Omelia nella II domenica di Avvento

Pennabilli, Cattedrale, 6 dicembre 2020

Is 40,1-5.9-11
Sal 84
2Pt 3,8-14
Mc 1,1-8

1.

Oggi ci troviamo di fronte ad una lettura emozionante: è la prima pagina del Vangelo del primo degli evangelisti, Marco. Il libro che stiamo per aprire non appartiene al genere letterario delle biografie. Si tratta di un genere letterario completamente nuovo iniziato da Marco, l’accompagnatore di Pietro (la tradizione lo chiamerà «l’interprete di Pietro»). È come se Marco rispondesse a questa domanda: quando Pietro non ci sarà più, chi annuncerà la gioia della “buona notizia” che è Gesù? Allora Marco ha la geniale idea di raccogliere i detti e i fatti riguardanti Gesù, di cui Pietro è testimone diretto. Si tratta, dunque, della buona novella di Gesù, Cristo e Figlio di Dio, che sale a Gerusalemme per rivelare con la sua morte e risurrezione la sua identità e la missione ricevuta dal Padre.
Già la prima riga è un grido di gioia: Gesù è Cristo e Figlio di Dio. Due titoli importanti che dicono con chiarezza, fin dall’inizio, chi è Gesù. Il Padre lo dichiarerà tale al momento del Battesimo (cfr. Mc 1,11) e della Trasfigurazione (cfr. Mc 9,7). Anche i demoni sanno chi è (cfr. Mc 3,11). Gli uomini si interrogano: «Chi è costui?» (cfr. Mc 1,27;4,41).
A Pietro e agli apostoli che lo riconoscono, Gesù impone il segreto per evitare l’equivoco di un messianismo alla maniera umana (cfr. Mc 8,30). Sarà Gesù stesso davanti al sommo sacerdote, durante il processo, a sollevare il velo che nasconde la sua persona (cfr. Mc 15,62).
I credenti dovranno riconoscere il Crocifisso come “buona notizia”, come fa il centurione romano che esprimerà, con la massima limpidezza, la fede cristiana: «Veramente quest’uomo era figlio di Dio» (Mc 15,39).
Anche noi, davanti a questa pagina, possiamo confessare Gesù Figlio di Dio. L’abbiamo visto morire. Il suo sepolcro è vuoto. Il mondo intero attende la predicazione del Vangelo. La buona notizia di Gesù, Cristo e Figlio di Dio, nasce dalla croce!

2.

Siamo abituati a considerare la parola “Vangelo” come titolo di un libro. In realtà la parola è molto più ricca. Al tempo di Marco indicava l’annuncio solenne di una vittoria. Per Marco la grande vittoria è la risurrezione di Gesù. Quando non c’era più possibilità di confidare nella forza umana, Marco ci racconta che è intervenuta la potenza di Dio. Un terremoto ha annunciato la nascita di un mondo nuovo (cfr. Mc 15,33-38). La salvezza arriverà sino ai confini del mondo (cfr. Mc 16,20).
Per l’evangelista Marco ogni episodio, ogni pagina del suo scritto, sono da leggere in questa prospettiva.
Con la parola “Vangelo” si indicava anche l’annuncio della nascita di un personaggio importante e decisivo per il popolo. Per Marco la novità è Gesù: è lui la “buona notizia”, il compimento delle promesse.

3.

Dopo l’incipit, la pagina si apre con la proclamazione di una solenne profezia. In realtà si tratta di tre citazioni unite insieme. La prima echeggia la promessa di Dio a Israele di un angelo che lo difenderà e l’accompagnerà alla terra promessa (Es 23,20). Marco ci sta dicendo che ora accade qualcosa di ancora più grande dell’Esodo.
La seconda citazione è presa dal profeta Malachia; annuncia la venuta del Signore, del suo “giorno” e del suo “giudizio” (Ml 3,1).
Infine, la terza è l’oracolo di Isaia (del “Secondo Isaia”) che grida di preparare la via del ritorno dopo l’esilio (cfr. Is 40,3). È una profezia che apre il “libro delle consolazioni” (cfr. II Lettura).
La predicazione del Battista viene collocata proprio qui, dove Mosè aveva finito, sulle rive del fiume Giordano. Il Battista grida e invita “a fare il passaggio” attraverso l’acqua della purificazione, della conversione e del perdono.
Allora bisogna uscire dalla Giudea e da Gerusalemme, scendere al Giordano e prepararsi ad accogliere il Messia. La Giudea e Gerusalemme diventano simbolo delle nostre sicurezze, delle nostre presunzioni, del nostro “credere di credere”. La “voce” propone la conversione: la “conversione-metanoia”, cambiamento profondo e radicale e la “conversione-movimento” come movimento di tutta la persona verso Gesù, che consiste nel “girarsi” decisamente verso di Lui.
Ognuno porta sulle spalle il fardello dei suoi peccati, dei suoi fallimenti, dei suoi sensi di colpa. L’annuncio (kerygma) di Giovanni Battista è severo, come è austero il suo piglio, ma è tanto liberante. Col dito puntato in avanti indica il Signore che salva, che offre un Battesimo nello spirito: «C’è uno più grande di me…».
Come il personaggio del presepio, anche noi ci mettiamo sulla strada verso Gesù e gettiamo ogni nostro peso e preoccupazione. Non più peccati: li mettiamo nella sua misericordia. Non più sensi di colpa: siamo stati perdonati. Così alleggeriti, affrettiamo il cammino verso Betlemme.

Colletta alimentare 2020

Si è conclusa la storica iniziativa del Banco Alimentare giunta alla 24° edizione.
 

Nei diciotto giorni di Colletta Alimentare sono stati donati 6.074 Buoni Spesa convertiti in 14.500 Kg di alimenti equivalenti a 29.000 pasti*, che verranno consegnati al centinaio di famiglie in difficoltà attraverso la Caritas sammarinese convenzionata con Banco Alimentare dell’Emilia Romagna.

“I risultati ottenuti dalla Colletta Alimentare – afferma Remo Contucci, della Fondazione Banco Alimentare Emilia Romagna Onlus – sono il segno che la pandemia non ferma la solidarietà dei sammarinesi, che hanno risposto oltre ogni aspettativa eguagliando il risultato dello scorso anno anche con una forma diversa dal passato e in piena emergenza sanitaria. Non era possibile replicare la modalità degli scorsi anni e ci siamo organizzati di conseguenza. In questo anno così drammatico il numero delle persone che hanno bisogno di aiuto alimentare è aumentato del 40%. Parliamo di persone che in molti casi non avevano mai chiesto aiuto prima d’ora e si sono trovate improvvisamente senza lavoro e senza risparmi. La situazione non migliorerà a breve, anzi, ci aspettano mesi complicati in cui molti conteranno sul nostro sostegno per andare avanti e noi dovremo farci trovare pronti. Per questo facciamo appello alla generosità, abbiamo ancora bisogno dell’aiuto di tutti e la Colletta Alimentare è un gesto semplice, ma molto importante per stare accanto a chi ha bisogno.”

Un ringraziamento per l’aiuto al successo della Colletta lo rivolgiamo di cuore ai Direttori dei Punti Vendita che hanno aderito, agli addetti alle casse che hanno indossato la pettorina dei volontari e hanno ricordato ai loro clienti i Buoni Spesa, a San Marino RTV per lo spot che ha realizzato, alle Banche sammarinesi che hanno promosso la Colletta attraverso gli schermi dei Bancomat, al Vicariato di San Marino che insieme ai parroci hanno invitato ad aderire all’iniziativa e infine un grazie alla Fondazione Graziani,  a Banca Agricola Commerciale, all’Ente Cassa di Faetano e al Rotary Club di San Marino per il sostegno donatoci.

*Un pasto corrisponde a un mix di 500 grammi di alimenti (in base alla stima della European Food Banks Federation).
 

San Marino, 11 dicembre 2020

Omelia nella Veglia per la vita nascente

Serravalle (RSM), 4 dicembre 2020

Sap 11,21-26
Sal 139

1.

Mi piacerebbe dire qualche cosa di nuovo sulla vita. Tante volte ho ribadito il no a tutto ciò che non è accoglienza alla vita. Insieme abbiamo affermato il nostro impegno per creare condizioni che favoriscano la maternità. Abbiamo cercato, per quanto ci è possibile, di alimentare una cultura per la vita. E tutto questo non è mai scontato.
Tuttavia, c’è della novità: è il nostro essere riuniti questa sera per cantare la bellezza della vita. Siamo qui per “dire bene” della vita, anche se ci troviamo nel momento di una grande prova nazionale, mondiale.
Inizio col ringraziare chi anima in questo senso la Diocesi e chi ha organizzato questo momento di preghiera.
Dico grazie alle mamme in attesa: il frutto del loro grembo è un segno di speranza, di futuro e di gioia per tutti. Grazie a quanti sanno adottare, ospitare, curare… testimoniare l’unicità e preziosità di ogni vita umana.

2.

Papa Francesco ci ha ricordato come tutti gli esseri umani siano uniti da legami invisibili e formino una sorta di famiglia universale, una comunione sublime che spinge ad un rispetto sacro, amorevole e umile. «Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita – dice papa Francesco – anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono» (Papa Francesco, Discorso ai partecipanti all’incontro promosso dalla Federazione internazionale delle associazioni dei medici cattolici, Sala Clementina, 20.9.2013). L’amore del tutto speciale che il Creatore, Dio Padre, ha per ogni essere umano gli conferisce una dignità infinita. Ecco il fondamento della bellezza della vita. Nel Programma pastorale di quest’anno uno dei punti qualificanti consiste nell’invito a mettersi davanti al mistero della creazione, anzi di Dio Creatore. Vi chiederete perché e come. La partenza è la stessa. Dalla tomba vuota all’incontro con Gesù Risorto, dal cuore della fede cristiana alla necessità di comunicarla. «Noi non possiamo tacere – dicono gli apostoli davanti al sinedrio – quello che abbiamo visto e ascoltato» (cfr. At 4,20). Così nasce insopprimibile e incontenibile la missione di ogni battezzato. Ecco perché, dopo aver indugiato per un paio d’anni sul tema della risurrezione e del Battesimo, stiamo dedicando tempo, riflessione e preghiera al tema della missione. Ho usato impropriamente la parola tema: non è un tema, un argomento accanto agli altri, è vita in espansione.
ominciamo dal metterci in ascolto come fa Dio, perché la missione parte da lì: ce lo insegnano anche i missionari che sono nella frontiera dell’evangelizzazione. Prima ascoltano, poi parlano, si uniscono. Tutti avete presente il racconto del roveto ardente, metafora splendida e pertinente per noi che ci troviamo davanti a Gesù Eucaristia. Il roveto ardente è cuore del Creatore. Mosè sente la voce di Dio che gli rivela la sua empatia per la creatura. Dio osserva l’oppressione, conosce la sofferenza, ode il grido di dolore e solo allora – dopo aver ascoltato attentamente e aver partecipato con il suo cuore – scende ed entra nella storia per intervenire. Osserva, conosce, ode, scende: quattro verbi ed un programma. «Il Dio che si rivela a Mosè non è il Dio impassibile dei filosofi – diceva Blaise Pascal – egli soffre una passione d’amore».
Stando davanti al roveto ardente impariamo non solo ad ascoltare Dio, quello che ha da insegnarci, ma soprattutto impariamo ad ascoltare come fa Lui.
Eccoci, allora, in ascolto: com’è la situazione attorno a noi?

  1. C’è tanta paura; sono scosse alcune fondamenta della nostra società: la salute e il denaro. Se prima si correva con ansia e fretta, ora si va con il vuoto dentro e con tanta incertezza: questo vediamo attorno a noi. In questo mondo, profondamente ferito, ci si ritrova più poveri e più fragili. Lo eravamo anche prima, ma non ce ne accorgevamo. Eravamo come chi, sul treno, era impegnato in mille cose, a chiacchierare o a leggere o ad ascoltare musica con le cuffie all’orecchio… Poi, improvvisamente il treno si ferma e tutti scendono. Il treno è fermo. C’è un guasto.
  2. Non possiamo ignorare le drammatiche derive dell’ambiente e del clima.
  3. L’ascolto attento della realtà culturale di oggi, in cui siamo immersi e di cui facciamo parte, ci pone delle questioni su temi importantissimi, ahimè spesso divisivi. Dovremmo trovare il modo di dialogare su questi temi senza alzare muraglie. Sono i temi della vita, della sessualità, dell’amore, della famiglia. Tutti temi strettamente connessi con l’antropologia e quindi riconducibili alla realtà della creazione.

La Parola di Dio che abbiamo udito questa sera ci ha ricondotti ad una professione di fede: «Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi? O conservarsi se tu non l’avessi chiamata all’esistenza? Tu risparmi tutte le cose perché tutte son tue, Signore, amante della vita» (Sap 11,25-26). La fede sulla creazione è di capitale importanza. Se non la si conosce con chiarezza, profondità, semplicità, il nostro impegno manca di un fondamento. L’impegno per la vita e per la famiglia è sicuramente basato anche sulla ragione. Tuttavia, per noi credenti è molto importante riallacciarsi alla grande verità della creazione.

3.

La verità della creazione risponde ad una triplice domanda. La prima: che cosa sta all’origine del mio esserci? Il caso? La necessità? La seconda: che cosa sta alla fine del mio esserci? Il nulla? Sono destinato a finire interamente? Talvolta, ho provato ad immaginare i sette miliardi di esseri umani in una valle come la val Marecchia che salgono sul monte Carpegna: un enorme formicaio! E sul crinale una doppia eventualità: il precipizio, il vuoto, il nulla, oppure un infinito giardino. La fede ci dice che di là dal monte c’è pienezza di vita.
Terza domanda: che senso ha allora la vita che viviamo, quella che sta frammezzo, tra l’origine e la fine?
La domanda più radicale è la prima. All’origine della persona sta l’atto di intelligenza e di volontà di un Padre che decide di pormi in essere: questa è la nostra fede. Il Padre ha pensato ciascuno di noi; fra le infinite persone umane possibili ha voluto che esistessimo io, tu, noi, non altri. Ci ha scelti. Quando da ragazzino mi hanno spiegato i misteri della vita e del concepimento, ero sbalordito al pensiero che sono nato proprio io tra migliaia di possibili fratelli!

4.

Dio non è stato spinto a creare – e a creare me – da alcuna necessità, né per avere alcun beneficio, anche se fossi Einstein o Bach. È felicissimo che i suoi figli diano il meglio, sviluppino i loro talenti, ma la sua è una decisione assolutamente gratuita e libera. Non esisto per caso, non esisto per necessità: esisto per amore. La prima conseguenza di questa verità è che non c’è nessuna persona umana che non sia degna di esistere, nessuna vita umana che non abbia significato. Ogni persona, indipendentemente da ogni altra considerazione, è degna di rispetto infinito, di ammirazione, di incanto. Abbiamo cantato: «Ti lodo, Signore, perché mi hai fatto come un prodigio» (cfr. Sal 139,14).
Nella produzione degli oggetti si può parlare di un prodotto riuscito bene o male; i prodotti non riusciti si scartano. Ma nessuno esce dalle mani del Padre non prodotto bene. A volte ci lamentiamo di noi stessi, vorremmo essere diversi: sbagliamo. Certo, c’è la sequoia e c’è la forsizia di primavera, c’è il pero e c’è il pino… Ma ciascuno è un capolavoro agli occhi del Padre che lo ha pensato e amato.
Alla seconda domanda rispondo che Dio ci ha voluto per farci partecipi della sua vita, perché fossimo figli nel Figlio. Lui quando mi guarda vede Gesù-Andrea. Così di ciascuno dei suoi figli.
Alla terza domanda rispondo che la vita che si dispiega tra l’origine e la morte è dotata di un senso formidabile. Il Padre non tradirà mai la sua paternità, né mai vi rinuncerà. Nelle sue creature vede il Figlio, Gesù Cristo. Vivere umanamente, in piena umanità, è vivere in Cristo, con Cristo, come Cristo. Non c’è una vita pienamente umana e poi una vita in Cristo. È la vita in Cristo che è pienamente umana e, la vita che ancora non ha incontrato Cristo, vive ugualmente in Lui.
Riprendiamo il Salmo 139. Preghiamolo in silenzio per qualche istante. E il cuore sia pieno di gratitudine e di gioia per la bellezza della vita!

Omelia nella festa di Sant’Andrea Apostolo

Caprazzino (PU), 30 novembre 2020

Rm 10,9-18
Sal 18
Gv 1,35-42a

Quando sono venuto tra voi per la Visita Pastorale ho dedicato una serata al Programma pastorale della Diocesi. Quel Programma era agli inizi, cominciava a configurarsi (il Vescovo non si mette a tavolino a scrivere il Programma: il progetto si costruisce insieme nei vari incontri diocesani). Perché un progetto? Non basta il fervore nella preghiera, praticare la carità, testimoniare la fede ed amare il Signore con tutto il cuore? No. È necessario che il pastore provi a tenere unite le “pecorelle”, per camminare tutti insieme verso una direzione. C’è il grande Programma della Chiesa che è l’Anno liturgico: ogni anno la Chiesa ci prende per mano e ci offre un percorso di spiritualità, di evangelizzazione, facendoci gustare la vita di Gesù e il suo “mistero”. Sempre più in profondità, come una spirale che si avvita. Vorremmo abbracciare tutto, tutto in una volta, tutto in un solo momento, il Signore Gesù, ma siamo sulla terra e dobbiamo svolgere e distendere il mistero della sua vita nel cerchio di un anno: questo è il Programma della Chiesa universale. Poi, c’è un altro Programma, quello che ci dà il Santo Padre papa Francesco: ci sta dicendo, ad esempio, che dobbiamo avere a cuore i più svantaggiati, i poveri. Lui ha il punto di vista di tutto il pianeta; parla tutti i giorni con personalità internazionali.
Anche la Diocesi ha il suo Programma pastorale e bisogna che le parrocchie cerchino di camminare in accordo con esso. Siamo partiti dalla constatazione che moltissimi sono cristiani senza aver mai deciso di esserlo. Siamo nati qui, ci hanno dato il Battesimo quando eravamo molto piccoli, ci hanno insegnato religione a scuola, abbiamo fatto la Prima Comunione e la Cresima… Ma abbiamo veramente incontrato Gesù?
Allora è scattato nella nostra Diocesi il bisogno di andare all’essenziale: credere in Gesù, vivo e risorto. Il nucleo incandescente del cristianesimo, del Vangelo, è che Gesù è risorto. Dodici uomini e un gruppo di donne che Gesù ha radunato attorno a sé hanno portato quel grido: «Gesù è vivo!». Se leggiamo il Vangelo in maniera disincantata vediamo che attorno a quella tomba vuota c’è tutto un movimento, un correre, un sussurrare e poi un proclamare ad alta voce: «È vivo!». Da allora il cristianesimo si è propagato in tutta la faccia della terra.
Abbiamo dedicato due anni a riconsiderare la risurrezione di Gesù e a farla nostra, a ricordarci che c’è un sacramento che ci fa vivere la risurrezione: il Battesimo. Dopo aver ricevuto il Battesimo possiamo dire con san Paolo: «Siamo morti tornati alla vita» (Rm 6,13). Così pensavano di sé i primi cristiani.
Quest’anno abbiamo sottolineato molto il tema della missione: annunciare Gesù, darci da fare, organizzare eventi… Poi è arrivato il Coronavirus e i nostri programmi, convegni, assemblee sono stati annullati.
Questa mattina, meditando la figura di sant’Andrea, ho notato in lui una forma di apostolato, di missione, adattissimo per questi giorni di distanziamento sociale: la missione “a tu per tu”.
Andrea – annota il Vangelo – è rimasto con Gesù in quel giorno benedetto del suo primo incontro; ha accolto l’invito: «Venite e vedrete». «È andato e ha visto» (v.39). Tutto è cominciato con quella giornata di intimità con il Signore.
Andrea non tiene per sé l’esperienza vissuta; ci furono molta luce e molta gioia per lui in quel giorno.
«Chi trova un amico trova un tesoro» (Sir 6,14): Andrea ha trovato il tesoro, la perla. Quella sosta dalla fatica di pescatore vale per lui più di una rete piena di pesci (cfr. Mt 13,44-47). Corre subito da suo fratello Simone (che Gesù chiamerà Pietro) per comunicare quello che ha vissuto e imparato: scatta una comunione d’anima. Con quali parole? Con quale grado di confidenza? Andrea ha lo slancio che vedremo nelle donne e nei discepoli il mattino di Pasqua. Non porta dei ragionamenti, non dice “verità astratte”, racconta di un incontro: «Abbiamo trovato il Messia» (v.41). Da una parte questo dimostra l’intensità dell’esperienza vissuta e dall’altra il suo entusiasmo.
Si direbbe che Andrea fosse preparato a questo incontro. Tutto lascia pensare che facesse parte di coloro – puri, semplici, aperti – che «aspettavano la redenzione di Israele» (cfr. Lc 2,38), come Anna, Zaccaria, Giovanni Battista, Giuseppe, Maria. Andrea frequentava Giovanni Battista; fu a causa della sua indicazione che si mise sulle tracce di Gesù. Potremmo pensarlo come uno di quegli “anawim” che attendono tutto dal Signore, “i piccoli” di cui parlerà Gesù (cfr. Lc 10,31; Mt 10,25,40, 42; ecc.).
Andrea è affettuoso: racconta tutto al fratello. La notizia dell’incontro, la novità, non passa come un verbale, ma scorre sui toni dell’affetto, della confidenza, dell’amicizia. Quanto sono importanti i rapporti! Davvero la missione è un atto di amicizia: è perché vuoi bene a quella persona e a quelle persone che le metti a parte della tua scoperta. Così Andrea presenta suo fratello Simone a Gesù.
Questa attitudine di Andrea ad essere “conduttore a Gesù” affiora altre volte nei Vangeli: quando porta a Gesù il ragazzo coi cinque pani e i due pesci (Gv 6,9), quando introduce presso Gesù i greci che desiderano incontrarlo (Gv 12,21-22).
Pietro si arrende e aderisce subito all’invito di Andrea: si fida di lui. Andrea è un missionario affidabile! Pietro è un impulsivo, lo si vede dai racconti evangelici, ma non è superficiale. Si fida di Andrea e basta!
È lecito immaginare che tra i due fratelli ci sia stato uno scambio di opinioni con domande e risposte. Alla fine, Andrea conduce Simone direttamente da Gesù: sarà il Maestro a parlare al cuore di Simone. È tipico del vero missionario non essere invadente e mettersi da parte come fanno, ad esempio, il Battista (cfr. Gv 3,30) e il diacono Filippo (At 8,39).
Andrea «guidò il fratello alla sorgente stessa della luce con tale premura e gioia da non aspettare nemmeno un istante» (Giovanni Crisostomo, Om 19,1).
Chiedo l’intercessione dell’apostolo Andrea perché faccia di ognuno di noi un missionario che conduce a Gesù. Possiamo fare tanto anche in questo periodo in cui non ci sono assemblee, convegni, raduni, catechesi pubbliche. Basta non avere paura di dire quella parola, di esprimere quel gesto affettuoso, quella carezza, o di compiere quel servizio nel nome di Gesù. Così sia.

Omelia nella I domenica di Avvento

Fiorentino (RSM), 29 novembre 2020

Ingresso del nuovo parroco don Achille Longoni

Is 63,16-17.19; 64,2-7
Sal 79
1Cor 1,3-9
Mc 13,33-37

Stiamo vivendo, pur nella trepidazione, una domenica speciale.
Inizio di un nuovo anno liturgico: i cristiani vorrebbero abbracciare lo Sposo, il Signore, tutto, tutto in una volta, tutti insieme, ma non è possibile quaggiù; il suo mistero è disteso nel tempo e ritorna ogni anno ciclicamente, come una spirale ascensionale.
Inizio dell’Avvento: quattro settimane che ci preparano a vivere il mistero del Natale del Signore e ci aiutano a mantenere viva la spiritualità dell’attesa.
Inizio di una stagione nuova per la liturgia: l’introduzione della nuova edizione del Messale Romano nella traduzione italiana; il nuovo Messale è il libro della preghiera che unisce tutta la Chiesa; è uno scrigno che contiene tesori di fede e di preghiera bimillenari; è in una veste nuova, perché il popolo di Dio è in cammino nel tempo e aggiunge nuove memorie e feste dei santi.
È un inizio particolare per Fiorentino, la parrocchia intitolata all’apostolo san Bartolomeo: l’ingresso del nuovo parroco, don Achille.
Compiremo insieme con lui alcune azioni che significano la sua presa di possesso: consegna delle chiavi della chiesa e del tabernacolo, imposizione della stola violacea al confessionale; introduzione al fonte battesimale e infine l’accompagnamento alla sede da dove il nuovo parroco presiederà l’assemblea. Il tutto viene preceduto dalla solenne rinnovazione delle promesse sacerdotali da parte di don Achille.

2.

L’evangelista Marco ci accompagnerà nel corso di questo anno liturgico. Oggi abbiamo letto una pericope presa dal capitolo 13. È una pericope (vv. 33-37) doppiamente importante.
È importante anzitutto perché chiude il discorso escatologico pronunciato da Gesù, concluso con un forte invito alla vigilanza ed alla perseveranza nell’attesa del suo ritorno. Per i lettori di Marco l’attesa ed il ritorno del Signore sono due parole dense di significato.
L’attesa. Pochi avevano visto Gesù Risorto, ma era una promessa per tutti: «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20).
Il ritorno evocava il rientro dall’esilio, ma il popolo si era domandato: «Il Signore è tornato davvero tra noi?». Nel momento dell’esilio gli israeliti avevano sperimentato la presenza del Signore, ma ora erano sconfortati per il quotidiano piuttosto deludente.
I versetti 33-37 letti poco fa sono una chiave di lettura per tutto il Vangelo ed una ouverture al racconto della Passione, morte e risurrezione del Signore. L’attesa del Signore e il suo ritorno, per chi crede (Marco è l’evangelista del catecumeno), hanno il loro compimento nella Pasqua di Gesù.

3.

Si capisce bene allora il peso del verbo che apre la pericope: «Guardate bene». Verbo che allude ad una sorta di illuminazione: se fate attenzione (sguardo di fede), sarete illuminati riguardo all’attesa e al ritorno del Signore. Il Signore tornerà anche se non sapete quando e come: lo dovrete scoprire. Ai suoi servi il padrone «ha lasciato la sua casa e ha dato pieni poteri, a ciascuno il suo compito» (cfr. Mc 13,34). Dovrà essere una fedeltà vigile. Sono elencati quattro momenti della veglia. Corrispondono esattamente al modo in cui i romani dividevano la notte. Potremmo ritrovare qui un riferimento alla Passione di Gesù: arrestato la sera (Mc 14-17), interrogato dal sommo sacerdote nella notte (Mc 14,60-62), rinnegato da Pietro al canto del gallo (Mc 14,72), interrogato da Pilato la mattina (Mc 15,1). Tutta la Passione ruota su queste quattro scansioni temporali.
Marco non fa nulla per attenuare lo “scandalo” della Passione: è proprio lì che si manifesta il Signore. Al centurione romano sarà affidata la professione di fede: «Veramente quest’uomo era figlio di Dio» (Mc 15,39).

4.

La nostra prima esperienza di Dio è la sua assenza: Deus absconditus. Vediamo segni ma lui non l’abbiamo visto (cfr. Gv 1,18): ne abbiamo nostalgia, «se tu squarciassi i cieli e scendessi» (Is 63,19). Ma quando? Gesù è tornato e torna nella sua risurrezione.
«Voi non conoscete il momento» (Mc 13,33). Vegliate se volete cogliere “il momento”. Rimanete sulle sue tracce. Lo riconoscerete nelle pieghe dei nostri giorni. L’evangelista adopera il termine kairòs per indicare il momento favorevole in cui riconoscere il Signore e incontrarlo là dove ci dà appuntamento. Potremmo domandarci: quali sono i segni della sua presenza nella nostra vita? Che cosa ci sta dicendo su quanto stiamo vivendo?
È decisivo per la vita cristiana cogliere l’appello e la presenza del Risorto. In ogni circostanza. In quelle difficili e dolorose ancora di più… sono quelle in cui riconoscerlo crocifisso! È bello imparare a dirgli: «Sei tu Gesù!».
Ancora una precisazione. Marco si serve dell’immagine dei servi che, in assenza del loro Signore, devono eseguirne gli incarichi. Ci parla anche di un portinaio che deve attendere, vegliando, l’arrivo del padrone. Il tempo dell’arrivo è ignoto agli uni e all’altro, ma l’attesa deve restare viva. I servi sono i discepoli che hanno ricevuto incarichi da Gesù da vivere nel servizio (cfr. Mc 9,35; 10,44): la casa appartiene al Signore!
L’opera del portinaio è di primaria importanza. Se il potere dato ai servi fa pensare ad una assenza che si protrae, invece la veglia del portinaio fa presagire un sollecito ritorno: praticamente ogni momento della notte potrebbe essere quello decisivo.

5.

«A ciascuno il suo compito» (Mc 13,34). Questa parola illumina quanto stiamo vivendo oggi: l’ingresso del nuovo parroco nella comunità di Fiorentino. A tutti è richiesto l’unico atteggiamento sensato ed opportuno: saper cogliere l’attimo della presenza del Signore che viene immancabilmente. Ma ci sono compiti diversi.
A voi, cari parrocchiani, viene chiesto di essere vigilanti da «cristiani nel mondo, laici nella Chiesa». Rileggo con voi qualche tratto della Lumen gentium (Vaticano II) sulla missione dei laici nel mondo. Si parte dalla dignità ricevuta nel Battesimo con l’esercizio delle prerogative regali, sacerdotali e profetiche proprie del cristiano. È «proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Essi vivono in mezzo agli impegni e alle occupazioni del mondo e dentro le condizioni ordinarie della vita famigliare e sociale di cui è intessuta la loro esistenza. Lì sono chiamati da Dio a contribuire dall’interno, a modo di fermento, alla santificazione del mondo, mediante l’esercizio della loro specifica funzione, guidati dallo spirito evangelico» (LG 31). Essere lievito nella pasta del mondo; animare le realtà temporali; consacrare il mondo…
A voi laici il compito di portare nella Chiesa le istanze del mondo: «Perché le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo» (LG 1).
Secondo il vostro compito siete all’interno della comunità non solo esecutori, ma collaboratori del vostro parroco. Vorrei dire di più: siete corresponsabili. Partecipate attivamente alla vita della parrocchia. Non tiratevi indietro quando viene chiesta partecipazione. Penso ai Consigli parrocchiali e ai tanti servizi: dalla catechesi alla liturgia, dalla carità all’animazione pastorale delle famiglie, dalla cura della gioventù alla custodia degli ambienti e della vostra chiesa.
E a don Achille, vostro parroco, dico: «Sii un “custode” premuroso nella “casa” del Signore. Sei stato posto da lui a vegliare su questo gregge».
«Fioriscano sempre in questa comunità, fino alla venuta del suo Sposo, l’integrità della fede, la santità della vita, la devozione autentica, la carità fraterna» (Messale Romano, Messa per la Chiesa locale, Post Communio). Siano questi i cardini della tua azione pastorale. Ti sono chieste competenze in proposito, ma soprattutto tanta prossimità e tanto cuore. Così sia.

Omelia nella XXXIV domenica del Tempo Ordinario

Solennità di N.S. Gesù Cristo Re dell’Universo

Pennabilli (RN), Cattedrale, 22 novembre 2020

Benedizione e consegna della Terza Edizione del Messale Romano

Ez 34,11-12.15-17
Sal 22
1Cor 15,20-26.28
Mt 25,31-46

Un saluto anche a tutti coloro che ci seguono in streaming e partecipano a questa liturgia solenne che avrà il suo momento culminante nella benedizione e nella consegna alle comunità cristiane della Diocesi della nuova edizione del Messale Romano.
Questa domenica, Solennità di Cristo Re, più di ogni altra è dominata dalla figura del Signore Gesù nella sua signoria, nella sua regalità. È una festa, quella di Cristo Re, istituita da non molto tempo per contestare il secolarismo invadente, le dittature, per richiamare alla coscienza dei cristiani la considerazione della trascendenza di Cristo. Egli è l’Altissimo («Tu solo l’Altissimo»), è la Luce delle genti (Lc 2,32), è il Re dell’Universo e di tutti gli sterminati mondi creati, conosciuti e sconosciuti, per i secoli eterni.
Che Cristo sia re lo affermiamo continuamente, sia nella proclamazione della Parola di Dio, sia nelle preghiere liturgiche. La Sacra Scrittura, la predicazione di Gesù, la Rivelazione, sono tutte intessute di metafore, esplicite o equivalenti, che trattano il tema della regalità. Sono metafore ed espressioni ricorrenti anche nei testi racchiusi nel Messale. Appena qualche rimando. Nel Credo diciamo: «E di nuovo verrà nella gloria a giudicare i vivi e i morti, e il suo Regno non avrà fine». Nel Padre Nostro una delle invocazioni è: «Venga il tuo Regno» e, nell’acclamazione successiva, «tuo è il Regno, tua la potenza e la gloria». Poi, nella conclusione delle orazioni, diciamo ogni volta: «Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio che è Dio e vive e regna con te». Quante volte! Ma spesso, abituati o distratti, non ci pensiamo. Di questa verità che ne sanno la nostra fede, la nostra preghiera, la nostra vita?
Ci aiuta la meditazione della Seconda Lettura; inizia così: «Se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo». Cristo, dunque, è il nuovo Adamo. Cristo è il nostro Re, il nostro Redentore! Notate: Cristo è nostro Re nella sua umanità. Delicatezza, sorpresa del disegno divino che vuole l’uomo salvatore dell’uomo, salvatore di se stesso e che, a tal fine, ha disposto che il Verbo eterno, il Figlio, si spogli della sua dignità e si faccia uomo: «Pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso» (Fl 2,6-11). Quel Gesù, che si è spogliato delle sue prerogative per assumere la nostra umanità e farsi povero, è il Re. L’umanità assunta dal Verbo è la via di mediazione stabilita per il ritorno al Padre dei figli dispersi (cfr. Gv 11,52). Dunque, c’è una mediazione umana esercitata in due modi: quello della lotta, della riduzione a nulla di ogni principato, potestà, potenza e della vittoria sulla morte, frutto del peccato, e quello della infusione di una vita nuova in coloro che sono con Cristo e di Cristo: «Coloro, infatti, che sono con Cristo e in Cristo, risorgono con lui». La stessa mediazione si esercita anche in due tempi: quello terreno, contrassegnato appunto dalla spoliazione di sé e dalla lotta, e quello celeste, quando Cristo, avendo sottomesso tutto a sé, consegnerà il Regno a Dio Padre. Allora «Dio sarà tutto in tutti». Tutto, tutti colmi della pienezza divina, beatificante, per sempre! Stupendo è contemplare e pregare il nostro Re, Gesù, re di cuori.
San Paolo, nella Prima Lettera ai Corinti, dice che tutto questo avverrà per la risurrezione di Gesù dai morti. Abbiamo dedicato anni a mettere al centro della nostra meditazione e del nostro impegno pastorale, il “Big Bang della nostra fede”, che è la risurrezione: «Cristo è risuscitato dai morti» ed è la «primizia di coloro che sono morti». Cristo è il primo anello di una catena, il capofila. Quanti sono con Lui e in Lui riceveranno la vita, costituiranno il Regno eterno che il Figlio presenterà al Padre.
Accogliamo la Vita: Cristo! Saremo risuscitati alla sua venuta, proprio perché siamo con Lui. Anzi – sentite cosa dice san Paolo in un’altra pagina delle sue Lettere – consideriamoci già dei «morti tornati alla vita» (cfr. Rm 6,13). Eravamo morti e abbiamo già cominciato la vita nuova, ma la nostra vocazione, la vocazione di ciascuno di noi, è quella di essere «sacerdoti e regno per il nostro Dio (Ap 1,6; 5,10)».
Chiediamoci: Cristo – che è il Re – regna in noi, regna nella nostra mente? È nostro il suo modo di pensare (cfr. 1Cor 2,15)? Se è il nostro Re, siamo Cristo-dipendenti!
Regna nel nostro cuore? È nostro il cuore di Cristo (Fil 1,8)?
Regna nei nostri sentimenti? Si agitano in noi, non i nostri, ma i sentimenti di Cristo (cfr. Fil 2,5)?
Regna nella nostra vita? Viviamo con noi stessi, oppure è Cristo che vive in noi (cfr. Gal 2,20; Col 3,4)? Chi vede noi, vede Cristo?
Regna nella nostra tensione missionaria? Il nostro vivere annuncia e genera Cristo (cfr. Fil 1,28)? «Bisogna che lui regni», così sta scritto nella Prima Lettera ai Corinti, soprattutto nei cuori.

In chiusura di questo anno liturgico – da domenica prossima inizierà un nuovo ciclo liturgico e si profilano nuove grazie, nuove suggestioni, nuove ricchezze spirituali – mi sento di fare un ringraziamento all’evangelista Matteo che ci ha preso per mano, ci ha accompagnati; in particolare è l’evangelista che ci ha dato messaggi forti su Gesù come re. Di Gesù ci ha ripetuto che è il «Dio con noi, l’Emmanuele», così ci riferisce dell’Annunciazione dell’Angelo a Giuseppe (Mt 1,23), così nel congedo del Risorto sul monte: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni…» (Mt 28,20). E soprattutto, nel cuore del Vangelo: «Dove due o più sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20).
In questa Solennità di Cristo Re san Matteo si congeda da noi con una pagina stupenda, che ora non posso commentare.
Sottolineo solo tre “effetti sorpresa” contenuti nel brano.

  1. Il contrasto fra la grande manifestazione (teofania), quando viene il Figlio dell’uomo sulle nubi e attorno a lui gli angeli, poi si siede sul trono della gloria, e davanti a lui vengono convocate tutte le genti. Di che cosa parla il Re celeste attorniato dalla corte splendente? Si richiama alle realtà più comuni del nostro vivere quotidiano: la fame, la sete, l’aver freddo, l’essere straniero, l’essere malato, l’aver sbagliato…
  2. Sorprende quando il Signore dice: «Io ho avuto fame, io ho avuto sete, io ho avuto freddo… ». Ci si aspetterebbe, essendo Gesù il giudice: «Essi avevano fame, essi avevano sete, essi avevano freddo…». Invece Gesù proclama che quelli sono carne sua: Lui si vede in loro. Dobbiamo considerare Lui in loro. È un esame difficile quello che fa e, nello stesso tempo, facile perché sappiamo tutte le domande.
  3. All’inizio il personaggio celeste viene chiamato Figlio dell’uomo, poi Re, poi appare come Giudice, alla fine si identifica con un piccolo: «… ad uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Si autoproclama un piccolo, un re in cerca di uomini!

Ringrazio per la vostra presenza. Accoglierete voi, a nome di tutti i diocesani, il gesto che farò tra poco: benedirò i volumi del nuovo Messale (una nuova edizione) e lo consegnerò simbolicamente ad ogni comunità eucaristica della nostra Diocesi. A partire dalla prima Domenica di Avvento (28 novembre) entrerà in uso sostituendo l’attuale. Questo in sintonia con le Diocesi dell’Emilia Romagna.
Il nuovo Messale è un dono di inestimabile valore, frutto di un accurato lavoro di traduzione (dal latino all’italiano), di arricchimento di testi, di aggiornamento di feste e memorie dei nuovi santi, di recente canonizzazione: mai come in questi cinquant’anni sono state fatte tante canonizzazioni di santi. Non ci stavano più nel Messale!
Il nuovo Messale è anche una grande responsabilità, perché esige nuova attenzione al modo di celebrare e di partecipare nello spirito del rinnovamento conciliare.
Presiedere, servire, partecipare alla liturgia è un’arte, ma più ancora uno stile che nasce “da dentro”!
L’aggiornamento e la nuova traduzione testimoniano come il Messale sia qualcosa di vivo che accompagna il santo popolo di Dio nel tempo. L’introduzione del nuovo Messale è un fatto che riguarda tutta la comunità e, direi, tutti (anche quelli che non vengono in chiesa), perché la liturgia ha molto a che fare con la missione evangelizzatrice della Chiesa.
Il Messale è lo scrigno che racchiude un tesoro immenso, patrimonio di duemila anni di fede e di preghiera, ma anche di audace e filiale esperienza di vita trinitaria: si prega rivolti al Padre, attraverso Gesù Cristo, nello Spirito Santo. Insieme!
Concludo con le parole di san Paolo: «Al Re dei secoli, incorruttibile, inviolabile, unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli! Amen» (1Tm 1,17).

Colletta Alimentare

COLLETTA ALIMENTARE 2020: CAMBIA LA FORMA, NON LA SOSTANZA

Quest’anno, date le condizioni di emergenza sanitaria, la Colletta Alimentare sarà realizzata in modalità “dematerializzata”.
Non sarà quindi possibile donare direttamente la spesa, ma si potrà partecipare acquistando una apposita card che verrà trasformata in cibo per Banco Alimentare.
E’ possibile acquistare la card del valore di 2, 5 e 10 euro:

  • sul sito collettaalimentare.it già da ora
  • alla cassa dei supermercati aderenti dal 21 novembre fino all’8 dicembre

Il valore complessivo di tutte le card acquistate online e nei supermercati sarà convertito in cibo non deperibile. Gli alimenti donati verranno distribuiti come sempre alle strutture caritative del territorio che assistono famiglie e persone bisognose, le quali ricevono in questo modo il conforto di un pasto o di un pacco alimentare.
Banco Alimentare pubblicherà sul proprio sito l’elenco dei punti vendita che partecipano alla Colletta cosicché ciascuno possa trovare quello più vicino dove recarsi.
Chi non potesse recarsi in un punto vendita o desiderasse fin da ora partecipare alla Colletta, può farlo acquistando la card online sul sito www.collettaalimentare.it

GRAZIE!

Comunicato degli Arcivescovi e Vescovi dell’Emilia Romagna

Bologna, 13 novembre 2020

Carissimi,
ci ritroviamo tutti di nuovo a dovere confrontare le nostre attività con questa grave ripresa della pandemia. Dobbiamo essere attenti al bene di tutti, del quale siamo responsabili e ridurre il più possibile le occasioni di diffusione del contagio.

Fino al 3 dicembre 2020 in Emilia Romagna sarà in vigore un’ordinanza secondo cui “i corsi di formazione, di qualunque genere o natura, organizzati da soggetti sia pubblici che privati, possono svolgersi solo con modalità a distanza”.

Pertanto, fino al 3 dicembre, è possibile svolgere in presenza gli incontri di catechesi per l’iniziazione cristiana dei bambini e dei ragazzi, ottemperando scrupolosamente tutti i requisiti richiesti, cioè osservando i protocolli già noti ed evitando assolutamente incontri senza il distanziamento necessario.
E’ conveniente sospendere gli incontri in presenza di catechesi e formazione dalla secondaria di secondo grado in poi, preferendo in questa fase la modalità on line. Nel caso si continui in presenza è necessario che siano ottemperate rigorosamente tutte le condizioni di sicurezza, tenendo gli incontri in ambienti grandi come ad esempio le chiese, con il rispetto dei requisiti richiesti dal Protocollo d’intesa con la Confessione Cattolica del 7 maggio 2020 e successive integrazioni, come mascherina igienizzazione personale e dei luoghi, distanziamento, posti assegnati.
Queste disposizioni sono in vigore dalla data odierna.
Ringraziamo i presbiteri, i diaconi i religiosi e le religiose e in particolare i catechisti ed educatori che continuano in questa situazione così difficile a prendersi cura della crescita nella fede dei più piccoli.
Come avvenuto nei mesi passati non mancherà la creatività che permette di garantire il legame e la formazione anche a distanza, anche assistendo da remoto le famiglie che con noi sono responsabili della trasmissione della fede ai loro figli.
Siamo certi che con unità e perseveranza sapremo aiutare a sconfiggere la pandemia. Il Signore protegga tutti e doni guarigione a chi è colpito dal virus.

Gli Arcivescovi e Vescovi dell’Emilia Romagna

Omelia nella XXXII domenica del Tempo Ordinario

Perticara (RN), 8 novembre 2020

Festa di San Martino

Sap 6,12-16
Sal 62
1Ts 4,13-18
Mt 25,1-13

È un racconto di nozze rocambolesco: c’è molto movimento. I personaggi fanno tutti una “magra” figura, compreso lo sposo: come si fa ad arrivare alla festa così tardi? Brutta figura fanno le damigelle del corteo, che si addormentano. Brutta figura fa una parte di loro che sbadatamente non ha preso l’olio per alimentare le lampade. Altrettanto le altre cinque che, alla richiesta di aiuto, rispondono: «Andate a comprarvene». Poi quella porta che si chiude, sprangata, e le parole finali: «Chi siete? Io non vi conosco». Tali parole ricordano quelle di Pietro che, durante il processo a Gesù, a chi gli dice: «Anche tu sei di quelli… la tua parlata ti tradisce», risponde: «Io? Non conosco quell’uomo» (cfr. Mt 26,72-73). Come mai ci sono risvolti così poco edificanti in questa parabola? Gesù vuole la nostra attenzione, vuole creare interesse: c’è in ballo un annuncio decisivo.
Un elemento importante della parabola è l’olio delle lampade. L’olio è segno non solo di qualcosa di simbolico, ma anche di ciò che dev’essere acquistato a caro prezzo, con la fatica quotidiana e la laboriosità. Molto significativo per illuminare questa parabola (c’è solo nel Vangelo di Matteo) è l’ultimo brano del libro dei Proverbi, quello dedicato alla “donna forte”. L’inno dice che la donna è soddisfatta perché i suoi affari vanno bene e aggiunge: «Non si spegne mai, né di giorno né di notte, la sua lampada» (Prv 31,18). Probabilmente l’evangelista Matteo pensava proprio a questa donna del libro dei Proverbi; una donna che si alza di buon mattino e va tardi a dormire, che pensa al bene del marito, dei figli e anche a quello dei poveri, che compra i beni più preziosi, come i tappeti e la porpora, e li conserva con parsimonia. Questa donna, a parere di molti studiosi della Bibbia, è figura della sapienza stessa, è la Sapienza personificata, mentre l’olio conservato nella sua lampada è il concentrato di questa capacità sapienziale di gestire la vita. La sapienza non è una cosa che si fabbrica e nemmeno che si trova per strada, ma va ricercata con pazienza e con tenacia, nel posto giusto e al tempo opportuno. Ecco perché le vergini sagge dicono: «Andate piuttosto dai venditori e compratevene». Le sagge, infatti, sono tali perché mettono in atto le regole della sapienza, che è sempre attiva e concreta. In altre parole, abbiamo un’idea simile a quella della parabola che chiude il primo discorso di Gesù, il discorso della montagna, con il binomio saggezza/stoltezza. L’uomo sapiente è quello che costruisce la casa sulla roccia, quello stolto è quello che costruisce sulla sabbia (cfr. Mt 7,24-27). Ecco allora il grande invito che ci viene dal Vangelo oggi: essere in attesa del Signore che viene all’improvviso, nutrire la lampada. La lampada è simbolo della saggezza che oggi ha il nome della speranza. Come Diocesi quest’anno ci siamo dati come programma la missionarietà, l’essere testimoni. Nel momento della elaborazione del programma come slogan che trasmetta questa idea è stato scelto: «Essere speranza in un mondo ferito». Essere speranza, farci speranza, tenere accesa questa lampada, in famiglia, attorno a noi, con le persone che incontriamo. Mi colpiscono altri dettagli nella parabola. Gesù dice: «Il Regno di Dio è simile a dieci ragazze nella notte…». Quelle dieci ragazze siamo noi, chiamati a mantenere viva nelle nostre relazioni la speranza. Cosa c’è di più fragile di dieci ragazze nella notte? Il Regno di Dio è apparentemente una cosa fragile, come siamo noi, non è eclatante, non attira sguardi. Gesù l’ha paragonato anche ad un seme caduto per terra, a buon grano insidiato dalla zizzania, ad un tesoro nascosto. Ecco la speranza, una lampada con la quale raccontiamo il Signore che non ci abbandona e «che viene». Viene con la sua grazia, viene nella sua Parola, viene nei Sacramenti. L’olio che nutre la speranza è la preghiera, è l’ascolto della Parola, è soprattutto l’Eucaristia. Vi auguro di essere lampade che ardono, lampade viventi della speranza.

Omelia nella XXXIII domenica del Tempo Ordinario

Scavolino (RN), 8 novembre 2020

Giornata del Ringraziamento

Pr 31,10-13.19-20.30-31
Sal 127
1Ts 5,1-6
Mt 25,14-30

C’è un padrone che parte per un lungo viaggio. Ritornerà. Prima di partire affida ai suoi servi i tesori più grandi. L’evangelista Matteo è molto meticoloso quando parla di monete e di denari (faceva l’esattore delle imposte, quindi è piuttosto esperto!). Parla di una fortuna iperbolica che il padrone dà ai suoi servi. Il talento non è una moneta, ma un’unità di misura: un talento equivale a circa a 30/40 chilogrammi di oro (l’equivalente di vent’anni di lavoro!). Il padrone dà cinque talenti ad uno, due talenti ad un altro ed un solo talento ad un terzo servo. Otto talenti sono almeno 250 chilogrammi di oro: pensate che fiducia, che stima e che coraggio ha quel padrone!
Dopo molto tempo – dice la parabola – il padrone tornò. Il genere letterario “parabola” contiene esagerazioni volute dal narratore per attirare l’attenzione, per provocare. A volte Gesù dice: «Che ve ne pare?». E trapunta le parabole con questo interloquire diretto; vuole che si partecipi, ci si stupisca, ci si indigni persino!
Usciamo dalla parabola. Entriamo nella vita. Ci sono tre modi di leggere la parabola. Nel primo modo ci si ferma sul talento. La parola “talento” viene a significare le qualità di una persona: questa è la lettura esistenziale. Allora si dice che bisogna non sprecare i propri talenti. C’è, poi, una interpretazione ecclesiale: il signore che è partito per il lungo viaggio è Gesù e i servi siamo noi, la Chiesa. Che ne facciamo dei doni e delle responsabilità che ci ha affidati? Inoltre, c’è un’interpretazione escatologica, proiettata sul futuro: quando il Signore ritornerà vi sarà un giudizio: come abbiamo vissuto il tempo dell’attesa?
L’ultimo dei servi si dimostra in difficoltà con la sua fede. Ha paura di Dio e glielo dice con schiettezza: «Tu sei un uomo duro, raccogli dove non hai seminato, io ho avuto paura… Non mi è rimasto altro che sotterrare il talento che mi hai dato, l’ho lasciato sottoterra, ora te lo riconsegno. Non ho rubato!». Il padrone risponde che ha fatto troppo poco… Ed è seccato che quel servo abbia un’idea così sbagliata di lui. Quel padrone, prima di andare via per il suo viaggio, ha lasciato tutto. Ha avuto una grande fiducia. C’è poi un dettaglio importante: egli ha lasciato ad ognuno secondo le capacità. Non ha pretese; sa chi ha spalle per fare di più e chi è più gracile, come l’ultimo servo, al quale non impone un peso e una prova al di sopra delle sue forze. Nel cantiere della vita ognuno di noi deve sentire tutta la stima, tutta la fiducia di Dio Padre. Capita anche nei rapporti tra noi: se diamo fiducia ad una persona, se la stimiamo, quella persona si apre, sboccia, cresce. Ma se non le diamo fiducia, non crediamo alle sue possibilità, come fa quella persona a credere in se stessa? Chi fa il maestro, chi è datore di lavoro, chi è una persona di riferimento istituzionale deve dare fiducia per far sbocciare pienamente le persone che gli sono affidate. Un po’ come avviene alle piante.
Questa parabola è adattissima alla Giornata del Ringraziamento che celebriamo oggi. La tentazione è di lasciare a riposo la Creazione. Il Signore ci ha affidato la Creazione per farla germogliare e crescere. In questo momento difficile la preghiera ci aiuta ad essere forti, intraprendenti, caritatevoli, fraterni. Ma dobbiamo credere nella scienza e nelle capacità che il Signore ci ha dato. Ci ha dato cuore, intelligenza e mani giunte. Tutt’e tre sono indispensabili. Non credo che basti fare processioni per fermare il contagio; si deve studiare per trovare l’antidoto: non lasciare a riposo la Creazione. Il Signore vuole che collaboriamo con lui.
Il Santo Padre papa Francesco ci richiama continuamente ai grandi temi della “casa comune” e della fraternità. Ci parla di “ecologia integrale”, di “mistica della fraternità” e di “sviluppo sostenibile”.

  1. Ecologia integrale, nella quale si uniscono la bellezza del territorio e i legami sociali: la terra è la “casa comune” e l’umanità la grande famiglia dei popoli. Ci sono tre “no” che dobbiamo dire: no agli sprechi e alla dispersione; no alle disuguaglianze; no all’inquinamento. Senza acqua non c’è futuro. «L’acqua – dice il Papa – per molti è un bene inesauribile, ma non è così. L’acqua non è inesauribile».
  2. Mistica del vivere insieme: fare della fraternità universale la forma autentica della socialità. Quindi accoglienza e reciproca integrazione delle differenti culture.
  3. Sviluppo eticamente sostenibile, con scelte coraggiose e innovative, non soltanto sul piano tecnologico e gestionale, ma soprattutto sul piano sociale e politico.

Dopo questo incontro rinnovo con voi l’impegno nel campo educativo. Che le nostre parrocchie, i nostri gruppi, sappiano educare alla giusta consapevolezza delle sfide del tempo presente e a nuovi stili di vita.