realtà che ho visitato poco fa: “Belfare” (geniale il nome!). Le chiavi attaccate alle porte mi hanno fatto ricordare che in una parrocchia soppressa della nostra diocesi, l’ex chiesa parrocchiale di Santa Flora in Sapigno (Anno Domini 1674), nella canonica è scolpita sulla porta una frase molto significativa: «Porta patens esto nulli claudatur honesto egenos vagosque induc in donum tuane concordia fratrum quovis muro tutior (Porta sii aperta, non chiuderti all’onesto. Fa’ entrare nella tua casa poveri e viandanti. La concordia dei fratelli è più sicura di qualsiasi muro)». A proteggere la casa e a darle sicurezza è l’amore che vi si vive.
L’adorazione e la preghiera hanno fatto da sfondo alla visita del Vescovo, in particolare durante il tempo della visita ai malati. Grande è il valore della preghiera: come le mani alzate di Mosè mentre il popolo combatte (cfr. Es 17,8-16). Dobbiamo recuperare la preghiera, soprattutto in famiglia. Due sono stati gli appuntamenti con maggior partecipazione. Al campo santo ho notato raccoglimento e devozione. Il primo messaggio che ho lasciato è la santità da cercare nella vita ordinaria, tra le persone a noi vicine, non in modelli astratti, ideali o sovrumani. Così, un laico può incontrare santi sul posto di lavoro, un vescovo nelle sue Visite Pastorali, un parroco nella benedizione alle famiglie, un paziente in un medico di ospedale e viceversa. Belforte ha l’onore di custodire la casa della Serva di Dio Maria Francesca Ticchi. È nata qui, è vostra concittadina, fa parte di voi, è cresciuta come le vostre bambine, poi, divenuta grande, ha chiesto con lo stratagemma di una bugia di poter consacrarsi direttamente al Signore. Una bugia perché si è spacciata per sua sorella un po’ più grande, che aveva lo stesso nome, con la complicità del parroco, perché non aveva l’età canonica per andare in convento. Gli innamorati sono pronti a tutto!
Il secondo messaggio, che ho dato nella cappella del cimitero, è stato un invito a riflettere sui Novissimi, cioè “le ultime cose”: morte, giudizio, inferno, paradiso. Un discorso sulla fine? In verità è stato un discorso sul fine della nostra vita, perché la domanda fondamentale è: «Per chi vivo?». Oggi abbiamo tanti idoli, tante sirene che ci condizionano e rischiano di schiacciarci nell’immanenza, nelle cose materiali. Recuperiamo la dimensione spirituale! Questo è stato oggetto del confronto con i membri del Consiglio pastorale. Provocatoriamente ho detto: «A Belforte come va con la fede?». La risposta è stata: «Gli anziani l’hanno mantenuta e la tengono salda, sono un esempio per tutti». In effetti, ho fatto visita a molti anziani e ho trovato persone di fede e di preghiera che ricevono ogni mese la visita del parroco che porta loro Gesù Eucaristia. «Noi adulti – hanno aggiunto – abbiamo tante distrazioni: impegni, lavoro, ambizioni, ecc. I giovani danno l’impressione di abbandono completo della pratica religiosa». Che fare? Anzitutto bisogna partire dal positivo che è in ognuno, perché ogni persona che viene al mondo nasce con una scintilla divina. Siamo fatti di Cielo e non può il cuore non aprirsi alla bellezza, alla bontà, alla verità: cos’è questo se non apertura a Dio? Da parte nostra – è stato detto – dobbiamo offrire ai giovani testimonianza pratica, esperienze forti, comunicazione che catalizza; occorre mettersi a livello dei ragazzi, cercare di accompagnarli, di ascoltarli e di suscitare in loro domande. Poi, essere vicini a loro in quella grande provocazione che è il dolore che, prima o poi, in un modo o in un altro, arriva e può dischiudere l’intelligenza, la coscienza e il cuore.
Ho incontrato scuole, istituzioni e associazioni e in quei contesti si è detto che la politica è «una forma alta della carità». Che altro è la politica se non ricercare il bene comune, mettersi a servizio di tutti, partecipare? E il volontariato che cos’è se non “fare volentieri”, con passione. Ringrazio per la cortesia, anzi per l’amicizia con la quale sono stato accolto nel Consiglio comunale, nelle scuole elementari e all’asilo nido.
Grazie anche della considerazione e del tempo che mi è stato dato durante la visita alle vivaci aziende di Belforte che assicurano lavoro e sono un presidio sul territorio.
Quanti incontri in questi giorni… Volti, nomi, situazioni. Vorrei, se fosse possibile, abbracciare tutti. Lo farò certamente con la preghiera. Ricordo i ragazzi e le frasi di Vangelo che mi hanno saputo dire quando ho chiesto loro: «Qual è la frase più bella del Vangelo?». Così ricordo gli sposi; insieme abbiamo meditato sul matrimonio come sacramento che aggiunge un valore inestimabile all’amore umano e dà forza a quella che è una vera e propria missione, la vita di famiglia.
Con un gruppo di adulti ho vissuto e meditato la pagina del Vangelo di Marco che racconta la risurrezione di Gesù: donne che vanno al sepolcro dove era stato posto Gesù, donne capaci di affrontare il dolore e l’oscurità della tomba e, proprio lì, l’annuncio della risurrezione: «È risorto! Non è qui». Se Gesù non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede (cfr. 1Cor 15,14). È proprio perché lui è vivo che ci riuniamo in assemblea come questa mattina, l’assemblea grande parrocchiale a Belforte o le assemblee delle chiese di Viano e di Torriola (almeno una volta ogni quindici giorni) o le assemblee occasionali a Campo, ma un’unica realtà parrocchiale, un unico cuore attorno al nostro don Franco del quale ho potuto conoscere da vicino la bontà, lo spirito sacerdotale, l’ospitalità. Sono stato una settimana in casa con lui: vitto, alloggio, lavoro pastorale e preghiera insieme, la sera e la mattina. Grazie don Franco!

Infine, ci portiamo a casa l’insegnamento dal Vangelo di oggi, un Vangelo che dobbiamo vivere per non essere “lontani” dal Regno di Dio, perché Gesù elogia così lo scriba che gli dice la sua frase di Vangelo: «Non sei lontano dal Regno di Dio, beato te» (cfr. Mc 12,34). Che Gesù lo possa dire anche di noi! Ecco: «Amare Dio con tutto il cuore… e il prossimo come se stessi» (Mc 12,30-31). La novità sta nell’unità di quelli che appaiono come due comandamenti distinti: amare Dio e amare il prossimo. Sono un unico comandamento. Dio non si presenta come concorrente dell’uomo. Sarebbe così se si dovesse scegliere fra l’amore per lui e l’amore per il prossimo. Ma – avete sentito – lo scriba adopera la congiunzione “e”, non la disgiuntiva “o”. Ed è anche la testimonianza che ci offre Gesù. Lui ha un grande amore per il Padre; questo amore lo trattiene sul monte a lungo a pregare e gli fa alzare gli occhi al cielo prima di gesti importanti, ma, nello stesso tempo, Gesù va ad incontrare malati, a soccorrere poveri e peccatori, a radunare folle disperse come pecore senza pastore. Dunque, un’unica fedeltà: a Dio e all’uomo.
Come messaggio per la Visita Pastorale vi lascio questa consegna: «Amare sempre, amare tutti, amare per primi». Così sia.

Omelia nella Solennità di Tutti i Santi

Pennabilli (Cattedrale), 1 novembre 2018

Ap 7,2-4.9-14
Sal 23
1Gv 3,1-3
Mt 5,1-12

(da registrazione)

La Prima Lettura è una pagina impegnativa tratta dall’Apocalisse, un libro di profezia per capire la storia, pieno di immagini. L’Apocalisse scrive di angeli ai quali è dato il potere di «devastare la terra»; effettivamente la storia ci appare caratterizzata da cuori assediati dal male, innocenze deturpate, coscienze ambigue, alleanze infrante, orizzonti oscurati, ingiustizie celate e ipocrisie palesi… Tuttavia – questo è il messaggio centrale dell’Apocalisse – c’è un angelo che sale da Oriente, che grida la fine di questa devastazione. Il compito di questo angelo è imprimere sulla fronte degli uomini il sigillo di Dio: un tau. Il tau è una lettera dell’alfabeto ebraico a forma di croce. Gesù un giorno dirà che ogni discepolo deve portare il tau, cioè la croce. Chissà se Gesù non alludesse tanto al suo supplizio sulla croce, ma al compiersi di una pagina del profeta Ezechiele, il profeta sfortunato (come spesso accade ai profeti) che deve assistere alla distruzione di Gerusalemme. In visione scorge uno scriba vestito di bianco mandato da Dio a perlustrare la città e a mettere il segno del tau sulla fronte di quelli che in questa dissoluzione, nonostante tutto, continuano ad avere fiducia in Dio: «Uomini che sospirano e piangono per tutti gli abomini che vi si compiono» (Ez 9,4). Probabilmente Gesù pensava davvero a questa pagina del profeta Ezechiele. Ma il numero dei salvati di cui parla l’Apocalisse è 144.000, un numero iperbolico (12 per 12 per 1000), un po’ come le stelle che Abramo aveva l’incarico di contare (cfr. Gn 15,5), tanti sono coloro che vengono salvati da questa devastazione. Detto in termini più semplici è il trionfo della grazia, dell’amore del Signore, della prossimità efficace di Dio, dono soprannaturale che supera le umane capacità percettive. Eppure la grazia trasforma l’uomo, rendendolo figlio di Dio, fratello di Gesù, dimora dello Spirito Santo.
Oggi è il giorno dei santi, e il nostro sguardo punta dritto sull’Agnello, l’Agnello immolato di cui parla l’Apocalisse (cfr. Ap 14,1). Da lui scendono fiumi di vita, colate di Cielo che ci avvolgono, ci trasformano, ci fanno santi. Allora si accorciano le distanze, viene esaudita l’invocazione dei discepoli: «Padre, sia festa la tua volontà, come in cielo così in terra» (cfr. Mt 6,10). La terra e le stelle esauriranno le loro scorte, questo mondo finirà, ma la fine della mondanità è segnata da un’altra unità di misura: avanza il Regno di Dio, la signoria di Dio. Quando due o tre sono uniti nel nome di Gesù questa signoria è già instaurata, presente (cfr. Mt 18,20). Quando si offre e si accoglie il perdono il nuovo già germoglia. Quando si vincono le seducenti tentazioni del male, si assapora già la gioia vera: le beatitudini!
Ci sono santi canonizzati; nell’urna esposta possiamo vedere le reliquie di santi martiri raccolti nelle catacombe. Quando si fonda una chiesa e si pone in essa un altare, occorre – è un uso antichissimo dei primi cristiani – mettervi le reliquie dei martiri e dei santi. Tanti sono i santi canonizzati. Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Papa Francesco ne hanno canonizzati molti: bisogna aggiungere pagine al Messale! Questo è un segno fortissimo in un momento in cui la Chiesa sta soffrendo per scandali ed esempi cattivi. E invece in tutti i continenti crescono grappoli di santità. Poi, ci sono miliardi di santi che non vengono canonizzati, non diventano famosi, non vengono posti nelle nicchie, non appaiono nei dipinti dei grandi artisti, ma sono autentici testimoni della santità. E – quel che vale – sono notissimi a Dio.
Lunedì 9 aprile scorso è stata pubblicata la terza esortazione apostolica di papa Francesco dal titolo “Gaudete et exsultate”. Sono due parole che appaiono nel Vangelo delle beatitudini, in particolare nella beatitudine legata ai perseguitati, a quelli che patiscono per la fede. Gaudete et exsultate: godete e siate nella gioia. La lettera del Santo Padre ha come argomento la chiamata alla santità nel mondo contemporaneo. La santità – afferma papa Francesco – va cercata nella vita ordinaria, tra le persone a noi vicine. Può accadere che un laico incontri i santi nel luogo di lavoro; un vescovo ne incontri nelle sue visite pastorali; un parroco nella benedizione delle famiglie; il Papa nella Curia Romana… La santità non va cercata in modelli ideali, astratti, sovrumani. Anche se ci sono santi difficilmente imitabili, come San Francesco d’Assisi o come San Pietro d’Alcantara (addirittura criticato da Santa Teresa d’Avila per l’asperità delle sue penitenze). Essi sono icone, modelli di cui dobbiamo imitare lo spirito, ma non dobbiamo copiare i loro modi di fare. Papa Francesco fa comprendere come la santità non sia frutto dell’isolamento, ma si sperimenti nel corpo vivo del popolo di Dio. Quindi invita a non cercare vite perfette, senza errori. Anche i santi hanno le loro caratteristiche, i loro piccoli difetti di carattere. I santi sono persone che, anche tra imperfezioni e cadute, hanno continuato a credere e a fidarsi. Così sono piaciuti al Signore. La Beata Angela da Foligno in una sua esperienza mistica trascritta dal direttore spirituale si rivolse a Gesù con queste parole: «Perché devo sempre cadere e rialzarmi, perché non mi fai santa subito?». Gesù le ha risposto: «Angela, mi piaci così, quando cadi e ti rialzi». Possiamo tutti diventare santi, dobbiamo coltivare questo desiderio. La santità mette insieme umiltà e grandezza; si può applicare ad un lavoratore normale, a una nonna o a un papa: è la stessa santità. Auguri!

Omelia nella XXX domenica del Tempo Ordinario

Frontino, 28 ottobre 2018

Chiusura della Visita Pastorale alle parrocchie di Frontino, San Sisto, Monastero

Ger 31,7-9
Sal 125
Eb 5,1-6
Mc 10,46-52

(da registrazione)

Venerdì sera ho incontrato i bambini e i ragazzi con le loro catechiste. Ho rivolto loro alcune domande; ho chiesto di raccontare qualche parabola di Gesù, i miracoli che ha compiuto e, infine, ho chiesto se ricordavano qualche frase del Vangelo. Hanno raccontato molte parabole e miracoli, mentre hanno fatto fatica ad enunciare qualche frase. Mi è capitato di fare la stessa esperienza nelle parrocchie con gli adulti e mi sono accorto che tutti facciamo fatica a ricordare frasi. Le frasi che si ricordano di più sono quelle che si sono vissute. Quando viviamo una parola di Gesù, quella parola si imprime nella mente, nella memoria e nel cuore.

Oggi, il racconto del Vangelo di Marco ci fa imbattere in un disperato, un miserabile di cui non si dice neppure il nome; si ribadisce solo chi è suo padre: è «figlio di Timèo, Bartimèo (che significa “figlio di Timèo”)» (Mc 10,46), però del padre non si sa nulla. L’uomo è solo, ai margini della strada, cieco; ha un mantello che mette davanti a sé perché la gente vi getti qualche spicciolo. È ai margini della strada, ai margini della società, ai margini della vita, campa per miracolo, come gli uccelli nel cielo…

Ci sono, davanti a lui, tre reazioni. La prima è la reazione di quelli che gli passano davanti. Erano quelli che stavano con Gesù, che guardavano Gesù, che volevano ascoltare Gesù, ma di fronte a questo cieco sono del tutto indifferenti. È come se dicessero: «Sei nato cieco, è un problema tuo, non mio». Tra loro c’erano gli apostoli, i discepoli, le donne, tanta gente sorpresa da Gesù e interessatissima a lui, come possono essere oggi i vescovi, i sacerdoti, gli aderenti all’Azione Cattolica o alle Confraternite, il Terz’Ordine francescano, ecc. Tutte persone in ascolto di Gesù, ma – ahimè – incapaci di stupirsi, di commuoversi per quel cieco che sta ai margini della strada e che grida. È interessante questa “patologia spirituale”. Come fanno ad amare Gesù che non si vede, se non amano il prossimo sofferente che si vede. È uno dei problemi della vita cristiana: amare Dio e non accorgersi del prossimo che sta accanto. Mi viene in mente la frase della Divina Commedia: «Non ragioniam di lor, ma guarda e passa» (Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inf. III,51). Tante volte siamo così.

C’è una seconda reazione ed è la reazione di quelli che si accorgono di questo cieco che grida, che è disperato e solo. Tutti sanno il nome del padre, ma il padre non c’è. Sta affrontando la sua disgrazia in totale solitudine. Lo vedono e gli dicono: «Sta’ zitto! Perché fai del chiasso?» (cfr. Mc 10,48). Non volevano che gridasse perché disturbava. Come a dire: «Hai questo destino, prendine atto e sta nel tuo cantuccio». Questo atteggiamento capita anche a noi, alla Chiesa di oggi, ai sacerdoti. Chi è, in fondo, il cieco ai margini della strada che grida la sua disperazione? È l’uomo di oggi; è la nostra gioventù. Tante volte noi non consentiamo ai giovani di esprimersi e scarichiamo su di loro valanghe di divieti, di proibizioni, di regole. Loro hanno la percezione che noi siamo di quelli che dicono: «Sta’ zitto, sta’ buono… ». Magari noi non lo facciamo con questa intenzione e, sicuramente, servono anche le regole. Ma non dobbiamo impedire che la creatura, anche la più sfortunata, la più lontana dalla fede, sbocci, si apra. C’è una gradualità nella vita cristiana, un cammino da compiere, pertanto occorrerebbe che quelli che vanno dietro a Gesù fossero persone che non giudicano, che non condannano, che non mettono subito davanti regole, ma che incoraggiano.

Racconto un fatterello di quando ero parroco. Una domenica alla Messa vidi un giovanotto elegante in fondo alla chiesa. Non l’avevo mai visto prima. Al termine della celebrazione sono andato a presentarmi. Mi ha detto che era appena venuto ad abitare a Ferrara. Era un ingegnere della Montedison. Gli chiesi come mai fosse venuto proprio in quella chiesa. Mi disse che non era praticante, ma era entrato per caso e una signora gli era venuta incontro con un bel sorriso, lo aveva accolto e gli aveva dato persino il foglietto per seguire meglio la Messa. Si sentì di rispondere alla cortesia con cortesia. Poi vide tanti ragazzi che cantavano. Gli piacque subito quella comunità. Allora gli dissi che tutti i martedì sera si teneva in parrocchia l’incontro dei “giovani adulti” e lo invitai a partecipare. Il martedì seguente venne; ci siamo conosciuti, ha iniziato a frequentare la parrocchia e ha chiesto di poter ricevere la Cresima. È stato molto bello. Se quel giorno fosse entrato in chiesa e non lo avesse considerato nessuno o se il parroco lo avesse sgridato perché non veniva mai alla Messa, credo che non avrebbe mai più messo piede in parrocchia. Invece, quell’accoglienza spontanea gli ha permesso di iniziare un cammino.

Il terzo tipo di reazione è quella di chi va dal cieco e gli dice: «Coraggio, alzati, ti chiama!» (Mc 10,49). Magari tutti avessimo questo atteggiamento! Non è il grido del povero cieco che suscita in loro questa reazione positiva, ma è l’atteggiamento di Gesù, che, quando passa, sentendo il grido: «Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me», si ferma, si avvicina, cerca il rapporto. Gesù fa in modo che la persona venga fuori dall’anonimato, dalla realtà amorfa che è la folla; cerca di guardarlo negli occhi e si interessa di lui. «Che cosa vuoi che io ti faccia?» (Mc 10,51), gli dice. E il cieco chiede la vista.

La finale è sorprendente. Il cieco recupera la vista e Gesù dice: «La tua fede ti ha salvato» (Mc 10,52). Ma quale fede? Il cieco non ha fatto nessuna professione di fede formale; non faceva parte del gruppo dei discepoli, non era un seguace di Gesù. Solo in virtù del rapporto personale che Gesù stabilisce, butta via il mantello e comincia a seguirlo per la strada. Da mendicante solo, sfortunato, lungo una strada, diventa discepolo. C’è una metamorfosi, un cambiamento: è opera di Gesù, ma è opera anche della testimonianza di quelli che, vedendo Gesù che cercava il rapporto, sono andati dal cieco e gli hanno detto: «Coraggio, alzati, ti chiama!».

Vi lascio tre parole. La prima: essere prossimi. Il prossimo non è l’altro: sono io che mi devo fare prossimo.
La seconda è mettere in evidenza il positivo, essere di quelli che non inibiscono, che non frenano ma incoraggiano.
Racconto un ultimo episodio. Ho fatto da postulatore della causa di un santo parroco. Ogni parroco, dopo un funerale, ha il compito di scrivere nel registro dei defunti il nome e il cognome del defunto e i suoi dati personali. Nei registri dei funerali, a piè di pagina compare la voce “annotazioni”. In quello spazio, il parroco, se lo desidera, può annotare una breve descrizione del defunto. Don Dario – così si chiama quel parroco – era solito mettere in evidenza di ogni persona una caratteristica positiva; ad esempio, sebbene sapesse che una persona non veniva mai in chiesa, che era conosciuta come gran bestemmiatore, contadino sui monti attorno alla sua città, di lui scrisse: «Uomo molto attaccato alla sua famiglia», oppure sebbene conoscesse la fama di gran bevitore di un signore del paese, di lui trovarono scritto che era un «gran lavoratore». Di ognuno sapeva vedere il positivo.
Terza parola: offrire la nostra testimonianza, essere persone che invitano, che testimoniano non con le parole ma con la vita. Anche per noi è stato così, anche noi siamo dei ciechi, ai margini, ma c’è stato qualcuno che ci ha incoraggiato e ci ha detto: «Coraggio, alzati, chiama te!».

Omelia nel conferimento della cura pastorale della parrocchia dei Santi Pietro, Marino e Leone di San Marino Città a don Marco Mazzanti sdb

XIX domenica del Tempo Ordinario

Is 53,10-11
Sal 32
Eb 4,14-16
Mc 10,35-45

Gesù accondiscende alla preghiera di Giacomo e di Giovanni: «Che cosa volete che io faccia per voi?» (Mc 10,36). Gesù è disposto ad esaudirli. I due apostoli, fratelli, ci fanno sorridere per il loro candore: «Vogliamo sedere nella tua gloria uno a destra e uno a sinistra». Nella Bibbia la gloria di Dio non è la fama o la celebrità, ma la presenza luminosa, attiva e potente di Dio. La gloria, ad esempio, si è manifestata nello splendore del Sinai, il santo monte, poi nella nube lungo i sentieri dell’Esodo. I Salmi cantano i cieli che proclamano la gloria di Dio. Potremmo dire che la gloria è l’essenza stessa di Dio nel suo manifestarsi come presenza amorosa accanto al suo popolo e, quando è necessario, contro i nemici. Ma l’evangelista Giovanni, un giorno, dopo la lezione impartita dal Maestro, spiegherà che la gloria di Dio ha preso forma: la forma dell’umanità di Gesù, che è il sacramento dell’incontro con Dio. Dio adesso ha il volto di Gesù, non è qualcosa di inimmaginabile. Dunque, la gloria è mistero, presenza, prossimità… Ecco la gloria di Dio: il sorprendente modo di fare di Dio!
I discepoli, ancora in cammino, hanno equivocato; hanno pensato la gloria alla maniera umana. Ma la lezione è chiarissima, lampante: «Chi vuol essere il primo tra voi sia il servo di tutti» (Mc 10,44). Nonostante la gelosia che i due fratelli Giacomo e Giovanni hanno scatenato nel gruppo, ci riescono simpatici. Con fierezza, infatti, dichiarano a Gesù che sono pronti a tutto, anche a bere il calice. Fierezza nel proponimento e insistenza fiduciosa nella loro preghiera: «Vogliamo che tu ci conceda quello che ti chiediamo». Non aveva detto Gesù: «Chiedete e otterrete»? (Mt 7,7). Pregare non è pretendere che Dio faccia quello che vogliamo noi, ma disporsi a fare quello che lui vuole da noi, come insegna la preghiera del Padre Nostro: «Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra» (Mt 6,10). Così ha pregato Gesù nel Getsemani: «Abbà, Padre, tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt 26,39). Gesù parlando di un calice allude alla Passione; un calice amaro di tutto il fiele che è nel mondo.
Impariamo un’altra cosa: la gloria di Gesù è nel dono della sua vita. Una vita “rapita” per chi lo uccide, ma “donata” nell’interpretazione che dà Gesù. Da qui l’insegnamento del Signore sull’autorità. Autorità come servizio. Dio si è posto non sopra ma davanti; Gesù si pone ai nostri piedi e li lava: ci guarda dal basso! Il padrone fa paura, il servo no: il Vangelo sancisce la fine della paura di Dio. Il padrone esige e pretende per sé, il servo si impegna e vive per un altro. Il padrone si serve degli altri, Gesù fa sua la nostra causa. Il padrone giudica e castiga, Gesù perdona e soccorre. Il padrone vuol vedere i frutti, il Signore è seminatore.
Autorità che fa crescere. Fa sì che ognuno dia il meglio di sé, metta in gioco i suoi talenti. L’autorità vera non è mai autoritarismo, ma autorevolezza! Sa vedere il positivo e promuove… come don Bosco!
Autorità come dono di sé. «Il figlio dell’uomo è venuto per servire e dare la sua vita»: il parroco dirige, insegna, è competente, ma nello spirito del servizio e nella dimenticanza di sé per fare posto. Ora comprendiamo il senso evangelico del “potere”: il potere di amare.

Siamo qui questa sera per compiere un gesto che ricorda le investiture che si facevano nell’antichità. Consegnerò delle chiavi a don Marco. Le chiavi possono essere simbolo di potere. Un giorno Gesù disse a Pietro: «A te darò le chiavi… » (Mt 16,19). Così anche agli apostoli: «In verità vi dico, tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in Cielo e quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche nei Cieli» (Mt 18,18). Si tratta del potere come lo intende Gesù, come servizio, come dono di sé, come calice.
Consegnerò a don Marco due chiavi, la terza dovrete consegnarla voi, anche a nome di coloro che non sono presenti questa sera. La prima chiave che gli darò è quella della chiesa, della vostra chiesa, che vi accoglie e che vi sta tanto a cuore, che è il vostro gioiello, la vostra fierezza, il luogo a voi più caro. È la casa che accoglie i bimbi nel giorno del loro Battesimo, i fanciulli per la Prima Comunione, gli adolescenti per la Cresima. È spalancata per la Messa domenicale, per le feste della comunità e della famiglia, per i matrimoni. Tutti raduna per accompagnare i defunti al cospetto di Colui che accoglie misericordioso. Ma questa chiesa è di pietra ed è solo un segno; le pietre vive siete voi, che con la Parola di Dio e con i sacramenti avete sempre più autocoscienza di essere il popolo di Dio, il Corpo di Cristo, il Tempio dello Spirito Santo. In questa chiesa, il parroco, in mezzo a voi, anzitutto prega, adora, con voi, per voi. A don Marco dico: «Abbi cura di tutti, facendoti aiutare dai Consigli pastorale e degli affari economici per il discernimento comunitario ed amministrativo». A voi dico di corrispondere al vostro parroco, di collaborare, sì da essere tutti insieme «un cuor solo ed un’anima sola» (At 4,32). Per vivere quella sfida che si chiama sinodalità.
Consegnerò un’altra chiave: quella del Tabernacolo (il luogo dove conserviamo l’Eucaristia). Insieme con la Parola, l’Eucaristia ci fa comunità, ci fa famiglia. Il parroco custodisce il Tabernacolo come il cuore della Chiesa, cuore della comunità. L’Eucaristia è tutto per la Chiesa, tutto per il cristiano, perché è Gesù. Adoratela, onoratela, contemplatela insieme al vostro parroco.
C’è una terza chiave: non posso dartela, caro don Marco. È la chiave che possono darti solo i tuoi parrocchiani: la chiave dei loro cuori. Ognuno di voi ha la chiave del suo cuore: consegnatela, pieni di fiducia, al vostro nuovo parroco. Con la chiave che metterete nelle sue mani lui potrà entrare in voi, ascoltare le vostre confidenze, accogliere le vostre domande.
Tra poco accompagnerò don Marco al confessionale e metterò sulle sue spalle una “sciarpa” color viola; si chiama stola: è il segno della potestà di rimettere i peccati, ma anche di consolare, di guidare coscienze, di sostenere con la direzione spirituale.
Sono certo, don Marco, che i tuoi parrocchiani, con fiducia e schiettezza, metteranno nelle tue mani la chiave dei loro cuori; incontreranno, attraverso di te, la misericordia del Padre e non dovranno temere nel confidare fragilità e dubbi. Darai tanto a loro, ne sono certo. E altrettanto riceverai da loro. Crescerà, giorno dopo giorno, l’affezione. E, del resto – si sa – il cuore è il cuore: ha i suoi ritmi e i suoi tempi, ha bisogno di ricevere e di dare. Tu, don Marco, prenderai «l’odore di queste pecore» e loro da te prenderanno la sicurezza che la tua fede e la tua personalità sapranno infondere.
Ti affido un altro compito. Ti chiedo di avere a cuore le vocazioni: tutte, quelle religiose, quelle missionarie, quelle contemplative e quelle al sacerdozio. E a tutti chiedo di avere cara la vocazione al sacerdozio. Abbiamo tanto bisogno della presenza del sacerdote. Ce ne accorgiamo di più quando non c’è. Il sacerdote ci dà l’Eucaristia, tiene unita la comunità, pronuncia a nome di Gesù le parole che ci sono indispensabili: «Io ti perdono… da tutti i tuoi peccati». Così sia.

Omelia nella S. Messa di Chiusura della Settimana in onore della Madonna delle Grazie

Ferrara (Cattedrale), 14 ottobre 2018

Ester 8,3-8.16-17
Sal 66
Ef 1,3-6.11-12
Gv 2,1-11

Eccellenza carissima,
ti ringrazio molto dell’invito; è molto bello per  me essere qui questa sera, anche se non posso fare la tenda, perché sono missionario. Lo desideravo tanto da bambino e ora mi è possibile, vado in missione. Permettimi, prima di commentare la Parola di Dio, di lasciar partire un pensiero verso i tanti fratelli e sorelle, amici, maestri, a cui continuo a voler bene, e anche a quanti non ritrovo; per ultimo il carissimo don Marcello, parroco di Bondeno.

Oggi la Chiesa è in grande festa per sette nuove canonizzazioni. Tra i nuovi santi, Papa Montini. Le persone più mature ricordano certamente la sua persona, le tempeste che ha dovuto attraversare. Mi verrebbe quasi da chiedere se è stato più martire Paolo VI o San Oscar Romero. Prego con voi per il Santo Padre, il Pietro di oggi, Papa Francesco. Vorrei che gli fossimo vicini, come Maria sotto la croce che l’umanità sta vivendo nelle guerre, nei profughi, nei tanti poveri nel mondo, nelle difficoltà e nelle disunità che patisce la Chiesa. Grazie Santo Padre. Vediamo in te il volto misericordioso di Gesù e sentiamo il tuo desiderio di costruire ponti, di sciogliere nodi e catene che riducono le energie sul cammino verso la fraternità. La società di oggi vive tanti cambiamenti e sente, Santo Padre, il dono della tua parola. Vede in te la bussola che nella verità del Vangelo sine glossa porta ad accogliere, sprona al coraggio di affrontare le sfide, si alza per difendere la vita fin dal primo concepimento e anche nel saper vedere nelle inquietudini un motore educativo nello spirito del dialogo con tutti. Penso al Sinodo dei giovani che si svolge in questi giorni. Si sta rivelando sempre di più un Sinodo sugli adulti, perché il problema pare che siamo proprio noi adulti.

La liturgia di questa sera ci fa leggere una pagina del libro di Ester, un libro della Bibbia scritto per tempi difficili come i nostri. La protagonista, Ester, è una ragazza orfana che porta scritta nella sua storia la sofferta realtà della diaspora giudaica (l’esilio). La sua vicenda, ambientata nei sontuosi palazzi del re di Persia, assomiglia – spero che gli esegeti non mi sgridino – alla fiaba di Cenerentola: anche qui c’è un capovolgimento delle sorti. In breve: la splendida regina Vasti si rifiuta di comparire davanti al re che vuole mostrare al popolo e ai capi la sua bellezza. «È un oltraggio», gridano i saggi di corte. Si deve immediatamente sostituire l’orgogliosa regina. Viene bandito allora un concorso di bellezza: la più bella sarà regina al posto di Vasti. Anche la piccola Ester – il suo nome significa “Stella” – viene iscritta dallo zio che l’ha presa a casa sua da quando è rimasta sola e orfana. Il re rimane conquistato dalla sua bellezza e la vuole regina, accanto a lui. Intanto a corte un potente ministro del re, Amàn, sta organizzando un programma di sterminio degli Ebrei. Lo zio di Ester riconosce provvidenziale l’elezione della nipote: il Signore vuol servirsi di lei per salvare il suo popolo (Ester come Mosè!). E così accade: il popolo è salvo e lo zio di Ester viene esaltato mentre il cattivo ministro viene punito. Per i Giudei era spuntata una luce, una stella: ci fu letizia, esultanza, onore. La liturgia ci fa vedere nella provvidenziale intercessione di Ester il ruolo di Maria presso il Signore che l’ha voluta come tenerissima madre e regina, accanto a Lui e accanto a noi. Perché ricorrere a Maria? Forse che il Signore ha bisogno d’essere convinto? Sarebbe puerile pensarlo. L’Onnipotente vuole piuttosto coinvolgere la creatura nel suo piano d’amore e Maria in esso ha un posto singolare. La preghiera e il coraggio della piccola Ester sono figura della tenerezza e dell’amore di Maria. A Ferrara la chiamiamo: Madonna delle Grazie. Ho visto il bellissimo manifesto con tutte le immagini di Maria nel nostro territorio; una più significativa dell’altra, ognuna legata anche ad un evento fondatore della devozione in quel mondo. Ci fu un tempo in cui un’immagine di Maria stava all’ingresso della Cattedrale. Era chiamata la “Madonna del cantone”. I ferraresi, prima di salire verso il Signore, in questa infinita cattedrale, sostavano davanti a lei: erano certi che le cose erano fatte, si erano rivolti a lei… Non fu così anche alle nozze di Cana? La premura di Maria spostò in avanti le lancette dell’ora di Gesù!

Cana. C’è una festa di nozze; ce lo racconta l’evangelista Giovanni: una festa di paese, con tanti invitati. E lì viene proclamato il Vangelo dell’amore sponsale: Maria è sposa ed è attenta a quello che accade attorno a lei: un’attenzione servizievole e premurosa. Spicca il suo senso pratico. Previene l’imbarazzo degli sposi novelli. Anche qui c’è ancora una parola della madre verso il figlio Gesù: «Non hanno vino» (Gv 2,3). Sa che nella vita di ognuno l’amore può venir meno come il vino delle nozze. L’amore sulla terra è a rischio. La diminuzione, il venir meno, il tramontare sembrano una costante per le esperienze umane. Maria, a Cana, non si rassegna; sente che le cose possono andare diversamente: dal debole al forte, dal poco al tanto, dall’acqua al vino, dalla fragilità alla santità. Gesù, allora, interviene. Sarà il suo primo miracolo. Ma c’è una parola della Madre anche per i servi – e per noi – indaffarati tra i tavoli del ricevimento: «Fate tutto quello che lui vi dirà» (Gv 2,5). Nel racconto è prefigurata la vocazione di Maria ad una maternità universale: parlerà al suo figlio di noi e parlerà a noi di lui. Maria, Madre delle Grazie, prega per noi.

Omelia nella XXVIII domenica del Tempo Ordinario

Carpegna, 14 ottobre 2018

Sap 7,7-11
Sal 89
Eb 4,12-13
Mc 10,17-30

  • Messa di chiusura della Visita Pastorale nella parrocchia di Carpegna
  • (da registrazione)

    Un tale va ad incontrare Gesù. Chi è? Che nome ha? Il mio, il tuo: quel tale è il prototipo di un possibile discepolo. È in cerca di buoni maestri e ha adocchiato Gesù: «Ecco un buon maestro!». Attacca bottone, magari un po’ imbarazzato all’inizio, con lui. «Maestro buono, che cosa devo fare per avere una vita eccellente?». Una volta si diceva “vita eterna” per dire l’eccellenza. Sapremo dopo, nel contesto, che quel tale è un giovane, ricco e aristocratico moralmente. Ci sorprende la risposta di Gesù. Gesù è un rabbi particolare, infatti sembra smarcarsi. Lui non è un “buon maestro”, un maestro di accademia; anzi, non ha da proporre nessuna dottrina particolare, nessuna filosofia sua, nessun insegnamento suo, se non quello del Padre, Dio. È a lui, alla sua misericordia, al suo amore che deve guardare questo cercatore di buoni maestri. Attenzione, Gesù non dice di essere cattivo o mediocre e tanto meno peccatore; dice che lui è soltanto segno, manifestazione e irradiazione di un Altro. Per Gesù quello che conta è accogliere la manifestazione definitiva della bontà perdonante di Dio. La vita eccellente – la vita eterna come diciamo noi – abbraccia tutto: presente, passato e futuro. Invece noi quando diciamo “vita eterna” pensiamo all’al di là, ma è riduttivo. La vita eccellente è una eredità, ti tocca, per concessione, per grazia. E come tale va raccolta, fatta fruttificare, custodita. Il Decalogo, i dieci comandamenti, servivano proprio a questo. Era il modo concreto col quale l’antico popolo di Israele accoglieva il dono dell’Alleanza, dono di un’amicizia e di una vita eccedente.

    Cosa dice quel tale a Gesù? Ognuno di voi potrebbe rispondere così: «Io ho osservato tutti i comandamenti fin da bambino» (cfr. Mc 10,20). Gesù crede alla sincerità di quel ragazzo e non considera affatto la sua risposta come orgogliosa o esibizionista, tant’è che lo invita alla sequela. Attenzione però, la sequela, il discepolato non sono volontarismo, non consistono nell’essere a tutti i costi il primo della classe, un eroe immacolato, un’asceta incorruttibile, una sorta di Lancillotto (cavaliere senza macchia). Il discepolo è colui che accoglie Gesù, perché in Gesù è comparso l’orizzonte, nella storia grande come nella nostra piccola storia, la regalità di Dio, l’amore di Dio: la vita eccedente. Farsi discepolo è concentrarsi sulla persona di Gesù. Va bene una vita irreprensibile, ma non basta. Occorre semplicemente Altro; siamo in un altro ordine di cose. Occorre seguire Gesù, fare strada con Gesù, abbandonare senza rimpianto tutto ciò che dis-trae da lui.
    Che cosa devo fare per avere. Notate i verbi: sono molto autoreferenziali. Sfogliamo il Vangelo, andiamo verso la fine e troviamo “il discepolo”: è un disgraziato, un ladrone, crocifisso con Gesù. Quali sono i verbi che coniuga? «Gesù, ricordati di me quando sarai nel tuo regno» (Lc 23,42).

    Torniamo a quel tale, a me e a ciascuno di voi. «Gesù, fissatolo, lo amò» (Mc 10,21). Ecco, cari amici di Carpegna, che cosa è venuto a fare il vescovo tra voi. È venuto semplicemente a dirvi, a ricordarvi, che Gesù guarda ciascuno di voi con immensa tenerezza. Credetemi!
    Il pastore è venuto a Carpegna per questo. Ho sentito tanta accoglienza, cordialità, affetto, al di là della mia persona. Vi ringrazio. Ho incontrato una comunità ospitale, pur con i suoi problemi e i suoi diverbi. L’ospitalità è la vocazione naturale di Carpegna, con i suoi terrazzi naturali spalancati e baciati dal sole. Poi ho trovato una comunità solidale. Ho visto impegno per gli altri, per chi è in difficoltà; non alludo solo alla Protezione Civile, ma a tante iniziative di cui ho sentito parlare, alla Casa “Paradiso” per gli anziani. Da qui lo slogan che vi vorrei lanciare. Sarebbe bello che in ogni casa di Carpegna ci fosse questa frase: «La mia casa è aperta al sole, agli amici, a Dio». Così ho sentito stando tra voi, girando su e giù per questi terrazzi naturali, accompagnato dal vostro giovane parroco. Penso ai saluti cordiali del mattino al bar e per le vie del paese, quasi un ricamo. Penso alla cura per l’infanzia, per i ragazzi, alle scuole, all’oratorio, agli Scout, ai genitori che hanno trascorso una serata di laboratorio con me. Ad un gruppo di loro ho chiesto di scrivere il decalogo dell’educatore. L’idea mi è venuta vedendo le pietre disegnate dai catechisti con i dieci comandamenti. Sono uscite delle affermazioni bellissime, tra le quali mi ha sorpreso questa: «Si educa col sorriso». Ovviamente, dietro al sorriso c’è tutto un pensiero, una pedagogia. Un altro gruppo di genitori ha scritto ironicamente i capitoli per un manuale del perfetto diseducatore, in cui sono stati autodenunciati gli atteggiamenti sbagliati (a volte si fanno degli errori quando si educa). Un altro ha scritto una lettera aperta ad un ipotetico Paolo, un preadolescente.

    Case aperte al sole, agli amici e a Dio. Ho visitato tante case che hanno accolto Gesù in persona, l’Eucaristia. C’è in Carpegna un monastero invisibile che trapunta tutto il paese, dove si continua a soffrire – ahimè – ma si prega e, soprattutto, si continua ad amare. Carpegna è un paese sano; l’ho avvertito nella serata passata al municipio. Non solo tolleranza, ma di più, cortesia e amicizia, a tal punto che un vescovo, in un luogo laico, ha potuto pronunciare il nome di Gesù senza difficoltà. Perché quando c’è amicizia ognuno può dare quello che ha incontrato, senza pretesa di comandare o di esibire privilegi.
    Ho visitato anche il Poligono militare. Lì si è parlato della pace e, con le Forze dell’ordine, i Carabinieri Forestali, di educazione.
    In parrocchia, ho visto laici non solo con deleghe («Tu fai così… »), ma per collaborazione e, più ancora, corresponsabilità: la parrocchia ci appartiene. Ci sono diversità di gruppi e di associazioni in spirito di comunione. Il Consiglio pastorale, con la direzione del parroco, deve garantire, insieme alle proposte di devozione (che sono tante), proposte di formazione solida per tutti, anche per quelli che non fanno parte di nessun gruppo. Una formazione per gli adulti, un po’ come viene garantita a tutti i ragazzi indipendentemente che siano Scout o no. In parrocchia occorre immaginare un tipo di formazione che vada al di là delle singole appartenenze. Potrebbe essere di aiuto in questo l’Azione Cattolica, con le sue caratteristiche.

    Torniamo a quel tale, io e ciascuno di voi. Il Vangelo dice che se ne andò via col volto scuro e triste. Si era ripiegato su se stesso. Aveva tutto, ma gli mancava la cosa più necessaria, più utile, più bella: guardare Gesù, incrociare i suoi occhi che lo amavano, occhi pieni di tenerezza.
    Il mio messaggio ai carpignoli è quello di non guardarsi, non perdere tempo, ma guardare a Lui. Allora i vostri volti saranno sempre più raggianti.

    Omelia in occasione delle S. Cresime a Fratte

    Fratte, 7 ottobre 2018

    S. Cresime

    Gen 2,18-24
    Sal 127
    Eb 2,9-11
    Mc 10,2-16

    (da registrazione)

    Cari ragazzi,
    si avvicina il momento della Santa Cresima. Mi rivolgo a voi, ma anche a tutta la comunità, perché quello che accadrà in questa chiesa ha molto a che fare con la Pentecoste, quando lo Spirito di Dio scese sul gruppo dei discepoli di Gesù. Erano discepoli spaventati, discepoli che vedevano come un’impresa smisurata quella di annunciare il Vangelo fino agli estremi confini della terra: erano semplici pescatori. Poi fra loro vi erano litigi, perché si chiedevano: «Chi è il più grande fra noi?» (cfr. Mc 9,33-36).
    La prima cosa che mi viene da dirvi è che dobbiamo aiutarci ad avere fede. A scuola e negli ambienti che frequentate incontrerete persone di cultura diversa, di differenti convinzioni. Un gruppo di studenti delle scuole superiori, che ho incontrato la scorsa settimana in parrocchia, mi ha confidato che nella loro classe tutti i compagni si dichiarano atei. Voi, tra poco, rinnoverete le promesse battesimali. Anche per voi verrà il momento del combattimento, in cui vi chiederete: «Sarà vero quello che il mio parroco mi ha insegnato? Sarà vero quello che i catechisti mi hanno continuamente ripetuto? Sarà vero quello in cui crede la mia famiglia?». Ricorro spesso, quando parlo ai ragazzi, a questa immagine. Se noi potessimo, per assurdo, fare un’intervista ad un bimbo prima che nasca, quando è ancora nel grembo della mamma e chiedergli: «Com’è la tua mamma? Che colore hanno i suoi capelli? E i suoi occhi?». Lui non saprebbe cosa rispondere. Eppure non c’è nessuno di più intimo a quella mamma di lui. Ma lui non la conosce, non la vede, non la sente, se non indirettamente. Così siamo noi. Il Signore Dio è un grande mistero che ci avvolge, è un amore infinito, ma noi ancora non l’abbiamo visto e possiamo solo credere. Se vedessimo, non ci sarebbe bisogno della fede. La fede è fiducia. «Mi lascio cadere in te, Signore, chiedo la forza del tuo Spirito per potermi mantenere fedele». Mi sovviene di paragonare la fede anche ad una rete nella quale ci si può lanciare, una rete che ci sorregge, nella quale siamo sicuri che verremo custoditi, non cadremo per terra. Un’altra immagine mi viene dalla città da cui provengo, Ferrara, la “città delle biciclette”. Quando si pedala la dinamo fa luce: più si pedala e più ci si vede. Così è la fede: più ci si fida, più ci si vede.
    E che cosa fa lo Spirito Santo? Ci unisce, perché tutti abbiamo lo stesso Spirito, e suscita in mezzo a noi tanti doni, tanti carismi, per l’utilità comune.
    Questa domenica, attraverso la pagina del Vangelo, lo Spirito ci dà di comprendere e contemplare la bellezza di una grande vocazione, la vocazione della maggioranza delle persone, il matrimonio. Tutto parte da una parola di Dio. «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2,18). Dunque, il male originale, il primo che è apparso sulla terra, prima ancora del peccato, è la solitudine, perché non c’è nessuno che basti a se stesso, nessuno che possa essere felice da solo. Neppure il paradiso è sufficiente. Per questo Dio dice: «Farò un aiuto che gli corrisponda». Questo aiuto, all’inizio, fu Eva per Adamo e Adamo per Eva. Eva è stata data ad Adamo nel sonno, perché è un dono. Adamo non se l’è costruita da solo, non è una sua creatura. È stata tratta dal fianco (da una costola), perché pari nella dignità, ineffabilmente attraente. L’uomo e la donna, insieme, sono chiamati ad un amore per sempre. All’inizio, prima della «durezza del cuore» (Mc 10,5), era proprio così. «I due formano una carne sola» (Gn 2,24). Poi, con la «durezza del cuore», col peccato, sono venuti i distinguo, le concessioni legali, i ripudi legittimati. Ma Gesù fa agli sposi il dono del matrimonio. Il sacramento del matrimonio è una vocazione, è un dono, è una missione. Quando si è ragazzi si pensa al matrimonio come al momento in cui andare finalmente a vivere insieme, ecc. No, il matrimonio è una missione. Ci si accorge di questo col passare degli anni, quando all’innamoramento succede un amore che interpella. Credo che nei momenti di difficoltà, che non mancano in nessuna coppia, ci sia tanto bisogno di fare memoria del sacramento che ha unito lo sposo alla sposa: quel sacramento continua a vivere e ad operare, è sorgente di forza e di luce. Ripensare a quel giorno, quando abbiamo messo sull’altare il nostro amore umano – sicuramente grande, bello, significativo – e poi, al termine della liturgia, ci è stato ridato con un valore aggiunto, perché lo sposo amerà la sua sposa come Gesù ama la Chiesa e la sposa avrà la prova dell’amore di Gesù attraverso la tenerezza del suo sposo (e viceversa). Ecco cosa fa lo Spirito Santo. «L’uomo e la donna saranno una carne sola. L’uomo non osi separare ciò che Dio unisce» (cfr. Mc 10,8-9). Oggi immagino che nelle parrocchie del mondo, chiunque debba prendere la parola su questo brano di Vangelo, può sentirsi in imbarazzo, perché in tutte le nostre famiglie c’è qualche problema; non tutti sono riusciti a mantenere l’impegno dell’indissolubilità. Se fossero qui presenti, vorrei dire loro come dice Sant’Agostino: «Anche se il matrimonio è andato in crisi, per i motivi che la vostra coppia conosce, sentitevi parte della comunità; la comunità prega per voi, evita accuratamente i giudizi e vorrebbe accompagnarvi durante il tempo del discernimento, per capire bene cosa è accaduto».
    In questi giorni, a Roma, il Papa ha convocato il Sinodo sui giovani. Attenzione, lo studio parte dai giovani ma in realtà riguarda noi adulti. La Chiesa cerca di ringiovanirsi, di essere sempre più piena di entusiasmo, perché al Signore si arriva non per un’imposizione, per un decreto, per dei divieti, ma perché ci si innamora di lui. Allora bisognerebbe sempre che le nostre comunità, ancorché siano ridimensionate rispetto ad una volta, siano entusiaste, piene di Gesù. E Gesù – state certi – è attrattivo. «Vieni Spirito Santo, vieni nei nostri cuori, nei cuori di questi ragazzi e nei cuori di noi adulti». Così sia.

    Omelia nella XXVII domenica del Tempo Ordinario

    Macerata Feltria, 6 ottobre 2018

    Messa di chiusura della Visita Pastorale

    Gen 2,18-24
    Sal 127
    Eb 2,9-11
    Mc 10,2-16

    (da registrazione)

    1.
    Mi è bastata poco meno di una settimana per affezionarmi sinceramente alla parrocchia di Macerata Feltria. Ho incontrato solo una minima parte di voi, considerato che la vostra comunità è di circa 2000 persone; tuttavia, sono stati incontri sufficientemente profondi per poter dire che vi stimo tanto. Ho condiviso con voi preoccupazioni e speranze. Questa mattina ho incontrato il signor Sindaco, la Giunta, la Protezione Civile, i Vigili Urbani e i rappresentanti di varie realtà civili. Pur nella distinzione degli ambiti e dei ruoli – Gesù ha detto di «dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare» (Mt 22,21) –, ho visto che c’è dialogo e collaborazione. Il municipio e la parrocchia, in fondo, si rivolgono agli stessi soggetti e lo fanno per cercare il bene comune.
    Ho incontrato varie realtà educative: è stato molto bello per me sentire che c’è sensibilità nei confronti dell’emergenza educativa. Ho incontrato le realtà dello sport, una dimensione importante per i nostri ragazzi, di socializzazione e di maturazione. Bellissimo l’incontro con le scuole, dal nido alle scuole medie. Ho potuto lasciare ai ragazzi questo messaggio: «Non dire mai “sono troppo piccolo per…”», intendendo per portare pace, per lasciare una scia di buonumore, per portare Gesù, perché – lo dice il Concilio –: «I primi apostoli dei ragazzi sono i ragazzi stessi» (AA 11). Poi, c’è stato l’incontro con gli insegnanti; con loro ho potuto sottolineare la responsabilità del grande tema della comunicazione. «Comunicare: verbo infinito!», soprattutto con gli strumenti di oggi, così importanti e così delicati. Ma la prima e fondamentale legge della comunicazione resta la cura dei rapporti: insegnare la relazione con le sue regole di verità, di accoglienza e di benevolenza. Saper guardare negli occhi.
    In questi giorni, poi, ho fatto visita a 30-35 famiglie, dove ci sono anziani e ammalati. Non è stato possibile raggiungere tutti, ma ho visto tanta fede, tanta pazienza, tanto amore. Per me è stata una grande lezione vedere persone che continuano a soffrire, continuano a pregare e continuano ad amare. Ugualmente sono stato toccato dalla visita del Centro Santo Stefano e della Villa Verde; ho visto grandi sofferenze, ma anche una direzione molto qualificata dal punto di vista della professionalità di chi cura i nostri ammalati, alcuni molto gravi. Mentre dicevamo qualche preghiera con don Graziano mi veniva da pensare: «Chissà attraverso quale feritoia il Signore arriva alla mente di queste persone… ». A noi sembrano un muro di marmo, eppure sono creature del Signore. In loro risplende la vita di Gesù.
    Poi ho vissuto l’incontro con la parrocchia, con i tanti gruppi: è bello vedere una parrocchia articolata, perché diverse sono le età, diversi sono i carismi, le attitudini, le attenzioni. Tutti i gruppi mi hanno mostrato tanta accoglienza, con l’aiuto di don Graziano. Penso ai Consigli pastorali parrocchiali e degli affari economici. Tanti lavori sono stati completati in questi anni, tanti recuperi artistici, con l’aiuto di benefattori. Ho trascorso un po’ di tempo con i catechisti, così preoccupati e desiderosi di indovinare modalità e metodo per coinvolgere i bambini. Oggi non funziona più fare catechismo come in passato; bisogna cercare modalità nuove, anche se, alla fine, abbiamo capito che la fede si trasmette nella relazione. Conta soprattutto che quando si viene in parrocchia ci si senta accolti, amati, festeggiati, perché la parrocchia è il luogo dove si è più vicini a Gesù. Nell’incontro con gli operatori Caritas si è riso e pianto, si è condiviso e si è ascoltato. Poi penso al coro e all’animazione liturgica. Sono contento che in parrocchia ci siano chierichetti, ministri istituiti e ministri straordinari della Comunione. Li incoraggio. Fra una settimana arriverà anche un gruppo di fidanzati per prepararsi al grande passo del matrimonio. Poi, il gruppo degli sposi e i genitori dei bambini e dei ragazzi del catechismo.

    2.
    Stando in mezzo a voi ho colto tre emergenze: la famiglia, i giovani, il lavoro.
    La meravigliosa pagina della Genesi che abbiamo letto illumina la storia di ogni famiglia. Tutto parte da una parola formidabile di Dio: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2,18). Dunque, il male originale, il primo che è apparso sulla terra, prima ancora del peccato, è la solitudine. Non c’è nessuno che basti a se stesso, nessuno che possa essere felice da solo. Neppure il paradiso è sufficiente. Per questo Dio dice: «Farò un aiuto che gli corrisponda». Questo aiuto è Eva per Adamo e Adamo per Eva. Eva viene data ad Adamo nel sonno, perché è un dono per l’uomo; non ne è padrone, visto che gli è venuta nel sonno. Tratta da una costola, perché pari nella dignità e ineffabilmente attraente. L’uomo e la donna, insieme, chiamati ad un amore per sempre. Mi rendo conto che la nostra mentalità moderna fa fatica a capire il “per sempre”; ma il “per sempre” non fa stancare, anche se sembra che non ci sia niente di nuovo, perché il tu che mi sta di fronte e mi completa è un infinito. E quando dici “basta!” sei finito (Sant’Agostino). All’amore non c’è mai fine.
    Vi racconto una confidenza familiare. Io sono l’ultimo nato dei miei fratelli; sono uscito di casa da bambino per andare in Seminario, perché volevo fare il prete, e sono tornato a vivere con i miei genitori quando ero giovane sacerdote e loro erano anziani. Qualche volta li ho sorpresi, ormai ultrasettantenni, a scambiarsi un bacio. Ma ricordo anche che, quando discutevano animatamente, mia mamma diceva che sarebbe andata a lavorare fuori… Il “per sempre” è un progetto di Dio. La famiglia è una missione: col passare del tempo si scopre di essere responsabili davanti alla vita, davanti alla società, davanti alla Chiesa. All’inizio, prima della «durezza del cuore» (Mc 10,5), era così, si viveva l’uno per l’altro. «In principio… » era una grande grazia. Poi, con la «durezza del cuore», dopo che il peccato è entrato nel mondo, sono venuti i distinguo, le concessioni legali, i ripudi legittimati. Ma Gesù fa agli sposi il dono del sacramento del Matrimonio. A volte si pensa poco al sacramento, ma esso è un torrente che scorre: si può sempre attingere alla grazia (reviviscit, si dice in teologia). Mi è capitato di dire a qualche coppia in difficoltà che non sono uno psicoterapeuta e neppure un esponente di un’agenzia, ma che li invitavo a pregare e a confidare nel sacramento che avevano ricevuto. Il sacramento dà tutte le grazie necessarie, nel momento opportuno, per aver pazienza, per perdonare, per aver fiducia nell’altro, per ricominciare sempre. Potrei raccontare diversi casi in cui il sacramento del Matrimonio ha fatto miracoli. L’amore umano viene consacrato da Gesù e riconsegnato con un valore aggiunto. Quando due ragazzi vengono all’altare, posano le fedi su di esso, il sacerdote pronuncia la formula del sacramento e, quando scende dai gradini, porge loro gli anelli; ebbene, loro sono venuti qui con il loro amore umano – sicuramente grandissimo – ma, dal momento in cui mettono l’anello, acquistano un valore aggiunto: «I due saranno una carne sola» (Mc 10,8).

    3.
    La seconda emergenza sono i giovani, che sono la nostra gioia e la nostra delizia, ma anche la nostra preoccupazione: è quanto è uscito dagli incontri e dai colloqui con molti di voi. Attenzione, il problema dei giovani è il problema degli adulti. Il primo compito delle nostre comunità è quello di vivere un’autenticità gioiosa, che affascina i giovani. Ai giovani vanno comunicate cose piccole ma vere, non le “vernici”; i giovani non ne vogliono sapere delle “vernici”, del perbenismo, del “si è sempre fatto così”. Ma se diciamo con convinzione quello che abbiamo sentito quando abbiamo incontrato il Signore, se gli raccontiamo come l’abbiamo incontrato, prima o poi faremo breccia nei loro cuori. Poi ci sono i nostri errori, gli errori e gli orrori della Chiesa, a creare ostacolo, ma ciò che allontana i giovani è la mancanza di ascolto e che non li coinvolgiamo. Attenzione, sarebbe sbagliato ridurre la Chiesa a queste mancanze. Oggi esiste un clima culturale che tende ingiustamente a presentare male la Chiesa. Noi dobbiamo far sentire che la proposta cristiana è prima di tutto un dono, un annuncio d’amore, e non è riconducibile ad una mera serie di precetti o di divieti.
    In questi giorni, a Roma, si è aperto un Sinodo sui giovani. In verità è soprattutto un Sinodo sulla comunità cristiana, perché parlare dei giovani significa parlare di noi adulti e del rinnovamento delle nostre comunità cristiane. Gli ambiti coinvolti sono tanti: la liturgia, l’impegno di carità, la testimonianza della misericordia. Nella nostra piccola diocesi di San Marino-Montefeltro, grazie all’Ufficio di Pastorale Giovanile, c’è un tessuto tenue, ma saldo, legato alle diverse forme di associazionismo cattolico. Penso all’Azione Cattolica, agli Scout, a Comunione e Liberazione, ai Giovani Valconca. Bisognerebbe agganciare i nostri ragazzi quando c’è qualche bella manifestazione, come la Giornata Mondiale della Gioventù, i campeggi diocesani, ecc. In quelle occasioni possono fare amicizia con chi appartiene a queste associazioni. È vero che ci sono molti giovani che si sono allontanati e non frequentano ordinariamente la comunità e c’è il rischio di una visione alleggerita dell’essere cristiano. Occorre impegnarsi perché non si vanifichi la bellezza dell’essere discepoli di Gesù, di vivere nella sua pienezza. A volte i nostri giovani si sentono vagamente cristiani, ma perdono il nucleo essenziale dell’esperienza cristiana, il cuore della fede che è l’incontro con Gesù. È la gioia cristiana che può affascinare i nostri ragazzi.
    La conclusione potrebbe essere questa: mettersi in ascolto dei giovani, cercando occasioni di incontro e di dialogo, anche con le nostre povertà e i nostri limiti. Non possiamo gareggiare con i centri benessere o i centri di divertimento, ma con quella gioia artigianale che viene dalla nostra vita. Poi, impariamo a sognare con i giovani, proviamo a guardare il mondo con i loro occhi. A volte abbiamo dei preconcetti nei loro confronti, ma capita anche di essere smentiti. A me è capitato: ho accompagnato 75 giovani della nostra diocesi a Cracovia per la Giornata Mondiale della Gioventù; siamo stati insieme quindici giorni. Sono rimasto colpito dal rispetto che avevano reciprocamente. E infine è importante offrire una testimonianza coerente; ad esempio, non si può invitare alla preghiera se non si prega per primi…
    Del lavoro parleremo in altra occasione.

    4.
    Lascio un messaggio alla parrocchia di Macerata Feltria: «Continuate ad essere belli come la vostra chiesa». Questa è una bellissima chiesa di pietra, voi siete la Chiesa viva. Essere belli vuol dire essere sempre in grazia di Dio. Fate così: fuggite il peccato e, se vi capita di sbagliare, andate subito a confessarvi. Se c’è la grazia santificante, anche se non ce ne accorgiamo, Gesù è in mezzo a noi ed è attrattivo: questa è la risposta a tutti i nostri problemi. Sia lodato Gesù Cristo.

    Omelia nella celebrazione eucaristica in occasione dell’Investitura dei Capitani Reggenti

    San Marino (Basilica del Santo), 1 ottobre 2018

    Gc 3,13-18
    Sal 84
    Mt 5,38-48

    (da registrazione)

    Abbiamo ascoltato un tratto della Lettera di Giacomo, una delle grandi figure della Chiesa primitiva, il primo vescovo di Gerusalemme, chiamato anche «il fratello del Signore» (Gal 1,19). Giacomo scrive a dei cristiani che attraversavano tentazioni e difficoltà. Dopo la conversione e il primo entusiasmo, via via erano andati perdendo di lucentezza, di coraggio, di speranza. Non c’era più mordente nella loro vita cristiana. La Lettera di Giacomo non è un trattato di teologia, piuttosto un insieme di consigli pratici, neppur tanto collegati tra di loro, ma riconducibili ad un denominatore comune: non basta ascoltare il messaggio, bisogna viverlo. «La fede senza le opere – scrive Giacomo – è morta» (Gc 2,26). Ecco le incongruenze che Giacomo denunciava nei cristiani di allora: fanno distinzione di persone (non trattano tutti allo stesso modo); mancano di carità facendo cattivo uso della lingua (parlano male gli uni degli altri); sono litigiosi; consolano a parole i poveri ma non fanno niente per aiutarli; ci sono tra loro persone che pensano solo al guadagno; alcuni si sono arricchiti defraudando il salario agli operai. Di fronte a tutto questo, Giacomo riafferma il comandamento supremo dell’amore che deve tradursi in gesti concreti. Non bastano le semplici dichiarazioni d’intenti. Conclude, poi, mettendo a confronto, una sapienza «che non viene dall’alto, terrestre e materiale», con «una sapienza che viene dall’alto» (cfr. Gc 3,15-17). Sapienza, nella lingua italiana, richiama il sale, ciò che dà sapore, gusto. La sapienza che viene dall’alto è piena di virtù; una sapienza che rende bella la vita davanti a se stessi – che è la cosa più importante – e davanti agli altri. La sapienza è ardua da conquistare, anche se poi, nel contesto del Nuovo Testamento, la sapienza è un dono dello Spirito di Dio. Sembra che Giacomo sottolinei di più l’aspetto dell’impegno, definendola ardua da conquistare, ma gustosa.
    Sentite l’elenco delle virtù che ne sono corredo. La sapienza è pura, pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale, sincera: sette virtù. La virtù è stata definita in vari modi; ad esempio, si parla di virtù come controllo della ragione su se stessi, virtù come giusto mezzo per evitare gli eccessi, oppure come abito operativo, abitudine al bene, quindi come stile. Soltanto l’uomo virtuoso dentro, nella sua radice, compie atti buoni. Gli vengono, per così dire, naturali. Le possibilità morali dell’uomo affiorano da una tendenza costante al bene. Gesù dirà: «Non può un albero buono fare frutti cattivi» (Mt 7,18). D’altra parte, in che cosa consiste questa bontà dell’uomo se non in una disposizione permanente dell’animo, capace di sussistere al di là dei singoli atti. Come educarci alla virtù, giacché la cura dell’anima è la cosa più necessaria, più utile, più bella? Ci si educa anzitutto coltivando pensieri di bene. Tutto, in fondo, si gioca laddove uno è solo con se stesso. Ci si educa custodendo quel progetto di vita che è illuminato dalla «sapienza che viene dall’alto», ma anche con la ripetizione di atti virtuosi, con l’ascesi. Quest’abitudine buona facilita e rende più disinvolto, meno esitante, il nostro fare il bene e accresce la libertà interiore, lo spessore di una vera humanitas. Certo, non mancano i sospetti sulla virtù e più ancora sui cosiddetti virtuosi. Gesù stesso ha insistito sulla necessità del “cuore obbediente” più che degli “atti obbedienti”.
    C’è chi mette nella virtù qualcosa che rimpicciolisce; per esempio un freno che inibisce la spontaneità, oppure come un “tic tac”, una routine ordinata ma senza slanci. Per non dire l’ipocrisia, gli atteggiamenti di facciata, per convenire al perbenismo. Talvolta, si intende la virtù come assenza di coraggio per adeguarsi all’educazione comunemente accolta, recepita. I virtuosi allora vengono paragonati ai ciottoli che il torrente ha levigato; non hanno spigoli, sono puliti, rotondeggianti, probi, ma non è questa la virtù. Accogliamo questa critica che smaschera atteggiamenti equivoci. La virtù autentica è un progetto di vita, è il costante, personale impegno ad imprimere una direzione al proprio agire, fino alla fedeltà alle piccole cose. «Chi è fedele nel poco, sarà fedele anche nel molto» (Lc 16,10). Ci sono virtù indispensabili e fondamentali che la tradizione chiama cardinali in quanto sono i “cardini” che sostengono l’impianto della nostra vita e delle nostre relazioni: la giustizia, la fortezza, la prudenza, la temperanza. Quattro virtù che il cristianesimo ha trovato nell’Antico Testamento e che erano proprie del pensiero antico.
    La pagina evangelica ci dice che la cosa più importante, la meta, il fine, il motore di tutto è la carità. Con l’autorevolezza del suo «Ma io vi dico» (Mt 5,39), Gesù ci invita a tendere alla perfezione. «Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei Cieli» (Mt 5,48). Quanta stima verso l’uomo, verso ogni persona! Che bellezza, che audacia, che ideale! San Marino preghi per noi e ci ottenga la sapienza che viene dall’alto.

    Omelia nella XXVI domenica del Tempo Ordinario

    Macerata Feltria, 30 settembre 2018

    Apertura della Visita Pastorale nella parrocchia di Macerata Feltria

    S. Cresime

    Num 11,25-29
    Sal 18
    Giac 5,1-6
    Mc 9,38-43.45.47-48

    (da registrazione)

    1.
    Rispondo ad alcune domande: «Chi sono io?».
    Sono il Vescovo di San Marino-Montefeltro. Venendo da fuori, posso dire che la nostra diocesi è molto bella e posso anche testimoniare che è completa, anche se non è una diocesi grande come quella di Milano o di Firenze. Consiste in 860 km2, ma in gran parte è spopolata… Molte persone hanno cercato lavoro e possibilità di miglioramento per la loro famiglia altrove, emigrando. È composta da 82 parrocchie, comprese quelle più piccole. Nella diocesi risiedono cinquanta sacerdoti, sedici religiosi e sette monasteri di clausura. Inoltre, sono presenti tre eremiti e dieci diaconi (proprio ieri ne sono stati consacrati due; uno di loro faceva il camionista: il Signore chiama chi vuole, quando vuole e dove vuole). Questa diocesi ha un vescovo. Quelli che vengono a Messa conoscono il mio nome, che viene incastonato nel Canone, la grande preghiera della Chiesa, dove accade la consacrazione del pane e del vino. Vengo nominato non per manie di grandezza, ma perché, fin dall’antichità, i cristiani hanno avuto coscienza che il vescovo è successore degli apostoli: è colui che testimonia la risurrezione di Gesù. Furono gli apostoli a vedere Gesù Risorto e Gesù a loro ha affidato il compito di annunciare. Gesù ha voluto che anche i discepoli e le donne, tutti, fossero annunciatori della sua risurrezione. Siamo qui, cari amici, questa domenica, non perché siamo appassionati di un morto, Gesù, ma perché siamo appassionati di un vivo: Gesù è vivo in mezzo a noi!

    2.
    «Che cosa viene a fare il Vescovo nella nostra parrocchia? Viene a fare l’ispettore?».
    No, non è questo lo scopo della visita. La Visita Pastorale è una sorta di piccola missione. Il Vescovo viene per incoraggiare, perché i tempi sono duri, per tutti; e viene per riscaldare i cuori. È vero, è finito il cattolicesimo sociologico, cioè “automatico”, legato alle vicende del territorio e della storia locale. Oggi il cristianesimo diventa sempre di più un’opportunità nella libertà e nell’accoglimento della grazia. Forse le nostre comunità oggi si sono rimpicciolite, ma devono essere vivacissime, entusiaste. Qui si viene – rispondo così all’ultima domanda – per incontrare Gesù. Segno della sua presenza è anzitutto la sua Parola. Incontriamo Gesù anche nei segni sacramentali: «Tutto quello che fu visibile del nostro Redentore è passato nei segni sacramentali» (SAN LEONE MAGNO, Tractatus 74, 2: CCL 138 A, 457). Ci sono dei gesti che Gesù stesso ha pensato, voluto e istituito. Ne nomino solo alcuni, ma tutti e sette i sacramenti sarebbero da dire cantando, pieni di gratitudine, perché in quell’umile segno il Signore Gesù dà appuntamento ai suoi discepoli.

    3.
    Pensiamo al Battesimo. La stragrande maggioranza di noi è battezzata, è stata tuffata simbolicamente nell’acqua, ma in verità il tuffo era ad altre profondità, era addirittura nella vita di Dio. Da bambini non comprendevamo; l’hanno fatto per noi i genitori e i padrini e le madrine. Sono state pronunciate su di noi alcune parole. «Tu sei figlio, figlio mio» (cfr. Mc 1,11). Pensate, abbiamo un Dio che ci è dato. Poi continua: «Tu sei… l’amato». Questa parola fu pronunciata su Gesù. La parola «l’amato» («agapetòs» nella lingua greca), era parola che veniva riservata solo ad Isacco, il figlio della promessa. La «voce dal cielo» la pronuncia su Gesù e, nel Battesimo, è pronunciata su ciascuno di noi. Ognuno di noi è «l’amato». Vi chiedete spesso perché noi sacerdoti teniamo tanto a che veniate in chiesa la domenica. Ci teniamo perché ognuno di noi ha bisogno di sentire che all’inizio della nostra vita sta questa parola: siamo amati. Veniamo in chiesa per sentirci amati, per essere rincuorati in questa certezza. La terza parola che abbiamo udito nel giorno del Battesimo fu: «Tu sei mio compiacimento». Il Cielo, chinandosi su quella creatura che viene tuffata nell’acqua che simboleggia la vita di Dio, è pieno di gioia. E se uno dicesse: «Ma io sono un peccatore?»; per lui Gesù ha detto: «C’è più festa in cielo per un peccatore che si presenta e chiede umilmente perdono, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (cfr. Lc 15,7). E tutti abbiamo bisogno di conversione!

    4.
    Voglio nominare un altro sacramento, il sacramento della Cresima. Cari ragazzi, tra poco verrete qui davanti, stenderò le mani su di voi e invocherò lo Spirito Santo, insieme a don Graziano, affinché scenda su di voi. Poi verrete uno ad uno e ungerò la vostra fronte con un olio profumato. All’inizio sentirete l’umido di quest’olio sulla fronte, poi non sentirete più nulla, ma il simbolo rimane: il bacio del Signore non si cancellerà mai. Qualsiasi strada prendiate nella vita, qualsiasi esito avrà la vostra esistenza, sarete baciati dal Signore. Dicendo forte il vostro «credo», accettate di crescere come cristiani.

    5.
    Accenno ad un altro sacramento. Tra poco don Graziano, insieme con me, pronuncerà delle parole sul pane; sono le stesse parole che ha pronunciato Gesù: «Prendete e mangiate questo è il mio corpo dato per voi» (Mt 26,26).
    Ricordo che in parrocchia, quando mi chinavo sul pane e pronunciavo quelle parole, i bambini che venivano alla Messa, magari per la prima volta, si guardavano attorno stupiti, perché vedevano tutta la comunità che scendeva in un profondo raccoglimento. E io, che alzavo la voce durante la Messa per farmi sentire bene e per sgridarli un po’, dicevo sottovoce le parole di Gesù sul pane. Quel silenzio era emozionante anche per me sacerdote. Per noi sacerdoti che da tanti anni celebriamo la Messa c’è il rischio diventi un’abitudine. Invece quelle parole, ogni volta, sono straordinarie. Ecco la presenza di Gesù Risorto. Noi ci inginocchieremo davanti a Lui. Dopo la Comunione canteremo e ci uniremo alla festa di un popolo intero che si nutre di Gesù, ma, finito il canto, vorrei che ciascuno di voi ragazzi instaurasse nel cuore una conversazione con Gesù. Vi suggerirò brevemente come imbastire il vostro colloquio a tu per tu con il Signore.

    6.
    Farò soltanto una sottolineatura sul bellissimo brano del Vangelo di Marco. Mi ha colpito la sproporzione fra il gesto d’amore che Gesù prende come simbolo e la ricompensa: la ricompensa è il Regno di Dio, il gesto è dare un bicchier d’acqua fresca ad una persona che ha sete. La Parola del Signore è una rivoluzione, perché noi siamo abituati a fare le cose in modo contrattuale. Invece il Signore Gesù ribalta questa logica: «Basta un bicchiere d’acqua per ottenere il Regno di Dio». Mi viene da ripetere quello che dicevo tante volte nella mia comunità. Ora siete voi la mia comunità. «Non c’è amore? Non lamentarti: metti amore tu». Il bicchier d’acqua è soltanto un simbolo di tutto il bene che tu puoi fare e così farai crescere il livello umano e spirituale della comunità.
    Al rovescio – ma non mi soffermerò tanto – lo scandalo. La parola “scandalo” significa “inciampo” (in greco “trappola”). Dobbiamo stare molto attenti: basta un bicchier d’acqua per avere la ricompensa grande del Regno di Dio, ma basta uno scandalo per sentire quelle parole inimmaginabili sulla bocca di Gesù: «Meglio per lui che gli si metta una macina da mulino al collo… » (cfr. Mc 9,42). «Signore, non vogliamo essere di ostacolo alla fede di nessuno. Ti chiediamo perdono se qualche volta abbiamo scandalizzato. Vogliamo partecipare con papa Francesco alla purificazione della Chiesa». Accompagniamo papa Francesco con la nostra preghiera e la nostra comunione.