Omelia nella III domenica del Tempo Ordinario

San Marino Città (RSM), 24 gennaio 2021

Domenica della Parola

Gio 3,1-5.10
Sal 24
1Cor 7,29-31
Mc 1,14-20

Ci fu un tempo in cui il santo libro della Parola di Dio andò smarrito. L’episodio è raccontato nel secondo libro dei Re (cfr. 2Re 22-23), al tempo del re Giosia, un re ragazzino (proclamato re a soli otto anni). Sotto il suo regno è in atto un programma di rinnovamento. Si comincia dal Tempio di Gerusalemme. Il re convoca architetti, artigiani, falegnami, muratori e c’è un gran lavoro attorno alla santa fabbrica. Il re raccomanda un riordino radicale e le squadre di operai scendono fino agli scantinati del Tempio. Viene riferito al re che sono state recuperate delle carte antiche, forse è il libro dell’Alleanza. Consultano una profetessa e lei certifica che si tratta proprio del libro dell’Alleanza. Quando il re viene informato con precisione, prende coscienza che la Parola di Dio è, per così dire, “finita giù per le scale di cantina”. Il re organizza allora un grande momento penitenziale a cui invita tutto il popolo. Si darà lettura ininterrotta del libro dell’Alleanza. Ci fu grande gioia per le Sacre Scritture ritrovate.
Che cosa ci chiede il Santo Padre, papa Francesco, nella Domenica della Parola?
Attenzione: mai nella Chiesa si è dimenticata la Parola di Dio. Tuttavia, può succedere che nel nostro cuore, nella nostra vita spirituale, nella nostra pastorale perdiamo il contatto con la Parola di Dio. Per questo papa Francesco, con l’indizione di questa Domenica, chiede di riappropriarci della consapevolezza di che cos’è la Parola di Dio e di quanto sia determinante per la vita delle nostre comunità.
Abbiamo il tesoro dell’Eucaristia e abbiamo il tesoro delle Sacre Scritture: dobbiamo custodirle, leggerle, pregarle, soprattutto viverle.
Nella mia esperienza ho trovato due generi di persone. C’è chi parte dalla vita con le sue interpellanze (prospettiva esperienziale) e le risolve chiedendosi: che cosa dice Gesù a proposito di questo? Cosa dice la Parola di Dio su questa cosa che mi accade? E obbedisce alla Parola. C’è poi chi parte dal testo sacro (prospettiva kerygmatica) e prova a declinarlo nelle situazioni di vita. Per far questo legge la Parola di Gesù, dei profeti e dei Salmi (preghiere che diceva anche Gesù), fa tesoro dei brani ascoltati nella celebrazione domenicale, sottolinea una frase in particolare e, durante la settimana, fa l’esercizio di averla presente: la rumina (in senso metaforico), la pensa, cerca di iniziare la giornata alla luce di quella Parola e di viverla. Ad esempio, Gesù dice: «C’è più gioia a dare che a ricevere» (At 20,35). Sarà vero? Non c’è altro da fare che accettare la sfida. Oppure Gesù dice: «Ero forestiero e mi hai ospitato» (Mt 25,38). Allora prova a credere che Gesù è presente nell’ospite e lo accoglie come accoglierebbe Gesù.
L’una e l’altra prospettiva si basano sulla convinzione che la Parola sia efficace, che abbia una potenza propria se accolta con fede. Potrei raccontare un’infinità di esperienze in tal senso. Della Parola di Dio si dice che è «lampada per i nostri passi» (Sal 119,105).
La Parola educa, fa crescere. Alcuni vedono la Parola come la lettera che il Signore ha scritto per noi. La lettera è cara, si conserva. Si dice di santa Cecilia che portava sempre il Vangelo nel suo cuore. Altri ancora pensano la Parola di Dio come un album di fotografie; lo sfogliano e vedono come Dio sia stato presente nella storia del suo popolo: vicende, personaggi, inseguimenti. E il Signore continua a fare così attraverso la Parola che viene letta: è Lui che parla.

Consideriamo le letture di oggi. La Prima Lettura ci parla di un profeta, Giona, che si rifiutò di andare a Ninive a proclamare la conversione: fuggì verso l’Occidente anziché andare ad Oriente; poi, pentitosi, tornò ad annunciare la conversione. Tutti si convertirono. Quando Giona si è deciso a credere a quello che il Signore gli proponeva, ha visto i frutti.
Nella Seconda Lettura san Paolo afferma che c’è un tale splendore nel Vangelo che tutto il resto appare relativo. Si trova la libertà, si trova una sana “indifferenza”, per cui non si è più aggressivi, “attaccati”, bisognosi di riconoscimenti, perché si è incontrato lo splendore del sole.
Nel Vangelo Gesù passa lungo le rive di Galilea e chiama. Gesù «vede» Simone e Andrea. Quante persone avrà visto, quanta gente ci sarà stata al mercato di Cafarnao o di Betsaida… Ma Gesù vede nel profondo e vede quello che Simone non immaginava assolutamente. Gesù gli cambierà il nome in Pietro, diventerà “la roccia”, lui che era uomo d’acqua, su cui si fonderà la comunità. Gesù «vede» Andrea che a malapena conosceva le rotte del lago e diventerà un grande evangelizzatore. Andrà verso Occidente a portare la Parola di Gesù. Gesù vede e dice: «Venite». Li chiama «perché stiano con lui» (Mc 3,15), come ha fatto con noi: ci ha chiamati perché stessimo con Lui. E loro lo trovano “affidabile” e proprio per questo lasciano tutto e partono. Allo stesso modo noi troviamo Gesù affidabile, gli diamo totale fiducia e lo annunciamo.
Poi Gesù aggiunge che li fa «pescatori di uomini». Domenica scorsa leggevamo in un’altra pagina di Vangelo che Gesù diceva a due dei suoi discepoli: «Che cosa cercate?» (Gv 1,38), cioè: «Quali sono i vostri desideri profondi? Mettete l’amo dentro il vostro cuore e pescate il vostro sogno, perché vi prometto di compiere quel progetto. Sono con voi». Qui, invece, Gesù dice che l’amo va gettato verso gli altri, vanno cavati fuori dall’acqua e portati al sole, alla luce. Pensate a tutta l’attività educativa, ma soprattutto alle relazioni, anche in questo tempo nel quale ci viene chiesto il distanziamento per salvare la società. Salvare le relazioni: questo il grande compito che ognuno di noi è chiamato a svolgere. Buona settimana a tutti. Vi invito a evidenziare la frase del Vangelo che preferite e a viverla. Sarebbe bellissimo trovare un momento di condivisione: raccontare cosa ha fatto la Parola di Dio in noi, perché è Parola veramente efficace: «Dio disse e le cose furono fatte» (Gn 1,3-24). Tra poco noi sacerdoti pronunceremo delle parole straordinarie di Gesù: «Prendete, mangiate: questo è il mio corpo». E accadrà il più sorprendente dei prodigi: Gesù si farà presente nel pane, nel vino. La Parola che scende su di noi, se la viviamo, ci fa diventare Chiesa di Gesù, suo mistico Corpo.

Omelia nella II domenica del Tempo Ordinario

Monte Cerignone (PU), 17 gennaio 2021

1Sam 3,3-10.19
Sal 39
1Cor 6,13-15.17-20
Gv 1,35-42

È cominciato il tempo liturgico che chiamiamo “ordinario”. Meglio sarebbe dire che inizia il nostro cammino “quotidiano” alla ricerca di Gesù. Ma come incontrarlo?
Giovanni Battista l’ha indicato ai discepoli con questa espressione: «Ecco l’Agnello di Dio!». La parola “Agnello” non indica solo “l’animale-simbolo”, ma nelle Scritture significa anche “servo”. Ecco, allora, un doppio richiamo: l’Agnello pasquale che salva, che può essere mangiato, che nutre (cfr. l’Agnello dell’Esodo); il Servo di Dio, cantato nei quattro “Carmi del Servo sofferente” di Isaia, soprattutto nel quarto («attraverso le sue piaghe saremo risanati» Is 53,5). Ecco chi è Gesù!

C’è tanta autobiografia nel Vangelo di questa domenica. Penso sia così anche per molti di voi. Giovanni Battista indica Gesù che passa, ma tutto il brano è fatto di continui richiami al movimento, agli sguardi, agli inviti, agli appostamenti, agli inseguimenti: è vita.
Si incomincia con l’inseguimento dei due discepoli del Battista: Andrea e il discepolo innominato (ma dal contesto del quarto Vangelo si evince che si tratta di Giovanni). I due vedono Gesù solo di spalle. Al lettore non sfugge il richiamo all’esperienza di Mosè (cfr. Es 33,18-23) che chiede di vedere il volto di Dio, ma questo non gli è dato: non è possibile a nessuna creatura umana. Chi vede il volto di Dio non resta in vita… Ma quando il Signore sarà passato davanti alla rupe ed avrà coperto con la mano la “fenditura nella roccia”, Mosè potrà vedere le sue spalle. Così anche “quei due” all’inseguimento di Gesù potranno conoscerlo solo dopo che Lui è passato. Questo accade anche a noi: lo conosciamo dopo che lo abbiamo seguito ed abbiamo visto quello che ha fatto nella nostra vita.

Ma qui c’è una novità, una “sorpresa”: Gesù si volta! In questo “voltarsi” è sintetizzata tutta la vicenda di Gesù: Dio si fa vedere! “Voltarsi” non significa solo “girarsi”, ma anche “farsi volto”. Gesù è Dio che si lascia vedere, guardare, “inchiodare” con la nostra osservazione: “voltandosi” si consegna, entra nel nostro limite… E tutto per incontrarci!

Gesù rivolge ai due una domanda: «Che cosa cercate?». È una domanda sul desiderio: «Qual è il vostro desiderio più profondo?». Gesù si propone come compimento del nostro desiderio. Dio non ci è nemico, non ci propone cose assurde, ma vuole partire dal meglio che c’è in noi. Nei Salmi si chiede: «Mostraci il tuo volto, Signore» (cfr. Sal 27,8; 31,21; 90,8; 17,5 ecc.). Questa la risposta dei due: «Maestro, dove dimori?». Non chiedono tanto un’informazione topografica, un indirizzo con tanto di numero civico, ma dove “dimora” e “rimane”.

Ancora una volta il lettore di tradizione ebraica non può non pensare al tempio, il luogo della “Dimora”. «Qual è, Signore, il luogo dove io posso stare con te?». Sappiamo che Gesù «viene da Nazaret», dove è vissuto fino ai trent’anni (cfr. Lc 3,23); ha abitato a Cafarnao nel tempo del suo ministero in Galilea (a Cafarnao paga le tasse per lui e per Pietro cfr. Mt 17,27) e a Betania in casa di Marta, Maria e Lazzaro (cfr. Lc 10,38,42; Gv 12,1-11), vicino a Gerusalemme. Nell’Ultima Cena dirà che la sua dimora è «nel seno del Padre», dimora alla quale invita i suoi discepoli (cfr. Gv 14,2-4.11.23, ecc.).

«Che cosa cercate?»: una domanda fatta sulle rive del fiume Giordano, dove Gesù ha appena ricevuto il Battesimo. Quella domanda ritornerà alla fine del Vangelo, nel giardino in cui si trovava il sepolcro di Gesù. Maria di Magdala si ferma, va verso Gesù, pensa che sia il custode del giardino e gli chiede: «Dove hanno messo il corpo del mio Signore?». E Gesù si volta, si fa volto, e le chiede: «Chi cerchi?» (cfr. Gv 20,15). Tutto il Vangelo sta incluso tra queste due domande: la prima ai discepoli lungo il fiume, l’ultima a Maria di Magdala nel giardino. Tutto il Vangelo è un cammino per cercare non “qualcosa”, ma “Qualcuno”.

Riferendomi alla Prima Lettura di questa liturgia, riesprimo così il desiderio di quei discepoli: «Signore, dove dormi? Dove vai quando è notte?». Samuele va a dormire e sente la voce: «Mi hai chiamato? Eccomi». «No, torna a dormire», risponde Eli (cfr. 1Sam 3,5). E il Signore lo raggiunge in quel momento. Anche noi viviamo giornate di buio e di prova. Il Signore ci aiuta a stare con lui. Ma dov’è la sua casa?
Come si vede nella replica di Gesù, non c’è una raccomandazione sul comportamento, sul galateo, ma un invito: «Venite e vedrete» (Gv 1,39)!

Da questo punto in poi c’è uno “spazio vuoto”: non viene detto dove sono andati, che cosa hanno visto, che cosa hanno sentito. È voluto. Giovanni chiede al lettore di fare la sua parte e di colmare – per così dire – quello “spazio vuoto”. Il testo è laconico: «Essi videro dove Gesù dimorava». Tutto qui. Dove Gesù li ha portati perché «stessero con lui» sarà la causa del loro entusiasmo e del fuoco contagioso che si sprigionerà da quell’incontro. È il fuoco della missione! È un incontro che custodisce un mistero.
Gesù conduce chi sta con lui dentro se stesso. Si tratta ancora di movimento, ma molto più di un “movimento locale”. Quando avremo fatto come i due discepoli il cammino verso la conoscenza di noi stessi, incontreremo veramente Gesù. Prendendo consapevolezza della nostra indegnità e della nostra inadeguatezza per stare accanto a lui, conosceremo la misura della sua misericordia e del suo amore. Il luogo dove il Signore ci invita ad abitare non è altro che la carità!
Giovanni, l’autore del quarto Vangelo, ricorda l’ora di quell’incontro: ha lasciato un segno indelebile nella sua vita. Il desiderio, l’incontro, quello spazio di tempo e… infine, il cambio del nome a Simone. Il tempo è dato per la nostra maturazione.
Vi invito a ritornare, durante la settimana, su questi interrogativi; quelli di Gesù: «Quali sono i tuoi desideri più profondi? Qual è il momento in cui mi hai incontrato?», e poi i nostri: «Signore, dove dimori? Dove dormi?». Voglio stare con te.
Buon cammino, buon tempo!

Omelia nella Festa del Battesimo di Gesù

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 10 gennaio 2021

Is 55,1-11
Da Is 12
1Gv 5,1-9
Mc 1,7-11

Siamo degli inguaribili egoisti, perché nella festa del Battesimo di Gesù ci viene da parlare del nostro Battesimo. In verità oggi dovremmo sforzarci di stare nella contemplazione del mistero di Gesù che scende nella valle del Giordano e si fa battezzare. Questo evento è di grande portata teologica.
Abbiamo lasciato da poco la capanna di Betlemme, con gli angeli che cantano la venuta del Salvatore (scena di una tenerezza infinita), con i pastori che sanno cogliere e riconoscere il segno di un Dio in un bimbo, con lo sfavillio del corteo dei magi che vengono a portare l’oro al re, la mirra al martire e l’incenso alla divinità. Questa volta nulla di tutto questo: Gesù ha trent’anni ed è noto solo ai nazaretani. Siamo nella valle del Giordano, dove un profeta rude chiama alla conversione, invita alla acque del Battesimo per il pentimento e, mescolato tra la folla – il Vangelo dirà: «In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete – Gesù fa la fila con i peccatori, con coloro che si sentono bisognosi di rinnovamento, e scende nell’acqua. Dobbiamo fare di questa “discesa” una lettura che va al di là della cronaca. Ricordate la preghiera dell’Avvento: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi…». Questo è un tratto della discesa di Gesù: l’incarnazione nel grembo di Maria, il nascondimento nella casa di Nazaret, poi la venuta alla valle del Giordano e la discesa nelle acque. Un giorno lo contempleremo mentre discende nel profondo degli inferi per recuperare coloro che giacciono nell’ombra della morte. In questa immersione Gesù porta tutta la nostra umanità ferita dal peccato e lontana da Dio.
È un momento molto solenne della vita di Gesù e noi ne godiamo. I cieli si sono aperti e si ode una voce che dice: «Ecco il figlio mio, l’amato, colui nel quale ho posto il mio compiacimento». È il momento in cui viene dichiarata la vera identità del figlio del carpentiere: è il Figlio di Dio, il Signore! In Gesù ora la nostra umanità risale dalla sua condizione. Le parole che il Padre rivolge a Gesù sono una solenne dichiarazione alle sue creature.
Gesù è disceso nelle acque ed è risalito dalle acque: ha fatto il passaggio. L’antico popolo di Israele ha vissuto una vicenda analoga passando attraverso le acque verso la libertà. Gesù indica il cammino della liberazione dal peccato.
I cieli aperti su Gesù, oltre al dono della voce del Padre, offrono il dono dello Spirito che aleggia, proprio come aquila che cova e fa nascere vita nuova, come accadde nel momento della creazione: «Lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (cfr. Gen 1,2). Ora nell’umanità di Gesù sboccia la nuova creazione.
Dicevo che siamo degli inguaribili egoisti perché pensiamo al nostro Battesimo, ma pensarci non è del tutto sbagliato. C’è molto più di un’analogia tra il Battesimo che Gesù riceve da Giovanni e quello che riceviamo noi. Gesù vuole che venga ripetuto sui discepoli, ma sarà un Battesimo nello Spirito, un rinnovamento, una nuova creazione. Se mi consentite la metafora, il sacramento crea e svela la nuova condizione dei credenti in Gesù: è come aprire una conchiglia e vedere la bellissima sorpresa di una perla. La perla che troviamo in noi è il dono della vita nuova. Anche su di noi il Padre pronuncia nel Battesimo le parole dette a Gesù: «Tu sei figlio mio», abbiamo un Dio per papà; «l’amato», abbiamo un Dio che ci ama; «in te ho posto il mio compiacimento», siamo motivo della sua gioia. A volte affrontiamo la vita come una gara, ci confrontiamo con gli altri, siamo preoccupati del nostro livello di prestazioni, mentre invece la nostra vita non è altro che un andare verso un papà che ci accoglie e ci ama immensamente. Essere consapevoli di questo ci dà gioia purissima: con Gesù abbiamo “affogato l’uomo vecchio” e nasce “l’uomo nuovo” (cfr. Rom 6).

Omelia nella II domenica dopo Natale

Talamello (RN), 3 gennaio 2021

Sir 24,1-4.12-16
Sal 147
Ef 1,3-6.15-18
Gv 1,1-18

È come trovarci su una vetta altissima; l’orizzonte si allarga, davanti a noi uno squarcio di cielo! Giovanni, l’aquila, fissa il mistero del Verbo incarnato, Gesù Cristo, e accompagna anche noi in questo abisso di luce.
Il brano che è stato proclamato è il Prologo, introduttivo al quarto Vangelo. È composto di sette strofe che, come onde successive, si allargano e poi ritornano, e ripresentano il tema precedente approfondendolo. È un inno ed una professione di fede. Come l’ouverture di un’opera sinfonica contiene i temi musicali che verranno svolti, così nel Prologo sono concentrati e anticipati i contenuti di tutto il Vangelo.
Giovanni (prendiamo per buona la Tradizione) è a Efeso, una grande, raffinata e affascinante città dell’Impero. Lì c’è una piccola comunità ebraica a contatto con il mondo e con la cultura ellenistica. Il Vangelo secondo Giovanni, e particolarmente questa prima pagina, è un testo missionario, attraverso il quale si annuncia Gesù Cristo. Per questo Giovanni fa proprie parole di quella cultura, come la parola Logos (che viene tradotta nel latino Verbum e in italiano Parola) o le contrapposizioni verità/menzogna, luce/tenebre, vita/morte, ecc.: concetti universali tipici della riflessione filosofica del tempo. Giovanni assume parole e concetti e, dall’interno, dà loro un significato nuovo. È un esempio di inculturazione. Ma il quarto Vangelo fa propri anche i sentimenti e il modo di pensare della comunità ebraica, soprattutto il concetto di rivelazione.
Provo a dare qualche spunto di meditazione.

1.

«In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio». Si noti l’incalzare ripetuto del verbo essere all’imperfetto, con tre significati diversi. Con la sfumatura dell’esistere, un’esistenza dialogica, cioè di relazione: è il Logos, che è “verso” il Padre. Poi, il verbo essere con la sfumatura del dimorare, perché il Logos abita nel Padre. Ho usato volutamente l’espressione Padre anche se qui viene usata la parola Dio (in questo contesto Dio è il Padre). Infine, la terza sfumatura: essere come l’essenza stessa. Giovanni esprime una profonda convinzione di fede: Gesù, Logos incarnato, è Dio! È unito al Padre in un soggetto personale unico e, in Lui, esiste da sempre, prima di tutti gli esseri creati. La sua conoscenza del Padre è immediata e personale.

2.

«Dio nessuno lo ha mai visto. Il Figlio unigenito che è Dio ed è nel seno del Padre, lui ce lo ha rivelato» (Gv 1,18). Il desiderio dell’umanità: vedere Dio, parlargli, fargli domande e – perché no? – protestare. Da ricordare, nei Promessi Sposi, l’esclamazione dell’Innominato alla ricerca di Dio: «Dio, Dio, se lo vedessi, se lo sentissi!» (cfr. A. Manzoni, I promessi sposi, cap. XXIII). Senza Gesù – dice Giovanni – il desiderio di vedere Dio rimane frustrato e la frustrazione porta a fabbricarsi idoli, cioè immagini distorte, sbagliate di Dio. Ecco, allora, l’immagine di un Dio che è geloso della felicità dell’uomo, che diventa addirittura nemico dell’uomo, giudice implacabile che lo spia e non ne sopporta le fragilità. Invece l’incontro con Gesù rivela il volto di Dio. Uno dei temi importanti del quarto Vangelo è proprio quello di Gesù, rivelatore del Padre.

3.

Nel Prologo è sintetizzato il percorso del Logos nel suo incontro con noi. Il Logos è in dia-logo (relazione, comunione) col Padre, ma è anche in dia-logo (relazione, comunione) con l’umanità. È mediante il Verbo che tutto viene creato e tutto esiste. Qualche autore ha scritto che Dio crea adoperando l’alfabeto, come a dire che il Verbo è il principio di intellegibilità di tutto ciò che esiste. Il Logos accompagna il popolo di Israele nel suo cammino; attraverso i sapienti si esprime, attraverso i profeti parla, ma il momento decisivo della storia è quando il Logos si fa carne: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare (piantare la sua tenda) in mezzo a noi» (cfr. Gv 1,14). Giovanni vuole che il lettore sia persuaso che il Logos incarnato non è un’ombra e che la sua non è un’esistenza fumosa; il Logos non ha preso le sembianze di un uomo, ma si è veramente fatto uomo. La parola “carne” sta ad indicare la concretezza, ma anche la fragilità, dell’esistenza umana. Significativo questo testo di Guerrico d’Igny (1070-1157): «Poiché infatti Dio non poteva parlare a noi come ad essere spirituali, ma come ad esseri carnali, la sua Parola (Logos) si è fatta carne, affinché ogni carne potesse non solo ascoltare, ma anche vedere ciò che la bocca del Signore ha detto».
Ricordo una lezione di catechismo in cui si chiedeva: «Perché gli angeli si sono ribellati a Dio? Perché Lucifero si è fatto capo di una legione di angeli che hanno lasciato il paradiso?». La catechista rispondeva: «Perché era scandalizzato davanti al mistero dell’incarnazione, al fatto di adorare un Dio che è uomo». Ma questo è lo scandalo che ci salva!

4.

Un’ultima annotazione. Il Verbo fatto carne ci dà la possibilità di diventare figli di Dio. Non per una conoscenza estrinseca, ma facendoci partecipi della sua divina natura. Il Logos ha assunto la carne; la carne viene divinizzata, resa capace nel Logos di una relazione inimmaginabile con Dio. Anche qui un riferimento alla Genesi. I progenitori furono tentati dal serpente: «Diventerete come Dio se mangerete il frutto proibito» (cfr. Gn 3,4). Qui, invece, Gesù ci offre di essere partecipi della divinità: «Ha dato il potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,12). In che modo? Mediante la fede in Lui, mediante l’amore che ci ha rivelato. Allora siamo anche noi partecipi di questa vita dia-logica (relazione-comunione), una vita secondo il Verbo.
A conclusione, preghiamo con le parole del Prefazio del Natale: «In lui risplende in piena luce il misterioso scambio che ci ha redenti: la nostra debolezza è assunta dal Verbo, l’uomo mortale è innalzato a dignità perenne e noi, uniti a te (Padre) in comunione mirabile, condividiamo la vita immortale» (Prefazio del Natale, III).

Omelia nella Solennità dell’Epifania

Maciano (RN), Convento Santa Maria dell’Olivo, 6 gennaio 2021

Is 60,1-6
Sal 71
Ef 3,2-3.5-6
Mt 2,1-12

Sono molti i temi di questa liturgia e tutti si concentrano sul Bambino. Non dico il Bambino di Betlemme, perché, secondo il Vangelo di Matteo, Gesù viene trovato dai magi sì a Betlemme, ma in una semplice casa.
Annuncio alcuni di questi temi solo con una pennellata, affidandoli poi alla meditazione di ciascuno.

1. IL PRELUDIO DELLA PASQUA
Gesù manifesta ai magi la sua vera identità di Figlio di Dio, Salvatore, Messia; identità che sarà veramente visibile solo con la sua morte e risurrezione. Per questo solitamente, nella Messa dell’Epifania, si canta la data della Pasqua, come a dire che tutto il tempo è centrato sul mistero di Gesù morto e risorto. La Chiesa vorrebbe abbracciare il mistero di Cristo tutto in una volta, tutto insieme, ma non è possibile… Allora quel mistero viene, per così dire, vissuto nel corso dell’anno e poi viene ripreso l’anno successivo, come in una spirale ascensionale, di luce in luce, di grazia in grazia.

2. IL TEMA DELLA LUCE
Una stella luminosa porta alla casa dove si trova il Bambino in braccio a sua mamma, una stella veduta dai magi, annunciata dall’oracolo di Balaam (cfr. Num 24,17). «Luce delle genti» (Lc 2,32), come dirà Simeone riferendosi a Gesù; «luce che vince le tenebre» (Gv 1,5), come canta il Prologo di Giovanni. Anzi, «la sua luce era la vita degli uomini» (Gv 1,4). E Gesù dirà: «Io sono la luce» (Gv 8,12). La Chiesa, nella sua professione di fede, lo proclama: «Luce da luce». Dunque, necessità della luce, bellezza della luce. Ecco il grande annuncio dell’Epifania: «Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te» (Is 60,1).

3. EPIFANIA, FESTA DEI BAMBINI
Gesù è il grande amico dei bambini e di ciascuno di noi, desiderosi di vivere l’infanzia spirituale, che vuol dire abbandono nel Signore e umiltà perché tutto riceviamo da lui. Questo lo diciamo contro gli Erode di turno che vedono i bambini come clienti interessati. Vogliamo dire ai bambini che li amiamo davvero, li rispettiamo, li ascoltiamo e vogliamo aiutarli. In questo giorno nelle famiglie si fanno doni ai bambini.

4. IL TEMA DEL CAMMINO
I magi vengono da lontano. Fanno un cammino non metaforico, ma reale. Hanno messo in moto piedi e gambe, mente e cuore. Ultimi ad arrivare al nostro presepio, preceduti da tanti altri che camminano verso Gesù: Giovanni ed Elisabetta, che danzano di gioia davanti alla madre del Signore che porta in grembo il Figlio dell’Altissimo, l’Emmanuele; Simeone e Anna, che prendono tra le braccia Gesù e lo proclamano Luce delle genti, gloria d’Israele; i pastori, che vanno a Betlemme per vedere il Salvatore, Cristo Signore. E ora i magi che lo adorano come Re Messia. Categorie di persone – quelle che popolano il presepio – per lo più disprezzate, tenute in nessun conto. Elisabetta è una donna sterile, Giovanni un profeta inascoltato, i pastori rozzi pecorai, i magi astrologi pagani… Ma hanno in comune il Cielo. Elisabetta e Giovanni, Simeone e Anna, riconoscono il Messia non perché colti, ma perché mossi dallo Spirito Santo. I pastori giungono a Betlemme non perché sono buoni e pii, ma perché obbediscono alla voce degli angeli. I magi non sono partiti dalla loro terra per spirito d’avventura, ma perché videro la stella e le sono stati fedeli. Al loro di mettersi in cammino corrisponde il farsi trovare del Signore. Il Signore si manifesta a quelli che lo cercano. La ricerca di Lui esige un esodo personale, faticoso, a tratti anche doloroso, perché bisogna mettere in questione se stessi, le proprie convinzioni, i propri pregiudizi, le proprie abitudini. Chi è che non trova il Bambino? Erode. Forse perché non lo cerca? No, lo cerca eccome! Consulta esperti, si documenta, incarica i magi di una missione ricognitiva: «Dove deve nascere il Messia?» (Mt 2,4). «A Betlem di Giuda» (Mt 2,5), gli dicono. Ma è troppo attaccato al suo palazzo, al suo trono. Lo cerca, ma è sconvolto dalla paura di dover cambiare. Si sente minacciato nel suo potere che lo fa ricco e rispettato.

5. LA MISSIONE
Nella Prima Lettura sentiamo di una carovana che sale fino a Gerusalemme: «Uno stuolo di cammelli ti invaderà, dromedari di Madian e di Efa, tutti verranno da Saba, portando oro, incenso e proclamando le glorie del Signore» (Is 60,6). I magi giunsero da lontano, da Oriente… Ma non è l’Oriente la terra di tutte le grandi religioni? Anche i popoli del centro Africa praticavano forme religiose, come anche i nativi delle Americhe, ma le grandi religioni, strutturate e configurate, con testi sacri ed organizzazione, per lo più sono nate nell’Oriente. I magi vengono a cercare il Re dei Giudei. Viene da chiedersi il perché: le loro religioni non li soddisfacevano? Evidentemente no. Eppure, le grandi religioni sono scrigni di saggezza, di spiritualità. Parafrasando il Vangelo dico che insegnano l’oro della compassione, del rispetto della vita, della “regola d’oro” («non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te»), l’incenso della meditazione profonda e della preghiera, la mirra del martirio, della fortezza nel dolore, della relatività dei beni terreni. Noi cristiani dobbiamo essere i primi a rifiutare l’intolleranza verso le religioni, i primi a rispettarle, a conoscerle in profondità, con simpatia, a batterci anche per il loro diritto ad avere i propri luoghi di culto. Dobbiamo evitare di incolpare tutta una comunità degli eccessi di una minoranza e prendere, anche unilateralmente, iniziative di dialogo, perché l’amore parte per primo. Penso all’incontro di papa Francesco con il grande Imam, Ahmad Al-Tayyib, avvenuto nell’università islamica di Abu Dhabi il 4 febbraio 2019 per esprimere fraternità, amicizia.

Perché, dunque, i magi fecero quel lungo cammino alla ricerca di Cristo? Perché il loro cuore si portava dentro un desiderio più grande; la loro saggezza e spiritualità davano sicuramente serenità ed armonia al loro cuore, ma non toglievano la loro sete di incontrare Cristo. Oggi noi, figli del relativismo, siamo tentati di pensare che tutte le religioni si equivalgano, che i loro adepti vadano lasciati in pace, che le missioni della Chiesa siano un’invadenza… Invece la stella della loro religione li ha guidati, la Scrittura degli Ebrei li ha annientati, ma solo l’incontro con Gesù li ha colmati di grandissima gioia. Come far sì che i pagani di oggi incontrino Cristo? Non con i metodi della propaganda o del proselitismo. «I magi, entrati nella casa (il luogo della quotidianità), videro il bambino e sua madre» (Mt 2,11). Una domanda provocatoria per la nostra meditazione personale: se dei “lontani”, dei “forestieri” entrassero nelle nostre case, nelle nostre parrocchie, nelle nostre comunità, troverebbero l’accoglienza? Troverebbero il clima di Betlemme, di Nazaret? Facciamo riti solenni, abbiamo le nostre tradizioni, ma alla fine quello che conquista è l’amore: «Il mondo sarà di chi saprà amarlo di più» (San Giovanni della Croce). Vivere il Vangelo, vivere Gesù: questo il messaggio che ci viene dalle festività natalizie. Così sia.

Omelia nella Solennità di Maria SS. Madre di Dio

San Marino Città (RSM), Basilica del Santo Marino, 1° gennaio 2021

Nm 6, 22-27
Sal 66
Gal 4,4-7
Lc 2,16-21

Stella maris. Iniziamo così il 2021: con lo sguardo rivolto alla Vergine Maria, stella del mare, madre della Speranza. Avanziamo nel cammino che è ancora difficile, penoso: siamo sulla stessa barca, in vista di un orizzonte incerto, ma con una bussola che ci orienta. È quanto papa Francesco ci ricorda all’inizio del nuovo anno con il suo Messaggio per la Pace, indicando a tutti un processo educativo per acquisire una cultura della cura basata su principi inalienabili, «come percorso di pace».
Permettete che anch’io citi il testo che papa Francesco mette nel suo Messaggio da un discorso che Paolo VI tenne in un parlamento africano: «Non temete la Chiesa; essa vi onora, vi educa cittadini onesti e leali, non fomenta rivalità e divisioni, cerca di promuovere la sana libertà, la giustizia sociale, la pace; se essa ha qualche preferenza, questa è per i poveri, per l’educazione dei piccoli e del popolo, per la cura dei sofferenti e dei derelitti» (Discorso ai Deputati e ai Senatori dell’Uganda, Kampala, 1° agosto 1969).
Il prendersi cura è l’opposto dell’indifferenza. Il primo schiaffo, il più bruciante e sonoro, che Dio ha ricevuto è stato quello di Caino che osò dire: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gn 4,9). Prendersi cura è atteggiamento indispensabile tra fratelli e necessario soprattutto in questi giorni di fragilità.
Papa Francesco nel suo Messaggio dedica pagine bellissime ad un percorso biblico attraverso il quale fa vedere come Dio creatore sia modello per tutti noi e come tutta la Bibbia non sia altro che il racconto del suo piegarsi amorevole sull’umanità. Nella Genesi, ad esempio, è messo in luce il rapporto fra l’uomo e la terra e fra gli uomini come fratelli. Dio affida alle mani di Adamo il giardino con l’incarico di coltivarlo e custodirlo. Ciò significa, da una parte rendere la terra produttiva, dall’altra proteggerla, farle conservare le sue capacità di sostentamento per la vita. I verbi “coltivare” e “custodire” descrivono il rapporto di Adamo con la sua casa-giardino, ma indicano pure la fiducia di Dio verso di lui, facendolo signore e custode della creazione. «In questi racconti antichi – scrive il Papa – ricchi di profondo simbolismo, era già contenuta una convinzione oggi sentita: che tutto è in relazione, e che la cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità» (LS 70). Allora il Creatore si china sui progenitori, perfino su Caino, dandogli un segno di protezione. Tutta la Bibbia è storia della tenerezza di Dio verso il suo popolo. Dall’istituzione dello Shabbat, il riposo festivo, per dire che l’uomo è libero, all’esodo, alla liberazione e all’invio dei profeti, che alzano la loro voce in favore degli ultimi. Dio si prende cura dell’umanità inviando il suo stesso Figlio, mandato a «portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi» (Lc 4,18). Tema ripreso, come avete sentito nella Seconda Lettura: «Ma quando venne la pienezza del tempo il Signore mandò suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,5). Al culmine della sua missione, il Figlio di Dio suggella la sua cura offrendosi sulla croce in redenzione. Così ha aperto la via dell’amore e dice a ciascuno: «Seguimi, anche tu fa’ così» (cfr. Lc 10,37). Questo prendersi cura dovrà essere distintivo dei discepoli di Gesù. I primi cristiani praticavano la condivisione perché nessuno fosse bisognoso tra loro. Ricorderete i due quadretti degli Atti degli Apostoli (cfr. At 2,42-48; 4,32-35). I Padri della Chiesa insistevano sul fatto che la proprietà andasse intesa per il bene comune e la miseria dei tempi suscitò tanti nuovi carismi, nuove forze al servizio della carità (pensate agli ordini religiosi, alla fondazione di ospedali, ricoveri, istituti di sollievo, di educazione e la pratica delle opere di misericordia corporali e spirituali).
Infine, papa Francesco enuncia i principi base per una cultura della cura. Dice che è un prezioso patrimonio, disponibile a tutte le persone di buona volontà, da cui attingere la grammatica della cura. Li enuncia semplicemente: la cura come promozione della dignità e dei diritti della persona, la cura del bene comune, la cura mediante la solidarietà e infine la cura e la salvaguardia del creato. Questi principi sono la bussola per imprimere una rotta veramente umana al processo di globalizzazione. Scrive: «Incoraggio tutti a diventare profeti e testimoni della cultura della cura, per colmare tante disuguaglianze sociali». Il richiamo poi diventa denuncia. C’è una pagina drammatica: «Purtroppo molte regioni e comunità hanno smesso di ricordare un tempo in cui vivevano in pace e sicurezza. Numerose città sono diventate come epicentri dell’insicurezza: i loro abitanti lottano per mantenere i loro ritmi normali, perché vengono attaccati e bombardati indiscriminatamente da esplosivi, artiglieria e armi leggere. I bambini non possono studiare. Uomini e donne non possono lavorare per mantenere le famiglie. La carestia attecchisce dove un tempo era sconosciuta. Le persone sono costrette a fuggire, lasciando dietro di sé non solo le proprie case, ma anche la storia familiare e le radici culturali». Dal richiamo alla denuncia, dalla denuncia ad una proposta coraggiosa, già formulata in un precedente messaggio: «Costituire con i soldi che s’impiegano nelle armi e in altre spese militari un “Fondo mondiale” per poter eliminare definitivamente la fame e contribuire allo sviluppo dei Paesi più poveri»! (Videomessaggio in occasione della Giornata Mondiale dell’Alimentazione 2020, 16 ottobre 2020).
La cultura richiede un processo educativo. La bussola dei principi sociali elencati dal Papa costituisce uno strumento affidabile per vari contesti fra loro correlati: la famiglia, la scuola e l’università, le comunicazioni sociali, le istituzioni religiose e gli impegnati nel servizio alle popolazioni e nel campo della ricerca. A questi e a tutti il Papa propone un patto educativo globale. Tutti siamo “artigiani della pace”, con grandi orizzonti, attenti anche alla cura delle relazioni interpersonali, quotidiane, e questo esige la conversione del nostro cuore, un cambio di mentalità per creare la pace e la fraternità. Così sia.

Giornata Mondiale della Pace

1° Gennaio 2021 – 54° Giornata Mondiale della Pace
LA CULTURA DELLA CURA COME PERCORSO DI PACE

Il 1° gennaio si celebra la 54° Giornata Mondiale della Pace, istituita da Paolo VI nel 1968 per invitare tutti gli uomini di buona volontà a dedicare alla pace il primo giorno dell’anno per affermare il desiderio che tutto l’anno sia dominato dalla ricerca della pace.
L’anno che si sta chiudendo è stato segnato dalla crisi sanitaria mondiale del Covid-19 e dalla conseguente crisi sociale che ha aggravato le tante crisi già in atto prima della pandemia: climatica, alimentare, economica e migratoria.
Ciò che l’umanità ha sperimentato nel corso di questo anno ci ha reso consapevoli della necessità di prenderci cura gli uni degli altri e tutti insieme del creato, la nostra casa comune, costruendo una società fondata su rapporti di fratellanza contro una concezione individualistica della società. Per questo Papa Francesco ha scelto come tema del Giornata Mondiale della Pace La cultura della cura pace come percorso di pace che propone una  cultura della cura contro la cultura molto diffusa dell’indifferenza, dello scarto e dello scontro.
Per il Santo Padre “La cultura della cura, quale impegno comune, solidale e partecipativo per proteggere e promuovere la dignità e il bene di tutti, quale disposizione ad interessarsi, a prestare attenzione, alla compassione, alla riconciliazione e alla guarigione, al rispetto mutuo e all’accoglienza reciproca, costituisce una via privilegiata per la costruzione della pace.”

S.E. Mons. Andrea Turazzi consegnerà, nel rispetto delle disposizioni sanitarie vigenti, il Messaggio del Papa alle autorità politiche presenti durante le solenni celebrazioni del prossimo 1° gennaio per invitare al comune impegno alla costruzione della pace:
– alle ore 12.00, nella Basilica del Santo alla presenza degli Ecc.mi Capitani Reggenti, trasmessa in diretta dalla San Marino RTV;
– alle ore 18.00, nella Cattedrale di Pennabilli, trasmessa in streaming sulla pagina Facebook della Diocesi.

Commissione per la Pastorale Sociale
Diocesi San Marino-Montefeltro

Omelia nella S.Messa del giorno di Natale

Pennabilli (RN), Cattedrale, 25 dicembre 2020

Is 52,7-10
Sal 97
Eb 1,1-6
Gv 1,1-18

Auguri a tutti, e con voi, insieme con voi, attraverso di voi, alle sorelle e ai fratelli della Diocesi. Voi siete nella Cattedrale, siete come la lente che mi consente di vedere ravvicinati tutti i fedeli della Diocesi di San Marino-Montefeltro, una Chiesa locale saldamente unita alla Chiesa di Pietro, il Pietro di oggi, papa Francesco.
Non possiamo non prendere l’avvio alla nostra meditazione senza fare almeno un riferimento a quello che stiamo vivendo. Tra le cose che il tempo di pandemia ci insegna c’è la necessità della preghiera. Siamo tutti in ginocchio, chi per un motivo, chi per un altro, chi per circostanze che lo riguardano personalmente, chi per i propri cari; qualcuno ha sentito la chiamata dell’Unità Sanitaria Locale che gli ha imposto la quarantena fiduciaria…
Un’esperienza molto bella che abbiamo vissuto è stata la Novena del Natale attraverso i canali web della Diocesi. Oltre quaranta famiglie, strapiene di bambini, si sono collegate ogni sera alle 20:45 per pregare insieme. Abbiamo colto un aspetto nuovo della preghiera. Siamo stati educati alla preghiera di lode, anche se talvolta contrastata da sentimenti di protesta: «Come faccio a lodare quando sono sotto un macigno?». Veniamo invitati puntualmente alla preghiera di richiesta di perdono, una preghiera che ci allinea tutti nella verità della nostra condizione di peccatori. Ci viene spontanea la preghiera di implorazione, di domanda, di richiesta di aiuto, a volte fervorosa, altre volte venata di scetticismo, perché vessata da perplessità: «Ho pregato tanto, ma non ho visto i risultati…». L’aspetto della preghiera che stiamo riscoprendo è la preghiera dentro la vita. Detto con una parola sola: la preghiera esistenziale. Consiste nel vivere insieme al Signore ogni passo, ogni preoccupazione, ogni pensiero, ogni “perché?”. Una compagnia. Questa preghiera è come una luce che, benché soffusa ed avvolgente, è calda. È contemplazione, pur nell’attività e nel quotidiano. È come un lievito che senza apparenza compie immancabilmente il miracolo del sollevamento, della crescita. Cammini in una valle oscura? Senti che in nessun modo hai potere su quello che ti succede? Ascolta, ad esempio, la preghiera del Salmo 23: «Il Signore è il mio pastore». Sarebbe bello ripercorrerlo, meditarlo, assaporarlo. La Scrittura era la prerogativa dei saggi, dei sacerdoti, dei sapienti; a volte mancava anche il papiro su cui stendere le parole o la tavoletta su cui inciderle, pertanto le parole erano contate e soppesate. Ebbene, in questo Salmo, dopo ventisei parole, prima delle altre ventisei, proprio nel mezzo, c’è la cifra più umana e nel contempo più divina della fiducia: «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla… Se cammino in una valle oscura non ho paura, perché tu con me». Grande e indicibile consolazione. Al cuore di qualsiasi pericolo o avvilimento ci è dato di rinnovare con coraggio il nostro abbandono fiducioso nel Signore. Solo tre parole nella lingua ebraica: Perché tu con me, senza nemmeno il verbo espresso, in modo paratattico. Varie volte (365 volte) nelle Scritture il Signore dice ai suoi amici: «Non temere, perché io sono con te» (Is 41,10). Ma una sola volta, proprio in questo Salmo, il credente ardisce ripetere questa dichiarazione dal suo punto di vista: Perché tu con me. Difficile penetrare nel Santuario della coscienza di Gesù: è un dono concesso ai mistici. Ma è possibile immaginare che anche lui abbia fatto sue le parole di questo Salmo. Chissà quante volte deve averle pregate rivolgendosi al Padre suo: Perché tu con me. Sigla riassuntiva dell’assoluta confidenza nel Padre, a cui si rivolgeva testualmente nei Vangeli, con infinita famigliarità. Lo chiamava: «Abbà», che vuol dire “babbo” (Mc 14,36). Perché tu con me: questo è il cuore del Natale. Non vi pare?
Facciamoci portare da questa preghiera esistenziale. Quante volte nella giornata possiamo dire Perché tu con me: mentre si compiono le azioni quotidiane, mentre si fa la spesa, mentre si fa una telefonata… Sì, particolarmente in questo Natale nel quale siamo meno condizionati dal clamore, dal contorno consumistico. È un Natale più silenzioso. Il silenzio è il linguaggio di Dio (un grande teologo, Karl Rahner, ha scritto un libro molto bello intitolato: «Tu sei il silenzio»). Il Signore non ha camminato sulla terra di passaggio, come un turista, per poi sistemarsi nei piani alti del Cielo. Non è venuto a sfiorare la nostra carne, sia pure per curarla, come i medici nei reparti Covid, ben protetto dai peccati. Non è venuto per richiamarci al dovere come fa un preside, per richiamarci alla nostra vocazione tante volte tradita. No, si è fatto prossimo totalmente, uno con noi, ed è venuto per restare con la sua forza attrattiva, come la gravità, che è l’amore che attrae lo sposo alla sposa. «Il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Per un cristiano antico che leggeva il testo di Giovanni, letteralmente abitare si traduceva con piantare la sua tenda in mezzo al suo popolo. È evidente il richiamo al periodo più terribile del popolo di Israele, l’epoca del suo esilio e prima ancora del suo esodo, in mezzo alla steppa, alle prese con la mancanza d’acqua, con la minaccia dei serpenti e degli scorpioni. Perché tu con me hai piantato la tua tenda! Facendosi uomo ha riconosciuto nella nostra umanità la sua stessa immagine e l’ha restituita al suo primo splendore. «A quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,12).

Come vivere questi giorni? Offro un suggerimento: stare più vicini al Signore, gustarlo, fermarsi davanti al presepio, guardare i personaggi (siamo noi!). Nel silenzio adagiare sulle nostre ginocchia il libro dei Vangeli aperto alla pagina del Prologo e lasciare fioccare lentamente, ad una ad una, quelle immense parole di luce, perché in quelle righe è intrecciata tutta la storia di Dio e la nostra. Davanti a quel Bambino adagiato in una culla di pietra e di paglia, con la Chiesa confessiamo che quel Bambino è il Figlio di Dio, eternamente nascente dal Padre «Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero». A noi come ai pastori è dato di saperlo e a noi come agli angeli di cantarlo. Buon Natale!

Omelia nella S.Messa della notte di Natale

San Leo (RN), Cattedrale, 24 dicembre 2020

Is 9,1-6
Sal 95
Tt 2,11-14
Lc 2,1-14

C’è gente addossata al parapetto di un ponte che guarda l’esplosione della centrale nucleare, senza avvedersi che sta già respirando le polveri radioattive. Così inizia la serie televisiva “Chernobyl”, che probabilmente qualcuno di voi ha visto. Pressappoco quello che è accaduto a molti di noi all’inizio della pandemia. Ci fu sorpresa e subito spettacolarizzazione: si andava a vedere un telegiornale dopo l’altro. Il primo lockdown è stato preso da qualcuno come una vacanza anticipata e le zone rosse come luoghi di sofferenza vicaria (loro per noi…). Poi si è fatta più vicina ed inquietante la percezione reale della situazione carica di dolore, distacchi, solitudini, con preoccupate domande di fronte ad un nemico terribile perché invisibile, di fronte all’incrinarsi del mito del “tutto sotto controllo” e al paradosso dell’opportunità di distanziarci per salvare i legami: una contraddizione in termini.
Ora siamo ad una sorta di “collaudo strutturale” delle nostre comunità. Ci sono pilastri a rischio di cedimento, crepe da ricucire (non semplicemente da stuccare), bulloni da stringere. Fuori di metafora: l’urgenza della solidarietà, la disponibilità alle regole, la necessità di attenuare le tensioni sociali.
Intelligenza, cuore, mani giunte: queste le risorse a nostra disposizione. Intendo la ricerca scientifica e la razionalità organizzativa; gli affetti famigliari, la professionalità e il volontariato; la preghiera che infonde speranza, che pacifica di fronte alla nostra fragilità e fa vivere l’interconnessione come fraternità.
“Salvare il Natale”: è stato un appello ricorrente sulla stampa e sui social. Una espressione – a dire il vero – non senza ambiguità. “Salvare il Natale”: per qualcuno era la comprensibile preoccupazione per questi giorni di crisi commerciale ed economica; per altri un nostalgico desiderio di buoni sentimenti e di riti famigliari; per altri ancora una giusta enfasi sulla maternità in tempo di culle vuote.
Ma il senso del Natale va cercato ad altre profondità: un Dio si fa uomo, viene ad abitare in questo mondo per… restarci. Originalità ed audacia del cristianesimo!
È il Natale che salva noi. Ai cristiani, come ai pastori di Betlemme, è dato di saperlo e, come agli angeli, di cantarlo. Vorremmo poter dire a tanti che si chiedono «dov’è Dio?»: «Eccolo!». E aggiungere a ciascuno di accogliere, se vuole, il Signore, qui, adesso, in questo anno sanguinante. Anche se il cuore è appesantito e vuoto come una stalla – quella stalla – è proprio lì che Dio chiede di nascere. Starei per dire: «Sei tu il Natale di Dio».

Concludo con la citazione di un celebre scritto di un pensatore contemporaneo che si proclamava non credente, Jean-Paul Sartre. Questa pagina è scritta in un modo tale che ha fatto discutere sull’ateismo di questo pensatore. È appena un passaggio di un racconto sulla figura di Maria, rappresentato quando era in campo di concentramento a Treviri nel 1944.
«La Vergine è pallida e guarda il bambino. Ciò che bisognerebbe dipingere sul suo viso è uno stupore ansioso che non è apparso che una volta su un viso umano. Poiché il Cristo è il suo bambino, la carne della sua carne, e il frutto del suo ventre. L’ha portato nove mesi e gli darà il seno e il suo latte diventerà il sangue di Dio. E in certi momenti la tentazione è così forte che dimentica che è Dio. Lo stringe tra le sue braccia e dice: piccolo mio! Ma in altri momenti rimane interdetta e pensa: Dio è là e si sente presa da un orrore religioso per questo Dio muto, per questo bambino terrificante. Poiché tutte le madri sono così attratte a momenti davanti a questo frammento ribelle della loro carne che è il loro bambino e si sentono in esilio davanti a questa nuova vita che è stata fatta con la loro vita. Lo guarda e pensa: “Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatta di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Mi rassomiglia. È Dio e mi assomiglia”. E nessuna donna ha avuto dalla sorte il suo Dio per lei sola. Un Dio piccolo che si può prendere nelle braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e che vive» (Jean-Paul Sartre, Bariona o il figlio del tuono. Racconto di Natale per cristiani e non credenti). Originalità e audacia del cristianesimo!
A tutti voi il mio augurio di un santo Natale.

Omelia nella IV domenica di Avvento

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 20 dicembre 2020

2Sam 7,1-5.8-12.14.16
Sal 88
Rm 16,25-27
Lc 1,26-38

Entriamo in punta di piedi nella casetta di Nazaret, luogo semplice, umile e povero. Alla vigilia ci sentiamo ancora impreparati al Natale. Impariamo alla scuola di Maria il raccoglimento, l’ascolto e la custodia della Parola.

1.

Un messaggero entra in quella casetta; è inviato da Dio per portare un annuncio, un Vangelo: Gabriele è il suo nome. Nell’Antico Testamento Gabriele è “l’uomo di Dio” (così la traduzione del nome Gabriele), colui che spiega le apparizioni riguardanti «il tempo della fine» (Dn 8,16; 9,21). Maria è, quindi, collocata subito nella storia della salvezza, al suo compimento «nella pienezza del tempo», come scriverà san Paolo ai Galati (cfr. Gal 4,4).
Maria è di Nazaret, in Galilea. La gente del tempo non aveva molta considerazione né della Galilea, né di Nazaret: «Che cosa di buono può mai venire da Nazaret?», dirà uno dei primi discepoli chiamati da Gesù (cfr. Gv 1,46). Ma Dio non ha bisogno di mezzi potenti, né degli “illustrissimi di Gerusalemme” per compiere la sua opera, anche la più straordinaria (cfr. 1Cor 1-2). Nazaret è un piccolo villaggio, annidato tra i monti, un luogo qualunque. Eppure, diventa lo spazio dell’incarnazione. Confrontando l’Annunciazione a Maria con quella a Zaccaria si coglie un’importante differenza. L’Annunciazione a Zaccaria avviene nel tempio, durante un rito solenne, con ricchezza di particolari (cfr. Lc 1,5-25). A Nazaret nulla di tutto questo, ma semplicità ed essenzialità su uno sfondo domestico.

2.

Maria e Giuseppe vengono presentati con poche parole. Nella procedura matrimoniale ebraica esistono due fasi. La prima consiste nell’accordo legale matrimoniale: la ragazza diventa già moglie legittima, ma rimane ancora a casa dai genitori per circa un anno e non ha ancora relazioni sessuali col marito; la seconda fase consiste nella conduzione della sposa nella casa dello sposo, ove il matrimonio viene consumato. Maria, dunque, è vergine e sposa. Così, tramite Giuseppe, viene ad essere della discendenza di Davide e il figlio che nascerà potrà, a pieno titolo, considerare Davide «suo padre». Se, dunque, la verginità la ricollega all’oracolo dell’Emmanuele (cfr. Mt 1,23), la discendenza davidica la ricollega agli oracoli del re Messia (cfr. 2Sam 7,1-16). Notare come in queste prime righe del racconto l’evangelista si premuri di elencare tanti nomi propri di luoghi e di persone: ben sette. C’è precisione quasi meticolosa e concretezza per far capire al lettore come il “venire di Dio” prenda la totalità della vita.

3.

«Kaire». L’angelo non comincia con una esortazione: «Su, prega, sforzati…», ma con un invito alla gioia: «Rallegrati». C’è chi ha tradotto questo imperativo con «Ave» (effettivamente può anche essere considerato un saluto), ma qui è molto più che un saluto: è l’equivalente della parola “Vangelo”. È un richiamo esplicito a celebri oracoli profetici: Sofonia 3,14; Gioele 2,23; Zaccaria 9,9. In questi oracoli il popolo d’Israele è invitato a traboccare di gioia, perchè è vicino il Messia: «Ecco il tuo re che ti salva»! È la chiamata ad Israele a fare festa. L’evento gioioso mobilita i credenti, da Abramo – che esultò nella speranza di vedere quel giorno (cfr. Gv 8,56) – fino a Giovanni Battista – che danza di gioia nel grembo (cfr. Lc 1,44) –, il tempo della salvezza è venuto. E Maria è il termine dell’attesa. Come si vede, questo racconto dell’Annunciazione è un trapunto di citazioni bibliche.
«La-piena-di-grazia». A volte queste parole vengono scritte come una sola parola per rendere in modo più efficace il testo greco. «La-piena-di-grazia» è il secondo nome proprio di Maria, quello dato dal Cielo. Il primo è quello dato dai genitori: Miriam. Il terzo è quello che Maria darà a se stessa: l’ancella. Il nome «La-piena-di-grazia» può essere spiegato così: «Sei stata fatta oggetto dell’amore straripante di Dio», «amata per sempre». Maria riceve la stessa dichiarazione d’amore che Dio nelle Sacre Scritture rivolge al suo popolo, «l’amato più di ogni altro popolo» (cfr. Dt 4,7; 7,7). E – come scrive Ezechiele in 16,8 – «sono entrato in un patto d’amore con te». Maria è figura dell’Israele amato da Dio, giunto al punto cruciale della sua storia: Dio scende definitivamente tra i suoi, è l’Emmanuele, «il Dio con noi». L’angelo, infatti, dice a Maria: «Il Signore è con te».

4.

«Non temere». È un invito tipico e ricorrente nei racconti di vocazione, una rassicurazione. Maria non deve temere, colui che nascerà da lei non è solo un uomo grande, ma molto di più. Qui Maria viene vista come la «tenda» nel deserto su cui aleggia lo Spirito; oppure come il tempio di Sion in cui abita il Signore (cfr. Es 33,9; 1Re 8,10; 2Mac 2,8). In questo Maria è prefigurazione della Chiesa, tempio dello Spirito Santo (cfr. 2Cor 6,1-16; 1Cor 3,15; 6,19). C’è, infine, chi vede in questo adombrare dello Spirito sulla fanciulla di Nazaret un richiamo alla prima pagina della Genesi, dove lo Spirito di Dio, aleggiando sulle acque, introduce la creazione (cfr. Gn 1,2).
La risposta di Maria. Faccio notare un particolare che spesso sfugge. Il messaggero celeste parla direttamente alla donna, cosa del tutto insolita per la cultura dell’epoca. Ma ancor più interessante è sottolineare come l’ultima parola sia lasciata all’ancella! Ed è un “sì”. Da quel momento risuona in Maria la parola: «Il Verbo si fa carne e “viene ad abitare in mezzo a noi” (cfr. Gv 1,14)». Anche la Chiesa ha questa vocazione: «Accogliere la Parola e generare come Maria figli di Dio, un popolo santo e regale». Ma è vero anche per ciascuno di noi: «Accogliere e vivere la Parola che trasforma in Gesù».
C’è una preghiera che dobbiamo rilanciare: l’Angelus. È la preghiera che il Papa guida ogni domenica a mezzogiorno. Diventi la traccia per la nostra meditazione in questi giorni di vigilia. Buon Natale!