Omelia nella XX domenica del Tempo Ordinario

Santuario della Madonna del Faggio, 19 agosto

Camminata del Risveglio

Pr 9,1-6
Sal 33
Ef 5,15-20
Gv 6,51-58

(da registrazione)

1.

Qualche giorno fa abbiamo celebrato la solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria, assunta in Cielo in anima e corpo. Un tributo di onore alla Madre del Signore, un privilegio per la prima dei redenti, ma anche una promessa e un segno di sicura speranza per tutti. Noi non siamo angeli, siamo esseri umani, unità di corpo e anima. Ciò sia detto contro ogni forma di spiritualismo che nega la chiamata del corpo alla santità. Talvolta, anche in certe tradizioni o movimenti di pensiero, il corpo è stato visto come fonte del peccato, del male, dimenticando quello che ha detto Gesù: «Non è quello che entra nel corpo che contamina l’uomo, ma è quello che esce dal suo cuore» (cfr. Mt 15,11). Sono le intenzioni, i pensieri cattivi che portano a usare in modo sbagliato la corporeità. Questo va detto anche per le forme di spiritualità disincarnate che vedono nel corpo e nella corporeità soltanto un accessorio, addirittura un ostacolo. Ma noi andiamo a Dio con il nostro corpo (ricordate la grande lezione di san Giovanni Paolo II, le sue catechesi sul corpo). E andiamo a Dio insieme agli altri umani, corporei come noi, formando un popolo che cammina nel tempo. Ci santifichiamo con il nostro corpo. Attenzione: non dico “nonostante” il nostro corpo, perché il corpo ci consente di vivere la relazione con il dono di noi stessi. Pensate, ad esempio, all’esperienza coniugale, dove l’uomo e la donna vivono l’uno per l’altra e manifestano il loro amore attraverso i segni che lo esprimono. Ma questo vale per tutti. Vale anche per il Vescovo che, quando passa in mezzo a voi recando la benedizione da parte di Dio, lo fa non soltanto col pensiero, ma con i gesti che la liturgia suggerisce. Pensate al significato di un bacio. Il bacio esprime e sintetizza più di tutto quello che potrebbe dire un’enciclopedia intera. Paolo arriva a dire: «Fratelli, offrite i vostri corpi al Signore come sacrificio vivente a lui gradito» (cfr. Rm 12,1).

2.

Nella liturgia di oggi ci viene dato di contemplare un Dio che si è incarnato, si è fatto corpo. Il nostro non è un vago teismo, come quando si dice: «Ma sì, un Dio ci sarà pure…». No, Dio ha preso un volto umano: Gesù di Nazaret. Paolo dice che il Signore, entrando nel mondo, prega con il Salmo 40: «Un corpo mi hai dato e allora io ho detto: “Ecco io vengo… per fare, o Dio, la tua volontà”» (Eb 10, 5-7; cf. Sal 40, 7-9). Perché il Signore ha voluto assumere un corpo per redimerci? Perché è venuto a salvare uomini, non angeli; è venuto per amare con cuore umano, ha voluto provare quello che provano gli umani. «È Dio, lo sapeva…», si potrebbe pensare. Ma un conto è sapere, un conto è provare. Il Signore ha voluto soffrire; sapeva cos’era la sofferenza, ma un conto è sapere che cos’è e un conto è soffrire. Gesù ha potuto dire a una grande mistica: «Guarda se in me non vedi altro che amore» (Angela da Foligno, Memoriale, IV, 193), e ha potuto squadernarglielo davanti. «Non i chiodi mi tengono sospeso sulla croce, ma il mio amore per te». Allora le mani, i piedi, il grembo, il volto, tutto diventa il nostro modo di “essere per”. Il dono, l’amore, la dedizione, la cura, si esprimono attraverso le nostre mani, attraverso carezze e baci, attraverso ascolto e veglia…

3.

Dobbiamo fare un terzo passaggio. Il primo è stato considerare la nostra corporeità come un grande dono: onore alla nostra corporeità. Anche il rispetto che abbiamo manifestato alla reliquia di San Pio da Pietrelcina era per sottolineare questa convinzione. Il secondo passaggio è stato considerare che il Signore ha voluto incarnarsi, ha voluto assumere un corpo. Vero Dio, vero uomo. Ma c’è un ultimo passaggio: Gesù fa del suo corpo un cibo. A volte lo diamo per scontato, ma è una consapevolezza da rinnovare sempre: pane che diviene corpo da mangiare, vino che diventa sangue da bere. «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue…» (Gv 6,56). Se prima Gesù, fino al versetto 52, parlava di sé come pane – «la mia persona per voi è pane» (cfr. Gv 6,35) – da questo versetto in poi parla dell’Eucaristia. Otto volte viene detto il concetto del «mangiare la carne…». Farsi pane è come un bisogno incontenibile di Dio, un Dio che non domanda ma offre, si offre con il corpo e si offre come nutrimento. Mangiare, bere… Quando si mangia si assimila, ci si trasforma in quello che si mangia, si diventa quello che si mangia. Consentitemi un confronto. Nella cultura greca la parola, la cifra che riassume tutto l’umano e la sapienza è il pensiero. È un dono anche per noi considerare così il pensiero. Nella grande esperienza spirituale dell’Oriente, la cifra sintetica dell’umano è il respiro. Nel cristianesimo la parola sintesi è mangiare, che significa assimilare. «Se tu mi accogli, mi mangi, ti trasformi in me», dice Gesù. Come Gesù, «luce da luce, Dio da Dio, Dio vero da Dio vero»: questa è la nostra vocazione, la nostra chiamata.
Consideriamo allora la bellezza, la centralità dell’Eucaristia nelle nostre comunità. Mi sono commosso più volte alla consacrazione delle monache dell’adorazione eucaristica. Domanda: la ragazza che si consacra “spreca” la sua vita per stare davanti ad un pezzo di pane? Al contrario, aiuta a destarci dall’ignoranza, dal torpore, dall’indifferenza nostra e delle nostre assemblee verso l’Eucaristia.
Qualche tempo fa un giovane mi ha confidato il suo desiderio di fare il prete. «Per Gesù», ha detto. Mi ha sorpreso che abbia detto «per Gesù», perché ho conosciuto molti ragazzi che desiderano impegnarsi nel fare volontariato, nell’aiutare i poveri… Il secondo pensiero che ha attraversato la mia mente nell’accogliere quel desiderio è che grazie a quel ragazzo ci potrà essere ancora l’Eucaristia. Gesù ha dato al sacerdote il potere di “fare” l’Eucaristia: quello è il suo compito ed è un compito dolcissimo. Il prete “mette al mondo Gesù” quando pronuncia le parole della consacrazione: «Prendete e mangiate, questo è il mio corpo» (Mt 26,26); in quel momento accade che, nelle sue mani, quel pane diventa la persona di Gesù. Per farlo accadere varrà la pena che un uomo spenda la sua vita? Secondo me sì!

Omelia nella Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria

Pennabilli (Santuario della B.V. Maria delle Grazie), 15 agosto 2018

Ap 11,19; 12,1-6.10
Sal 44
1Cor 15,20-26
Lc 1,39-56

(da registrazione)

«Risplende la regina, Signore, alla tua destra» (Sal 44).

Maria è assunta in cielo. Ma oggi vorrei invitarvi ad entrare in punta di piedi nella casa di Nazaret per respirare l’atmosfera familiare e spirituale di quella dimora. Mi dovete perdonare: avrei dovuto parlare del Cielo, dove Maria ci precede, ma preferisco accompagnarvi – una visita guidata! – alla casa di Nazaret. La visita consiste in tre passaggi. Il primo è l’avvicinamento a Nazaret. Poi entreremo in punta di piedi nella casa della santa famiglia e infine proveremo a cogliere qualche tratto dell’indirizzo che Maria e Giuseppe danno alla loro casa. In ogni famiglia ci sono regole, tradizioni, ricordi… C’è uno stile.

1.

Partiamo da Nazaret, un minuscolo villaggio annidato tra i monti della Galilea (nord della Palestina, territorio di confine con popoli e tribù pagane; lì vicino ci sono la Fenicia, Tiro, Sidone). Nazaret non è mai nominata nell’Antico Testamento. Se ne parla solo nei Vangeli e l’archeologia si imbatterà con Nazaret solo nel 1962, col ritrovamento di un frammento marmoreo a Cesarea Marittima in cui compare il nome di questo borgo. Dunque, Nazaret è ai margini della geografia e della storia di Israele: «Può mai venire qualcosa di buono da Nazaret?» (Gv 1,46), sentenzierà un giorno con scetticismo Natanaele, poi chiamato da Gesù a divenire apostolo. Eppure, la vicenda terrena di Gesù, di Maria e di Giuseppe gira attorno a questo villaggio. Ancora oggi, Nazaret, pur essendo diventata una grande città, ci parla di Maria: una fontana antica viene segnalata come “la fontana della Vergine”.
Gesù viene da Nazaret, scende a Nazaret, a Nazaret dimora. Tra le stradine, i cortili e le siepi di quel povero villaggio è racchiusa per trent’anni la vita del Messia. Da Nazaret Gesù prenderà anche il suo secondo nome: Nazareno. Sulla croce, nel cartiglio che dichiara il motivo della condanna sta scritto: «Gesù Nazareno, Re dei Giudei». Possiamo immaginare quanto gli fosse caro il suo villaggio, com’è per tanti di voi che tornate a Pennabilli con emozione: volti, vicende, tradizioni, suoni, colori, profumi… tutto quanto si imprime nella fantasia di un fanciullo e nella memoria di un giovane.
Quando Gesù sarà nel pieno della missione, ambienterà le sue parabole sullo sfondo di Nazaret e dintorni: la donna che spazza la casa per cercare una monetina tra le fessure del pavimento, la pecora smarrita del pastore sbadato, la massaia che impasta la farina col lievito, il datore di lavoro che a tutte le ore va in cerca di operai, il figlio scapestrato che, stanco di Nazaret, va verso l’ovest, sulle città delle riviera, a cercare fortuna, ecc.
Quando Gesù dirà ai discepoli che dovranno lasciare tutto per lui, indicherà come la cosa più difficile da fare, il «lasciare la propria casa», il proprio paese. Ne sanno qualcosa i missionari…

2.

Entriamo ora nella casa della Santa Famiglia. Molti di voi sono stati a Loreto: secondo un’antichissima tradizione, assai probabile, le pietre custodite a Loreto sono le pietre della casa dove sono vissuti Maria, Gesù e Giuseppe. La prima cosa che ci colpisce è che è povera. È una casa fra le altre case – non è speciale – si confonde con le altre. Probabilmente è stata costruita approfittando di una grotta, è una casa senza finestre. Vi troviamo una bottega da artigiano; c’erano in casa anche gli attrezzi per cucire e per tessere. Gesù, durante la Passione, viene spogliato di una veste tessuta tutta d’un pezzo, tessuta da Maria.
Osserviamo ora i rapporti fra le persone che abitano nella casa: Giuseppe, Maria, Gesù. Il più grande – Gesù – è obbediente al più piccolo, Giuseppe. Strana dinamica. Maria, la mamma, «osserva e custodisce ogni avvenimento nel cuore», così dice il Vangelo. Giuseppe è premuroso custode di tutti. Va sottolineato che anche le parole non dette pesano, perché le parole dette sono pochissime. Maria e Giuseppe sono sposi a tutti gli effetti. Vorrei pensare Maria non come single, come l’ha dipinta in modo sublime Tiziano nella grande tela dell’Assunta, ma come sposa. Maria e Giuseppe vivono nel rispetto reciproco, nell’amore e nella più piena unità. I loro giorni e i loro destini si intrecciano. L’evangelista Matteo racconta l’annunciazione a Giuseppe, l’evangelista Luca riferisce l’annunciazione a Maria. Non c’è contraddizione tra le due annunciazioni: Dio parla alla coppia, marito e moglie.

3.

L’indirizzo che Maria e Giuseppe danno alla loro famiglia la rende aperta e ricca di relazioni. Partecipano ai pellegrinaggi e alle feste del paese. Salgono al tempio di Gerusalemme con la carovana paesana, con la semplicità e l’intraprendenza dei nostri pellegrinaggi popolari. Condividono le vicende di famiglia con i parenti e i conoscenti: si fidano, al punto che quando si smarrisce Gesù, dodicenne, lo pensano al sicuro tra loro. C’è anche tanto rispetto e considerazione che Maria ha per il ruolo di Giuseppe. Quando, nel vangelo dello smarrimento di Gesù, la Madonna rimprovera il ragazzo dodicenne dice: «Tuo padre ed io addolorati ti cercavamo…» (Lc 2,48). Ha messo davanti a sé Giuseppe. Maria e Giuseppe sanno affrontare le prove con coraggio e determinazione nell’amore e nella stima reciproca: dall’imbarazzante maternità al parto in condizioni precarie, dall’inseguimento della gendarmeria di Erode alla fuga in Egitto, dal rientro nella povertà di Nazaret al lavoro che procura sudore e calli alle mani.
Dagli accenni del Vangelo possiamo ricostruire qualche tratto, come si fa con gli affreschi delle nostre chiese rovinati dal tempo, del profilo umano di Maria. La sua impronta è ben visibile nell’umanità stessa del figlio Gesù, la cui umanità è frutto di una relazione, di uno stile che ha ricevuto in famiglia: Gesù che parla dell’amore al prossimo, Gesù raffinato nei rapporti (gli basta uno sguardo per dire tutto), amico affettuoso. Quel ragazzo dodicenne, a differenza del giovane Samuele, il grande profeta di Israele, non resta nel tempio. Gesù non ha fatto neppure un giorno di seminario; il suo seminario è la casa di Nazaret!
Maria e Giuseppe prendono poco a poco coscienza che il loro figlio ha una paternità misteriosa ed una missione da compiere. Lo accompagnano con discrezione verso la piena autonomia. È proprio dell’amore vero dei genitori fare spazio ai figli perché possano realizzarsi pienamente trafficando i loro talenti e avventurandosi nel loro destino.
Nella casa di Nazaret si prega. E nelle nostre? Maria ha la visione di un angelo, ma sarà per una volta sola in tutta la sua vita. Luca, che ci riferisce l’episodio straordinario dell’annunciazione, conclude così: «E l’angelo partì da lei» (Lc 1,38). Non ci saranno su quella casa svolazzi di angeli, ma tutto trascorrerà nella più grande normalità.
Talvolta Nazaret viene dipinta come ideale di vita umile e nascosta e, per Gesù, come tempo di propedeutica, cioè di preparazione alla missione. In realtà, a Nazaret risplende la verità dell’incarnazione, in tutte le sue tonalità. Nazaret, dove Gesù sta con Maria e Giuseppe, è già missione redentrice in atto. Nazaret proclama, con un silenzio assordante, che il Regno di Dio è già presente. Se si togliesse Nazaret dal Vangelo l’enfasi della rivelazione sarebbe tutta sui gesti miracolosi e sui grandi discorsi. Perderemmo le parole di Gesù su famiglia, lavoro e relazioni. Per noi le parole più importanti. “Nazaret” è ciascuna delle nostre case: luogo di fede, di amore e di intense relazioni. Così sia!

Omelia XIX domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (Cappella del Vescovado), 12 agosto 2018

1Re 19,4-8
Sal 33
Ef 4,30-5,2
Gv 6,41-51

Stiamo leggendo un’altra pericope del lungo discorso sul pane della vita tenuto da Gesù nella sinagoga di Cafarnao. Egli afferma chiaramente di essere il pane adatto per la fame radicale dell’uomo. Il pane che ha saziato i cinquemila è solo un segno della risposta alla fame di senso, di futuro, di autenticità. Persino i vuoti di Dio (dubbi, inconsistenze, fragilità, peccati), se offerti umilmente come ceste di fame diventano vuoti per Dio che Gesù colma con sovrabbondanza (sono rimaste dodici ceste di pani avanzati!). Ma gli ascoltatori sono scettici. Vedono Gesù come uno di loro, profeta – senza dubbio – dotato di poteri particolari (hanno assistito alla moltiplicazione dei pani), ma pur sempre un uomo. Ne conoscono le umili origini, il padre e la madre. Come può dire: «Sono disceso dal cielo?» (cfr. Gv 6,41). Gesù tana il mormorio sommesso dei suoi ascoltatori: «Non mormorate» (Gv 6,43). La prima forma della mormorazione è il chiacchiericcio alle spalle di qualcuno (indisponibilità a fidarsi). Mormorazione fu quella degli Ebrei nell’Esodo, scontenti persino del dono quotidiano della manna. Mormorazione è l’incredulità dei contemporanei di Gesù di fronte alla sua pretesa di venire dall’alto. Ma Gesù parla a noi ed alla nostra scarsa fiducia nel credere che il Signore veda, venga e possa cambiare le cose… Gesù invita alla fede: «Credete in Dio e credete anche in me». Ancora una volta si colloca, al di là dell’immediatamente visibile, nell’ambito concreto della relazione e dell’amicizia, come facciamo anche noi quando, amando una persona, gli diciamo: io ti amo e so di amarti. Non ci sono prove “scientifiche”. Tutto si gioca sulla fiducia. La risposta di chi si fida è la gratitudine. Il salmo 32, che viene pregato nella liturgia di questa domenica, è un rendimento di grazie sulle labbra di chi non è stato deluso. È la preghiera di un cuore colmo di Dio: «Benedirò il Signore in ogni tempo, la sua lode per sempre sulle mie labbra… Gustate e vedete – continua il Salmo – come è buono il Signore». È un invito a sperimentare il sapore di Dio attraverso la dolce energia che ci comunica, la pace che ci infonde. Affamati siamo stati saziati. Saziati gustiamo. Il Signore è buono! Buono come un pane fresco. Buono come un sorso d’acqua pulita. Buono come un’amicizia intramontabile.

Omelia nella festa di San Lorenzo

Belforte, 10 agosto 2018

2Cor 9,6-10
Sal 111
Gv 12,24-26

(da registrazione)

Carissimi,
sono venuto volentieri ad unirmi alla vostra festa. Saluto tutti. Vedo che ci sono anche molti giovani e bambini. È un bene che le nuove generazioni sappiano apprezzare le tradizioni del paese. Saluto il signor Sindaco, non per un privilegio, ma perché rappresenta tutta la popolazione e noi, oggi, pregheremo per tutte le famiglie del paese, soprattutto per quelle provate dalla sofferenza.
Alla vostra destra ci sono i sacerdoti che sono parroci nelle chiese vicine e alla vostra sinistra una parte dei diaconi della nostra diocesi: sono nove e tra loro ce n’è uno che verrà ordinato il 29 settembre prossimo. Ha fatto gli studi di teologia, ma viene da un’esperienza di famiglia e dalla professione di camionista. Il Signore sceglie dove vuole, chi vuole, quando vuole.
Sant’Ambrogio di Milano (IV sec. d.C.) è uno dei principali testimoni della vicenda umana e spirituale di san Lorenzo. In particolare, ci tramanda tre episodi della sua vita che diventeranno lo scheletro di tutte le agiografie successive, soprattutto della Passio Laurentii (Passione di Lorenzo), un genere letterario specifico nella letteratura antica: il racconto del martirio dei santi. Naturalmente sono racconti che non vanno presi con il piglio dello storico, perché questi scritti hanno un andamento non solo elogiativo ma anche epico, in quanto il martire viene visto come un eroe e la sua vicenda viene descritta con una infinità di particolari che non sempre hanno un fondamento storico. Quello che è importante nella testimonianza di Ambrogio è che fin dall’inizio Lorenzo è una delle figure più amate e più pregate dalla comunità cristiana. Accenno ai tre episodi tramandatici da Sant’Ambrogio nel De officiis ministrorum.

1.
Lorenzo è il diacono di papa Sisto II. Egli incontra Sisto II, suo vescovo, quando è condotto al supplizio. Lorenzo piange nel vedere il suo vescovo condannato a morte, ma piange anche perché non lo può seguire, deve stare al suo posto – ha un incarico nella Chiesa di Roma – ma il vescovo, incrociatolo, gli promette che subirà la medesima sorte nei tre giorni successivi: al “terzo giorno”, evidente allusione alla Pasqua. «Anche a te, Lorenzo, accadrà di vivere la Pasqua, il passaggio, come il tuo vescovo».

2.
Dopo tre giorni, Lorenzo riceve l’ordine dall’imperatore di consegnare i tesori della Chiesa. Allora Lorenzo raduna i poveri, «il vero tesoro nel quale è presente Cristo, nel quale è presente la Chiesa», così scrive Ambrogio.

3.
Non essendosi in nulla sottomesso alla volontà dell’imperatore, Lorenzo è condannato a giacere su una graticola ardente e bruciato. Morendo, pronuncia queste parole: «Assum est, versa et manduca (sono ormai cotto, girami e mangiami)» (Ambr. De Off. 1, 41, 207). Ciò che a noi importa non è tanto la vera storia del diacono Lorenzo. È difficile ricostruire questo affresco appena tratteggiato da Ambrogio… E guai a chi fa dei restauri interpretativi, perché non sono autentici. Preferibile è sempre il restauro conservativo, in cui teniamo per vero quello che abbiamo. Però, la “leggenda” verrà sublimata nella Passio Laurentii successiva, del VI sec. Essa è importante, anche se arricchita di tanti particolari, probabilmente non storici, per tre motivi.
Il primo è che l’immagine di Lorenzo, martire di Roma, viene letta in corrispondenza con l’immagine di santo Stefano per dire che Roma è la nuova Gerusalemme. Gerusalemme ha avuto il protomartire Stefano, Roma il martire Lorenzo.
Il secondo insegnamento è che il diacono è fedele al suo vescovo fino alla morte. Infatti, i diaconi hanno un rapporto particolare con il vescovo.
Il terzo motivo è che Lorenzo è patrono di Roma insieme a Pietro e a Paolo. È una colonna portante della Chiesa come Pietro e come Paolo. A Roma oggi è grande festa.
Uno scrittore antico, Prudenzio, dice che Lorenzo è il consul perennis, è il console di Roma, perché è colui che non solo è caritatevole, ma accresce la gloria di Roma. Allora alla testimonianza di Ambrogio nel De officiis si sono aggiunte le ricostruzioni di tanti scrittori antichi; alla Passio Laurentii si sono aggiunte le annotazioni del Liber Pontificalis, ma la liturgia lascia da parte queste nostre curiosità storiografiche e ci offre una lettura spirituale di Lorenzo. Ci spiega il suo martirio attraverso due testi biblici nei quali c’è la figura del Regno di Dio classica: quella del seminatore e del seme. «Chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà; che semina con larghezza, con larghezza raccoglierà» (2Cor 9,6). Ma attenzione: «Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore» (2Cor 9,7). Il dono dev’essere espressione di una decisione profonda del cuore, della volontà. Allora non si dona con tristezza e neppure per forza. Tanti sono stati educati – nella fede, ad esempio – con l’idea del precetto. In questi giorni, visitando i campeggi, molti giovani mi hanno confidato di avere la percezione che la Chiesa, e i sacerdoti, continuino a mostrargli precetti e divieti. Nell’educazione occorre anche dire dei “no”, è normale nella pedagogia. Eppure, si semina non con tristezza, non per forza, ma secondo quanto deciso nel cuore. Allora nell’educazione è bene aiutare – naturalmente in base all’età – a prendere delle decisioni per una scelta del cuore, a fare non per imposizione, non per esser visti, non per altro motivo che non sia un’adesione profonda alla volontà di Dio, perché «Dio ama chi dona con gioia» (2Cor 9,7).
La seconda immagine che ci mostra la liturgia è quella del chicco di grano che cade per terra, muore e dà la vita (cfr. Gv 12,24). Il centro della frase non è il morire. Quando Gesù dice che il chicco deve cadere per terra per dare la vita, mette in evidenza il dare la vita, il portare molto frutto. Lo sguardo del Signore è sulla fecondità più che sul sacrificio. E tuttavia bisogna passare di lì. Questo vale per la nostra vita cristiana. Questa frase è venuta a Gesù in un contesto del tutto particolare: ci sono dei greci che vogliono conoscerlo (cfr. Gv 12,21). La sua fama, in quel momento della sua vita, sta raggiungendo persone oltre i confini di Israele. Gli apostoli che vanno a segnalare a Gesù questo interesse dei greci (i greci nel mondo antico rappresentano la cultura) vorrebbero dirgli di presentarsi per quello che è, di rivelarsi a loro e di parlare della sua gloria. Del resto, è il momento in cui Israele sta architettando la sua uccisione. Sarebbe opportuno che parlasse ai greci della sua grandezza, del suo progetto. È una tentazione per Gesù. Gesù, invece, dice la verità: «Io sono come un chicco di frumento che cade per terra». Ciascuno di noi è un chicco di frumento, ancora meno, eppure quando accogliamo la nostra vocazione, il posto che il Signore ci ha dato, non per forza, non contro voglia – ripeto – non per altro motivo che non sia l’adesione alla sua volontà, allora siamo certi di portare frutto. È la vocazione di ciascuno di voi, piccolo seme della famiglia, piccolo seme nel lavoro, piccolo seme nel paese, nella società. San Lorenzo ci aiuti ad accettare questo programma di Gesù.

Omelia nella XVIII domenica del Tempo Ordinario

Scavolino, 4 agosto 2018

Festa della Comunità di Scavolino

Es 16,2-4.12-15
Sal 77
Ef 4,17.20-24
Gv 6,24-35

(da registrazione)

In situazioni come questa, dove c’è una parte religiosa e una parte civica, cerco sempre di mettermi nei panni dei miei ascoltatori, perché non tutti sono credenti e non tutti – ancorché credenti – sono praticanti.
Racconto una mia disavventura. Ero in Visita Pastorale, in un luogo pubblico che ha a che fare con la sanità, e dovevo parlare di Gesù che risana. Volevo sottolineare l’importanza di prendersi cura dei malati. Gesù ha compiuto cinquantadue miracoli di guarigione. Non ha curato tutti i malati, poiché quella non era la sua missione in quel momento. Ho cominciato a parlare tenendo presente che avevo di fronte a me persone di cultura diversa dalla mia e ho presentato di me un aspetto che un vescovo non tratta di consueto, e cioè la fatica che anch’io faccio, talvolta, a credere. Anche per me il credere – e forse è così per qualcuno di voi – è una grande scommessa.
La settimana scorsa tanti di noi, durante l’eclissi di luna, hanno rivolto gli occhi al cielo… Le stelle nel cielo sono stupende, però stanno a guardare: non succede niente, la mia vita rimane quella che è, con i suoi problemi e le sue difficoltà.
In quell’occasione, durante la Visita Pastorale, si alzò una dottoressa e disse: «Eccellenza, ma scherza a dire queste cose? Lei deve dare la certezza della fede, non deve dire che condivide con noi i dubbi!». Mi dispiacque molto di avere scandalizzato quella persona. Invece, pensavo che avrei aiutato mettendomi nei panni degli altri e io mi sento francamente un cercatore.
Mi pare che il Vangelo di questa domenica risponda alla mia condizione di cercatore, forse anche alla vostra. Il racconto si apre con la descrizione della gente che va alla ricerca di Gesù. Si tratta di una vera e propria spedizione organizzata; addirittura una piccola flotta di barche affronta la traversata del lago per andare ad incontrare colui che aveva moltiplicato i pani e i pesci: c’era stato, infatti, questo grande prodigio. Vorrei poter dire a quella signora che è rimasta male per la mia confessione che la ricerca è l’atteggiamento tipico, principale del discepolo di Gesù. Così fu per i primi discepoli. Ricordate quando Gesù incontra i primi due: «Chi cercate?», disse loro. Erano cercatori. Gesù non si è scandalizzato per questo, non ha esibito le sue credenziali. Imbarazzati gli hanno risposto: «Maestro, dove abiti?» (Gv 1,38). Volevano andare con lui a vedere.
Così anche Maria di Magdala, il mattino di Pasqua, davanti alla tomba vuota si sente dire da colui che ha scambiato per il custode del giardino: «Maria, chi cerchi?» (Gv 20,15). È bello, sfogliando la Bibbia, vedere come al desiderio profondo che abita in ogni cuore trovano riscontro le struggenti invocazioni dei Salmi: «O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco…» (Sal 63,2). Signore, so che ci sei, ma sono come sospeso, vorrei vederti e non ti vedo, vorrei risposte ma tu non parli (almeno così sembra). Allora io ti invoco. «Ho sete di te… con tutto il cuore io ti cerco… Cercate il Signore, cercate sempre il suo volto» (cfr. Sal 42,3; Sal 119,10; Sal 105,4). Spero che voi non mi abbiate frainteso come quella dottoressa: mettersi sulle tracce di Dio è una risposta al suo amore, che ci precede perché, a ben vedere, è lui che per primo si è messo alla ricerca di noi: «Dove sei?» (Gn 3,9), chiede ad ogni Adamo nascosto nel giardino. E per qual motivo Gesù è venuto sulla terra, se non per cercare noi, pecore smarrite? In questo momento mi viene da dire: «Signore, donaci di saperti cercare come tu hai cercato noi». Ma non bisogna sorvolare su un dettaglio: per trovare Gesù bisogna fare come i discepoli che hanno preso le barche, hanno attraversato il lago, hanno dovuto remare; chissà se c’era bel tempo o c’era tempesta. Hanno dovuto faticare perché tra noi e lui c’è di mezzo il lago.
Gesù ha svelato la presenza di Dio, ma anche la sua diversità da noi. La folla ha compiuto la traversata, ma avrà fatto il vero passaggio, il passaggio della fede? Gesù dirà: «Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani – quelli della moltiplicazione – e vi siete saziati» (Gv 6,26), ma «il vero pane – conclude Gesù – non è quello della moltiplicazione e neppure la manna, il vero pane che è in grado di sfamarvi sono io» (Gv 6,32-35). Allora dico a me: «Tu cerchi Dio; hai fatto studi di filosofia, di teologia e ancora sei alla ricerca?». Sì, non me ne vergogno. Ma ho trovato il volto di Dio: Gesù. Gesù è il volto di Dio. Se vi vengono dei dubbi, se siete in ricerca – questo vi onorerebbe moltissimo – studiate Gesù, leggete il Vangelo, in lui c’è la pienezza della divinità.

Omelia nella S. Messa di Investitura dei nuovi Canonici della Cattedrale

Pennabilli (Cattedrale), 1 agosto 2018

Gn 12, 1-4
Sal 15
Fil 4, 4-9
Mt 7, 21-27

(da registrazione)

La prima caratteristica di san Leone, messa in luce dalla liturgia, è la provenienza lontana: Leone è un esule, un migrante a causa del Vangelo. Il Signore l’ha fatto uscire dalla sua patria (Arbe in Dalmazia, l’attuale Croazia) e dalla casa di suo padre. Il Vescovo di Rimini, Gaudenzio, lo invia sui monti dell’entroterra per portarvi l’annuncio di Gesù Risorto. Non facciamo fatica a vedere nella sua vicenda l’avventura spirituale di Abramo: «“Vattene dal tuo paese, dalla tua patria, e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione”. Allora Abramo partì, come gli aveva ordinato il Signore» (Gn 12,1-4).
Così Leone. E noi, raggiunti dalla sua predicazione, siamo innestati nel popolo della benedizione, la Chiesa, che ha ricevuto da messaggeri del Vangelo la raccomandazione dell’affabilità verso tutti, della letizia che proviene dalla confidenza nel Signore, della preghiera di supplica e di ringraziamento, della ricerca di ciò che è vero, nobile, puro, amabile, onorato (cfr. Fil 4,4-9).
Chiediamo a San Leo di ottenerci tanti ministri, annunciatori miti e forti del Vangelo per un nuovo programma di evangelizzazione della nostra terra.
Il Vangelo. Il Vangelo tratteggia la figura del saggio architetto che costruisce la casa sulla roccia. Chi ha scelto questa pagina evangelica e l’ha messa nel Proprio della nostra Diocesi ha pensato certamente all’opera di San Leone che fonda la comunità sulla roccia dell’amore di Dio, oltre che sul roccione del monte Feretro. «Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti, si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia» (Mt 7,25).
Permettete che dica una parola sulla “casa”, la famiglia, che noi sacerdoti abitiamo e vogliamo continuare ad abitare con gioia: il nostro presbiterio. Il Signore, che abbiamo scelto come il tutto della nostra vita, è il fondamento roccioso della nostra casa, ma ci aiuta pure quel sentimento bello e prezioso, conosciuto e coltivato da Gesù, l’amicizia. L’amicizia è una simpatia reciproca, un’intesa profonda tra persone, a volte molto diverse. Non è basata sull’attrazione come è l’amore coniugale. È unione di cuori, di intelligenze, di anime, non di corpi. In questo senso gli antichi dicevano che l’amicizia è un’anima sola che vive in due corpi.
È proprio sull’amicizia, su una speciale coltivazione dell’amicizia presbiterale, che vorrei collocare la realtà del Capitolo della Cattedrale. Di per sé, nel Diritto ecclesiastico, troviamo che il Capitolo della Cattedrale è tra gli organismi di partecipazione alla funzione pastorale del Vescovo. Questi sono gli organismi: sinodo, curia, consigli diocesani, consiglio degli affari economici, capitolo dei canonici. Il Capitolo dei Canonici viene descritto così: «È un collegio di sacerdoti al quale spetta celebrare le funzioni liturgiche più solenni della Chiesa cattedrale; compete, inoltre, al Capitolo adempiere quegli uffici che il Diritto o il Vescovo diocesano gli affidano. I Canonici pregano col Vescovo, pregano per il Vescovo e per tutta la Diocesi. Considerano la Cattedrale come casa loro.
L’amicizia può costituire un vincolo più forte della stessa parentela. È essenziale per l’amicizia che essa sia fondata su una comune ricerca del bene, dell’onesto. L’amicizia è diversa anche dall’amore del prossimo; questo deve abbracciare tutti, anche chi non riama, anche il nemico, mentre l’amicizia esige la reciprocità, la corrispondenza. «Ogni amico dice: “Anch’io ti sono amico”» (Sir 37,1), «conta su di me come su te stesso» (2Cr 18,3); tra amici veri «se vengono a cadere, l’uno rialza l’altro; guai invece a chi è solo: se cade non ha nessuno che lo rialzi» (Qo 4,10). La Bibbia è piena di elogi dell’amicizia. «Un amico fedele è sostegno potente, chi lo trova, trova un tesoro» (Sir 6,14).
Ma anche la storia della santità cristiana conosce esempi di amicizie esemplari. Certo, con Gesù la realtà dell’amicizia compie un salto di qualità. Gesù ha potuto dire: «Non vi chiamo più servi, ma amici; non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (cfr. Gv 15,13-15). E in altri passi del Vangelo, quando introduce confidenze agli apostoli dice: «A voi miei amici dico…» (Lc 12,4). Allora, fondata su questo, la nostra amicizia è solida e non teme il soffiare dei venti, ossia le inevitabili cadute, il cadere delle piogge che minacciano di sgretolare gli ideali che tutti abbiamo scelto, lo straripare dei fiumi che sono le prove della vita e del ministero. I Canonici, allora, li penso così: amici inseparabili per l’amicizia dell’Amico comune, Gesù. Ecco il vostro primo compito. Fare amicizia, portare amicizia, favorire l’amicizia nel nostro presbiterio; vedere che cosa la può accrescere, infiammare, vedere che cosa la minaccia, la intiepidisce o la spegne.
Tra i Canonici voglio nominare mons. Elio Ciacci, quiescente, che non ha potuto essere presente questa mattina con noi. E vorrei ricordare i Canonici onorari della nostra cattedrale, tra tutti mons. Arcivescovo Adriano Bernardini, qui presente.
Siamo qui per la “casa” del nostro presbiterio, un’unica casa, e siamo qui per la “casa” più grande che è la Chiesa, fatta di pietre vive, basata sulla pietra angolare che è Cristo; la Chiesa che ha per legge la legge della carità, che ha per fine il Regno di Dio. Anche alla Chiesa non saranno e non sono risparmiati soffio di venti, cadere di piogge, esondazione di fiumi, ma sulla Parola di Gesù confidiamo: «le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa» (Mt 16,18), anzi, la Chiesa sarà veduta «scendere dal Cielo, pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (Ap 21,2). «Non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello. Le nazioni cammineranno alla sua luce e i re della terra a lei porteranno il loro splendore» (Ap 21,23-24). Questa è la nostra fede, questa è la nostra speranza, da qui la nostra amicizia. Così sia.

Omelia nella XVII domenica del Tempo Ordinario

La Verna (Colonia RSM), 29 luglio 2018

2Re 4,42-44
Sal 144
Ef 4,1-6
Gv 6,1-15

(da registrazione)

Oggi avrei potuto celebrare l’Eucaristia a San Marino, nella splendida basilica, o a Pennabilli, nella Cattedrale, oppure in alcuni monasteri di clausura… Invece ho voluto venire qui. Qualcuno di voi ragazzi riesce ad intuire il perché? «Perché ci vuoi bene?». Sì, è vero; e vi conosco tutti, essendo stato quest’anno in tutte le scuole durante la mia prima Visita Pastorale. Ma non è questo l’unico motivo per cui sono qui. Sono venuto qui a celebrare la Messa perché nel vangelo di oggi si parla di un ragazzo come voi, un ragazzo che non era sbadato ed era previdente: si era portato nello zaino “la merenda”, «cinque pani e due pesci». Il motivo per cui sono venuto a leggere questo vangelo con voi è che mi aspetto che Gesù vi chieda: «Mi dai i tuoi cinque pani e i due pesci?». Immagino siate disposti a darli a Gesù. Sono venuto per questo, ma anche per un altro motivo. «Chi accompagna il ragazzo da Gesù per moltiplicare i pani e i pesci?». È l’apostolo Andrea che dice: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?» (Gv 6,9). Andrea sono anche io che dico a Gesù che qui ci sono 92 ragazzi pronti a dargli «cinque pani e due pesci», cioè pronti a mettersi a sua disposizione. Sono qui per un atto di grande generosità che dopo deve diventare concreta.
Mi sono fatto questa domanda: «Quante categorie di affamati ci sono?». In questo brano viene in rilievo non tanto la compassione di Gesù, ma la sua “diversità”: è Dio, il Signore. Gesù sa che ci sono tre categorie di fame. La fame di pane, il bisogno di mangiare. Poi c’è la fame del cuore; anche il cuore conosce la fame, quando ha bisogno di affetti, di amicizia, di amore. In questi giorni in Colonia l’amicizia tracima, ma ci possono essere dei momenti nella giornata in cui si sente un po’ di nostalgia, oppure ci saranno momenti in cui si ha bisogno di stima, di fiducia. C’è anche una fame spirituale. Sono sicuro che molte mamme e molti papà sono venuti qui per voi, ma anche perché altre volte hanno sperimentato questa ora di raccoglimento e sentono il bisogno di pregare, di innalzare la propria anima. L’anima è l’unico uccello che è in grado di sollevare la propria gabbia. A volte il nostro corpo è come una gabbia e l’anima si sente prigioniera. Ma quando l’anima prega solleva tutto.
Concludo con un racconto che mi ha fatto un missionario che viveva in Brasile, nelle favelas. Aveva notato un ragazzino che ogni mattina andava in tutte le chiese e partecipava a otto o nove S. Messe. Ad un certo punto, pensando avesse la vocazione al sacerdozio, gli chiese: «Ma perché vai a tutte quelle Messe?». «Per fare la Comunione», rispose. «Ho molta fame e non ho nulla da mangiare, per questo vado a fare la Comunione in tutte le chiese del quartiere. Così rimedio almeno la colazione». Il missionario lo sgridò, perché quel ragazzino non sapeva distinguere il pane eucaristico dal pane comune. Ma credo che Gesù non fosse scontento di quel ragazzino. Quel ragazzino infatti si sfamava di lui. Sfamava solamente la fame del corpo, invece Gesù vuole che sfamiamo la fame del cuore e la fame dello spirito.
Oggi vi nomino, seduta stante, quel ragazzo di cui non sappiamo il nome. Infatti, di Andrea è stato detto il nome, ma del ragazzo no. È così perché ciascuno di voi possa vedersi in lui.
Questo miracolo compiuto da Gesù viene chiamato “la moltiplicazione dei pani”. Questa denominazione è sbagliata perché Gesù non parla di moltiplicazione ma di distribuzione. Voi siete tutti “distributori del pane”, soprattutto del pane dell’amicizia e del pane spirituale. Poi anche di quello materiale.
Ecco, Signore, i nostri «cinque pani e i nostri due pesci». È poco. Ma è semplicemente tutto.

Omelia in occasione della Giornata sacerdotale durante il pellegrinaggio diocesano dell’USTAL a Loreto

Loreto (Basilica della Santa Casa), 27 luglio 2018

Gv 2,1-11

(da registrazione)

Perdonate il candore: «Ma che ci fa Gesù ad una festa di nozze?». Schiavi, lebbrosi, poveri d’ogni sorta gridavano la loro disperazione verso il Cielo. E, prima, generazioni di oranti avevano implorato che il Cielo si aprisse in loro soccorso. Ma Gesù, il Messia che viene nel mondo, comincia da una festa di nozze. A Cana, uno degli ultimi villaggi della Galilea delle genti, in quel contesto di festa “campagnola” – ma festa grande – compie il primo dei suoi segni: cambia l’acqua in vino. Verrebbe da dire che la potenza taumaturgica del Messia sia sprecata per uno scopo così modesto, quasi un numero da giocoliere. E tutto per cavar fuori dall’imbarazzo una coppia di sposi. Tutto qui?
Il Vangelo fa capire però che sotto c’è qualcosa di molto importante, carico di mistero, ben al di là di un episodio di cronaca familiare.
Andiamo anche noi, oggi, con Maria, Gesù e gli apostoli a Cana di Galilea e, partecipando a quella festa, guardiamo la famiglia con gli occhi di Gesù. Non sappiamo il futuro di quegli sposini di Cana. Certo, hanno avuto un inizio molto fortunato. Ma anche i nostri sposi hanno un inizio fortunatissimo, perché si sposano nel Signore, più o meno consapevoli. La Chiesa fa uno sforzo, quando gli è possibile, con l’impegno dei parroci e dell’équipe che guida gli incontri di preparazione al matrimonio. Si dirà che è poca cosa, ma posso testimoniare – ed è stato anche oggetto di conversazione nel tavolo dove mangiavo ieri – che per molti c’è la sorpresa di vedere cambiata la Chiesa. «Siamo venuti a testa bassa a questi incontri, pensando che ci avrebbero “bastonato” per le nostre assenze alla Messa e per la convivenza» confidano alcuni. «Tuttavia, c’è spirito di accoglienza, vogliono che parliamo, veniamo salutati con entusiasmo».
Come vive la famiglia, Gesù? Prima di tutto la vede come dono. Poi come una responsabilità. Infine, come una vocazione. La famiglia forse è il dono più grande, e lo è per tutti, anche per noi sacerdoti che professiamo il santo celibato per il Regno dei cieli. Anche noi proveniamo da una famiglia, anzi, coltiviamo relazioni famigliari. Vorremmo addirittura che le nostre comunità avessero caratteristiche di famiglia; non sapremmo pensarci fuori da una famiglia. La famiglia è un dono per tutti, davvero, perfino per quanti ne hanno sperimentato la difficoltà, il fallimento. Sono una grande sofferenza la mancanza della famiglia, i suoi cedimenti; un dolore che ha il timbro della nostalgia.
C’è una pagina meravigliosa della Genesi a cui Gesù ricorre spesso ed è una pagina che illumina la storia di ogni famiglia. Tutto parte da una parola di Dio: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2,18). Il male originale, il primo che appare sulla Terra prima ancora del peccato, è la solitudine, perché non c’è nessuno che basti a se stesso, nessuno che possa essere felice da solo, neppure il paradiso è sufficiente. Per questo Dio dice: «Voglio fare all’uomo un aiuto che gli corrisponda». Questo dono per Adamo è Eva, data a lui nel sonno, perché l’uomo non ha fatto nulla per meritarsela, tratta dal fianco perché pari nella dignità e ineffabilmente attraente. C’è un midrash che dice che Dio non ha tirato fuori la donna dalla testa dell’uomo perché la donna avrebbe potuto montare in superbia; non l’ha tirata fuori dai suoi piedi, perché l’uomo non la tratti come uno zerbino; l’ha tolta da una costola, dal suo cuore, perché fosse pari nella dignità. Insieme, uomo e donna, sono chiamati ad un amore per sempre e chiamati a suscitare vita. All’inizio, prima della «durezza del cuore» (Mt 19,8), era proprio così. Poi, con la «durezza del cuore», sono venuti i distinguo, le concessioni legali, i ripudi legittimati. Ma Gesù, nel tempo delle nozze di Cana, cambia l’acqua in vino, fa agli sposi il dono del sacramento del matrimonio. L’amore umano non viene abbassato, ma innalzato e trasfigurato, riconsegnato all’uomo e alla donna con un valore aggiunto, fino ad essere segno dell’amore tenero, fedele, indissolubile e fecondo di Dio. Gesù ripropone la grazia del principio. Chi si sposa, chi è sposato, chi progetta il suo matrimonio pensi a questa grazia. È potenza di Dio, non si basa sulle proprie forze, sulle proprie promesse di giovani innamorati. «Tutto ciò che fu visibile del nostro Redentore è passato nei segni sacramentali» (San Leone Magno). Nel sacramento del matrimonio passa la potenza di Gesù, del suo amore. Il matrimonio è un dono perché la creatura che viene al mondo, un cucciolo d’uomo, ha bisogno per amare di essere amato dal papà e dalla mamma. Il matrimonio è un dono perché è uno spazio spirituale dove le differenze possono fare armonia: giovani e adulti insieme, doni e carismi, uguaglianza e diversità, proprio come rami che da un unico albero, dallo stesso tronco, salgono divaricandosi. La famiglia dunque è luogo di intense relazioni, vera palestra di umanità.
La famiglia a volte viene chiamata, anche nella Bibbia, “la casa”. Ricordo che nei giorni del terremoto a Ferrara, nel 2012, molti di noi vivevano fuori casa, in tenda, e una famiglia venne a chiedermi il permesso di parcheggiare la roulotte nel cortile della scuola materna parrocchiale, perché non osava più tornare a casa; ho capito che “la casa” era la loro unione, era la famiglia. Ecco, le Scritture ci dicono che la famiglia è un grande dono, per questo facciamo festa ed è giusto, con immensa gratitudine. La famiglia, in quanto dono, va protetta, difesa, non sprecata.
Poi, la famiglia è una responsabilità perché ogni suo componente deve averla a cuore, dipende da lui la famiglia, non dipende solo dal papà o dalla mamma. Non vale essere soltanto “a rimorchio”. Occorre che ognuno faccia la propria parte. Responsabilità, del resto, vuol dire risposta. Amore che va e amore che torna nella reciprocità. È opportuno un esame: che cosa facciamo per la vita e la missione della mia famiglia? Inoltre, essendo anche una responsabilità sociale, occorre chiedersi che cosa facciamo per difenderla e per promuoverla come il più grande dei doni. Questo vale a livello politico, a livello culturale e come Chiesa.
All’inizio è detto che i due, uomo e donna, sono «una carne sola» (Gn 2,24), perché l’amore decide di assumere la vita dell’altro come propria; l’amore non è solo perdersi nell’altro, ma ritrovarsi, ritrovarsi più ricco perché la vita dell’altro diventa la tua. Quando si parla di fedeltà a volte si avverte una connotazione un po’ negativa, quasi di rimprovero; invece la fedeltà è ricchezza, perché la tua vita si riempie sempre più del profumo dell’altro e dell’altra che vive con te.
Infine, la famiglia è una vocazione. «Il Signore disse ad Abramo: “Vattene dalla tua terra,
dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò”» (Gn 12,1). E Abramo partì. Quando vado ad incontrare i fidanzati nei corsi di preparazione al matrimonio mi viene sempre da pensare ad Abramo e vedo grande l’esperienza spirituale che stanno facendo quei fidanzati, anche se spesso sono già conviventi. È un inizio, è una partenza, è un rischio, come ogni vocazione… Ad esempio, che ne sapevo io il giorno che nella cattedrale mi sono disteso per terra davanti al vescovo per ricevere la consacrazione sacerdotale: avevo solo ventitré anni. Mi hanno fatto chiedere la dispensa per l’età (si può ricevere l’ordinazione sacerdotale solo al compimento del ventiquattresimo anno di età). Penso anche, soprattutto in questo momento, a Maria. Anche per lei il matrimonio è stata una vocazione. Quando dico “vocazione” sottolineo che è “iniziativa di Dio”. Può sembrare che i due sposi si siano scelti e che abbiano deciso loro di sposarsi; ma se scendiamo in profondità, capiamo che c’è un progetto meraviglioso che li ha fatti incontrare, che ha fatto sì che si piacessero, che diventassero una cosa sola, un progetto di Dio. Certo, c’è una partenza e un distacco, ma anche la promessa di una benedizione. E le promesse di Dio non sono come quelle del marinaio. Si compirà la promessa, la vocazione, con la forza che viene da Colui che chiama. L’audacia del “sì” non è temeraria. Il Signore chiama ad una missione, non a diventare “due cuori e una capanna”: la famiglia è una grande risorsa sociale ed ecclesiale.
Il Signore ha pensato alla famiglia non solo per prendersi cura l’uno dell’altro; anche la sessualità va ricondotta nell’alveo della crescita interpersonale e nella prospettiva della vita, della generazione. Questa missione è stata affidata dal Signore. Coraggio! Pensiamo a quanta stima, a quanta fiducia ha il Signore nel chiamarci ad essere nella famiglia suoi collaboratori per la vita, per la trasmissione della fede, per un amore sempre più grande. Così sia.

Omelia XVI domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (Santuario B.V. Grazie), 21 luglio 2018

Incontro dei “referenti” della Camminata del Risveglio

Ger 23,1-6
Sal 22
Ef 2,13-18
Mc 6,30-34

(da registrazione)

Ho riflettuto per diversi giorni soltanto sul primo versetto del Vangelo: «Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato» (Mc 6,30). Il testo greco è ancora più esplicito con l’utilizzo di un verbo che esprime il ritorno concentrico degli apostoli. Gesù li aveva mandati in tutto il mondo «a due a due» (Mc 6,7). E dopo aver fatto questa esperienza di apostolato, di missione, sono entusiasti di rivedere il loro maestro, il loro amico, e di stare con lui. Avevano lasciato tutto per lui: il lavoro, la famiglia, tutto ciò che avevano. Ora tornano da lui: che affetto, che amicizia! Gli apostoli raccontano quello che hanno detto e fatto nel suo nome. Sì, loro hanno detto e fatto quello che il Maestro aveva loro indicato. C’era già un’effusione di Spirito Santo sufficiente per capire che non erano andati a fare un apprendistato missionario, una sorta di propedeutica. No, Gesù gli aveva dato la sua potenza, addirittura quella di cacciare i demoni, guarire i malati e annunciare la conversione: le opere che fa il Messia! Ebbene, sono divenuti partecipi della missione di Gesù. Che bello, allora, tornare e raccontare.
Questo primo versetto mi è piaciuto tanto perché questa settimana ho fatto il riassunto delle Visite Pastorali. È prescritto che il Vescovo, dopo la Visita Pastorale, scriva quello che ha visto e vissuto stando con i suoi fratelli. I primi tempi della Visita Pastorale scrivevo ogni sera quando tornavo a casa, ma con il passare dei mesi ho tralasciato questo lavoro e mi sono ritrovato a dover scrivere tutto alla fine. Però questa settimana è stata molto bella, perché scrivendo mi sembrava di raccontare a Gesù quello che avevo detto e quello che avevo vissuto. L’apostolato ha il ritmo del cuore, perché è come il cuore da cui il sangue parte e poi viene risucchiato, rinnovato e rimandato: un movimento di andata e ritorno. Così è l’apostolato. Pensavo: «Signore, mi hai affidato il capitale della tua Parola, come l’avrò trafficato?». È naturale che la missione si concluda con l’incontro personale con Gesù. Mi piace vedere come Gesù non pretenda che i suoi amici siano degli stakanovisti della predicazione. Gesù ha compassione; sa che è stato difficile per loro. In alcuni posti gli apostoli sono stati accettati, in altri li hanno scacciati. Hanno faticato. E Gesù adesso gli consente di sperimentare il suo amore, che li chiama a sé in luogo appartato, tranquillo, per riposare. La parola “riposare” richiama la Genesi, quando Dio, dopo aver compiuto la creazione, «riposò il settimo giorno» (cfr. Gn 2,2). E che cos’è la domenica se non il settimo giorno, il giorno nel quale il Signore ci chiama a stare con lui? Il riposo, i missionari non lo troveranno nel successo, nemmeno nella proporzione tra la semina ed il raccolto; non è questo che dà riposo, sollievo. Ma unicamente l’essere sul cuore di Gesù.
Viviamo così la domenica, quando andiamo alla Messa. La Messa è un incontro. Una volta si sottolineava l’aspetto dell’obbligo, del precetto. La Chiesa è anche una madre e una maestra, quindi cerca di educare, ma per gli adulti nella fede la Messa non va vissuta come precetto da adempiere, ma come sosta nel cuore di Gesù. Una settimana siamo stati mandati a fare i missionari, la domenica Lui ci richiama a stare con Lui, a fare l’esperienza di Giovanni che ha posto la sua guancia sul petto di Gesù. A questo proposito mi viene in mente che spesso ai miei seminaristi – ero educatore in Seminario – proponevo di vivere la scena di un vecchio film, “Marcellino pane e vino”. Li invitavo a fare così: «Immaginate di appoggiare una scaletta alla croce di Gesù, salite e poi mettete la vostra guancia sulla guancia di Gesù, il vostro cuore sul cuore di Gesù per sentirne i battiti, per sentire il suo respiro e immaginate di parlare cuore a cuore con Lui». Quante vedove di Nain da consolare, quanti lebbrosi da sanare, quanta disperazione salita al cielo in forma di preghiera… e Gesù chiama gli apostoli alla sosta, a riposare. Sembra un perdere tempo, ma la preghiera non è mai tempo perso. È una tentazione il pensare che ci sono cose più urgenti da fare. Papa Francesco, ai Vescovi italiani riuniti all’Assemblea Generale del maggio scorso, come prima cosa chiese: «Voi pregate?». «Il Vescovo deve pregare il doppio degli altri – proseguì il Papa – perché deve combattere per il suo popolo, deve stare con le mani alzate davanti al Signore per il suo popolo».
Gesù portò i suoi “in vacanza”, in un luogo deserto, ma la gente si era accorta della barca e, poiché il mare di Galilea ha molte insenature, la gente sulla riva può rincorrere la barca e arrivare a destinazione prima di essa. Quando Gesù approdò all’altra riva vide la folla che lo attendeva. Anche qui l’evangelista utilizza un verbo bellissimo, tradotto in italiano con la parola “commozione”. In realtà il verbo greco è più forte, la compassione è come una lacerazione dei visceri. Gesù prova questa lacerazione di fronte alla folla che è come «pecore senza pastore» (Mc 6,34). Allora stiamo sul cuore di Gesù, sulla guancia di Gesù e sentiamo forte la lacerazione dei suoi visceri: è la sua compassione d’amore.

Omelia XV domenica del Tempo Ordinario

Omelia nella Chiusura della Visita Pastorale
nella parrocchia di Casteldelci

Senatello, 15 luglio 2018

Am 7,12-15
Sal 84
Ef 1,3-14
Mc 6,7-13

(da registrazione)

Contraccambio le parole del diacono Antimo per ringraziare e salutare tutti voi. Un saluto particolare al signor Sindaco che rappresenta la cittadinanza di questo vastissimo comune. Ringrazio dell’accoglienza. Ringrazio il coro che ci sta aiutando nella preghiera.

1.
Il Vangelo che abbiamo ascoltato incrocia la mia vita, la mia storia. Gesù chiama a sé e poi manda nel mondo. Ecco, modestamente, con i miei pochi mezzi, sono stato chiamato dal Signore e mandato a “fare strada” (gr. odon poiein): non solo a camminare – come diremmo in italiano –, ma anche letteralmente a “fare strada”, perché a volte bisogna “farsi strada” in mezzo ad un bosco o ad un territorio difficile. Quando il Signore chiama – questo vale per ognuno di noi – ti fa sentire nel cuore che ha una certa confidenza con te; non ti chiama per cullarti ma per mandarti a “fare strada”. “Fare strada” non va inteso in termini di chilometri, perché anche quello che si vive in casa, nelle piccole o grandi aziende, nella scuola, nella famiglia, è tutta “strada” che si fa, “strada di dentro”, cammino interiore. Anche un perdono esige un cammino interiore profondo, anche le diversità di opinione, di sensibilità, esigono che dentro si faccia strada per incontrarsi. Il Signore chiama per farci “fare strada”, per indicarci un cammino. Il cammino è il futuro, è creatività, è generatività. Il Signore toglie dalla situazione di “panchinaro”, per metterci in azione.

2.
Come manda il Signore il suo camminatore? Il Signore non manda mai navigatori solitari, li «manda due a due», perché a parlare non siano le parole, ma la testimonianza della carità reciproca. Due a due, insieme, facendo comunità. Li manda con un equipaggiamento molto leggero; le uniche eccezioni consentite sono il bastone e i sandali, già un’allusione alla missione fuori da Gerusalemme. Questo testo, dunque, non è antichissimo, è già in una fase di sviluppo del cristianesimo, fuori da Gerusalemme e dalla Giudea. Lì occorreva andare col bastone per tanti motivi, per sorreggere il passo, come gli amici sorreggono il cuore. L’equipaggiamento è molto leggero, perché il Signore vuole che la Parola che viene annunciata si imponga da sé; non sono i mezzi, le attrezzature che rendono convincenti, neanche la cultura del predicatore, che pur deve esserci. Il Vangelo farà breccia non sui mezzi. Un minimo di mezzi di sussistenza è necessario, ma anche se avessimo tutti i network del mondo e se avessimo la possibilità di esibire ricchezze, non per quello il Vangelo prenderebbe piede. Il Vangelo attecchisce di per sé, per la sua forza interiore, ma anche per la testimonianza. Quindi, la prima predica, la più convincente, è la propria povertà. Il Signore, nonostante i nostri dubbi, le nostre fragilità, le nostre fatiche, dice: «Vai!».

3.
Dove ci manda il Signore?
Gesù Risorto dirà: «Andate in tutto il mondo a predicare il Vangelo» (cfr. Mc 16,15). Ma voglio sottolineare una frase di questo Vangelo in cui Gesù dice di andare «nella casa». La casa anche storicamente fu il luogo dove il cristianesimo è nato. «Si radunavano nelle case» (cfr. Rm 16,3-5). Alla chiusura della Visita Pastorale posso dire, dopo aver girato molte case dove ci sono anziani e ammalati, che la casa è il luogo dove il mistero di Gesù morto e risorto è quanto mai significativo, spiega la nostra vita, perché dire “Gesù morto e risorto” in moneta corrente è dare la vita, è l’amore che passa attraverso il dono di sé. Potremmo anche dire attraverso “la morte” di noi stessi, come dice la parola del Signore: «Siamo passati da morte a vita», la risurrezione, non solo alla fine, quando Dio vorrà che ci sia la grande risurrezione, ma in ogni attimo «passiamo dalla morte alla vita» quando amiamo i fratelli (1Gv 3,14). «Siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo»: questo vorrei lasciarvi come ricordo della Visita Pastorale.
Sulla Terra stiamo per arrivare a 8 miliardi di esseri umani: 8 miliardi di bocche da sfamare, ma anche 8 miliardi di cervelli e di cervelli connessi fra loro. Che potenza! Bisogna che questi 8 miliardi di cervelli siano indirizzati verso il bene, verso l’amore.