Omelia nella XXXIII domenica del Tempo Ordinario

Scavolino (RN), 8 novembre 2020

Giornata del Ringraziamento

Pr 31,10-13.19-20.30-31
Sal 127
1Ts 5,1-6
Mt 25,14-30

C’è un padrone che parte per un lungo viaggio. Ritornerà. Prima di partire affida ai suoi servi i tesori più grandi. L’evangelista Matteo è molto meticoloso quando parla di monete e di denari (faceva l’esattore delle imposte, quindi è piuttosto esperto!). Parla di una fortuna iperbolica che il padrone dà ai suoi servi. Il talento non è una moneta, ma un’unità di misura: un talento equivale a circa a 30/40 chilogrammi di oro (l’equivalente di vent’anni di lavoro!). Il padrone dà cinque talenti ad uno, due talenti ad un altro ed un solo talento ad un terzo servo. Otto talenti sono almeno 250 chilogrammi di oro: pensate che fiducia, che stima e che coraggio ha quel padrone!
Dopo molto tempo – dice la parabola – il padrone tornò. Il genere letterario “parabola” contiene esagerazioni volute dal narratore per attirare l’attenzione, per provocare. A volte Gesù dice: «Che ve ne pare?». E trapunta le parabole con questo interloquire diretto; vuole che si partecipi, ci si stupisca, ci si indigni persino!
Usciamo dalla parabola. Entriamo nella vita. Ci sono tre modi di leggere la parabola. Nel primo modo ci si ferma sul talento. La parola “talento” viene a significare le qualità di una persona: questa è la lettura esistenziale. Allora si dice che bisogna non sprecare i propri talenti. C’è, poi, una interpretazione ecclesiale: il signore che è partito per il lungo viaggio è Gesù e i servi siamo noi, la Chiesa. Che ne facciamo dei doni e delle responsabilità che ci ha affidati? Inoltre, c’è un’interpretazione escatologica, proiettata sul futuro: quando il Signore ritornerà vi sarà un giudizio: come abbiamo vissuto il tempo dell’attesa?
L’ultimo dei servi si dimostra in difficoltà con la sua fede. Ha paura di Dio e glielo dice con schiettezza: «Tu sei un uomo duro, raccogli dove non hai seminato, io ho avuto paura… Non mi è rimasto altro che sotterrare il talento che mi hai dato, l’ho lasciato sottoterra, ora te lo riconsegno. Non ho rubato!». Il padrone risponde che ha fatto troppo poco… Ed è seccato che quel servo abbia un’idea così sbagliata di lui. Quel padrone, prima di andare via per il suo viaggio, ha lasciato tutto. Ha avuto una grande fiducia. C’è poi un dettaglio importante: egli ha lasciato ad ognuno secondo le capacità. Non ha pretese; sa chi ha spalle per fare di più e chi è più gracile, come l’ultimo servo, al quale non impone un peso e una prova al di sopra delle sue forze. Nel cantiere della vita ognuno di noi deve sentire tutta la stima, tutta la fiducia di Dio Padre. Capita anche nei rapporti tra noi: se diamo fiducia ad una persona, se la stimiamo, quella persona si apre, sboccia, cresce. Ma se non le diamo fiducia, non crediamo alle sue possibilità, come fa quella persona a credere in se stessa? Chi fa il maestro, chi è datore di lavoro, chi è una persona di riferimento istituzionale deve dare fiducia per far sbocciare pienamente le persone che gli sono affidate. Un po’ come avviene alle piante.
Questa parabola è adattissima alla Giornata del Ringraziamento che celebriamo oggi. La tentazione è di lasciare a riposo la Creazione. Il Signore ci ha affidato la Creazione per farla germogliare e crescere. In questo momento difficile la preghiera ci aiuta ad essere forti, intraprendenti, caritatevoli, fraterni. Ma dobbiamo credere nella scienza e nelle capacità che il Signore ci ha dato. Ci ha dato cuore, intelligenza e mani giunte. Tutt’e tre sono indispensabili. Non credo che basti fare processioni per fermare il contagio; si deve studiare per trovare l’antidoto: non lasciare a riposo la Creazione. Il Signore vuole che collaboriamo con lui.
Il Santo Padre papa Francesco ci richiama continuamente ai grandi temi della “casa comune” e della fraternità. Ci parla di “ecologia integrale”, di “mistica della fraternità” e di “sviluppo sostenibile”.

  1. Ecologia integrale, nella quale si uniscono la bellezza del territorio e i legami sociali: la terra è la “casa comune” e l’umanità la grande famiglia dei popoli. Ci sono tre “no” che dobbiamo dire: no agli sprechi e alla dispersione; no alle disuguaglianze; no all’inquinamento. Senza acqua non c’è futuro. «L’acqua – dice il Papa – per molti è un bene inesauribile, ma non è così. L’acqua non è inesauribile».
  2. Mistica del vivere insieme: fare della fraternità universale la forma autentica della socialità. Quindi accoglienza e reciproca integrazione delle differenti culture.
  3. Sviluppo eticamente sostenibile, con scelte coraggiose e innovative, non soltanto sul piano tecnologico e gestionale, ma soprattutto sul piano sociale e politico.

Dopo questo incontro rinnovo con voi l’impegno nel campo educativo. Che le nostre parrocchie, i nostri gruppi, sappiano educare alla giusta consapevolezza delle sfide del tempo presente e a nuovi stili di vita.

Omelia nella Solenne Eucaristia in suffragio dei vescovi e dei sacerdoti def.ti della Diocesi

Pennabilli (RN), Cattedrale, 6 novembre 2020

Ap 21,1-5a.6b-7
Sal 27
Sequenza Dies Irae
Gv 5,24-29

Attraversando la navata della Cattedrale mi sono profondamente commosso pensando ai tanti vescovi che mi hanno preceduto e ai tanti sacerdoti che hanno servito il Signore e il nostro popolo. Confido, a mia volta, d’essere ricordato dalla pietà dei fedeli, quando sarò sepolto in questo luogo.
Stasera meditiamo la Parola di Dio servendoci del celebre canto del Dies Irae. Le parole latine e la melodia gregoriana del Dies Irae sono risuonate per secoli dentro le nostre chiese. Questa popolarità viene confermata dalle molteplici traduzioni in italiano, ma soprattutto dalla trascrizione musicale.
Celeberrimi i Dies Irae di Mozart, di Verdi e di Liszt. Liszt avrebbe dato tutta la sua musica per essere l’autore del Dies Irae. Le sequenze nella liturgia, oltre a questa, sono quattro: Victimae Paschali laudes nella Settimana di Pasqua, Veni Sancte Spiritus nella Messa del Giorno di Pentecoste, lo Stabat Mater nella memoria della B.V.M. Addolorata e il Lauda Sion Salvatorem (forma breve Ecce Panis Angelorum) nella Solennità del Corpus Domini. Questa composizione è stata attribuita a Tommaso da Celano (1260), il primo biografo di san Francesco, anche se la critica attuale lo considera piuttosto il redattore finale di canti che erano già circolanti nelle comunità. Quello che in questo momento mi importa è una lettura meditativa, da gustare interiormente.
Anzitutto è una sequenza ricchissima di riferimenti biblici. Inizia con la parafrasi dell’oracolo del profeta Sofonia (Sof 1,14-16): è un grido che sconvolge. «Una voce – dice Sofonia –: amaro è il giorno del Signore! Anche un prode lo grida. “Giorno d’ira quel giorno, giorno di angoscia e di afflizione”». È l’ora del giudizio. Questa prima strofa contiene anche reminiscenze classiche che vengono collegate alla risurrezione dei morti, al giudizio finale; per esempio, la citazione della Sibilla, personaggio della mitologia romana, l’allusione a Orfeo nelle Georgiche di Virgilio. Comunque, la prima parte di questo testo è una impressionante descrizione del giorno del giudizio che si presenta come una specie di summa dell’escatologia cristiana medioevale. La seconda parte è un appassionato appello alla misericordia divina. Qui i riferimenti evangelici sono particolarmente toccanti. Viene nominata Maria Maddalena (qui Màriam absolvìsti), popolarmente identificata con la peccatrice, la donna silenziosa che bagna con le lacrime i piedi del Signore e li asciuga con i suoi capelli (cfr. Lc 7,36-38): che audacia! Gesù le dirà: «Hai molto amato, sei perdonata». Viene nominato il buon ladrone (et latrònem exaudìsti), squarcio finale del Vangelo di Luca (cfr. Lc 29,39-43). E poi, implicitamente, la Samaritana attesa da Gesù al pozzo (quaerens me, sedìsti lassus: nel cercarmi ti sei seduto stanco, cfr. Gv 4,6-7). È come se l’autore di questo canto ci dicesse: «Prendi con te questi fratelli; anzi di più: vediti in loro». Queste figure evangeliche sono prospettate come esempi di chi ha beneficato della misericordia, giunta attraverso colui che il canto chiama Iesu pie: Gesù buono.
Colui che all’inizio è presentato come un giudice inflessibile (iudex ergo cum sedèbit, quidquid latet apparèbit, nil inùltum remanèbit: quando il giudice siederà, ciò che è nascosto sarà manifesto, nulla rimarrà senza giudizio), nelle strofe successive viene sempre più identificato come Salvatore misericordioso. Bellissimo il contrasto: «Rex tremèndae maiestàtis» (re di tremenda maestà), poi la preghiera di fiducioso abbandono: «Recordàre, Iesu pie».
Questo passaggio mi riporta ad un’esperienza personale vissuta nella bellissima abbazia di Pomposa. Nell’abside dell’abbazia è dipinto un giudice nella sua maestà: Gesù. Quel giorno ero in difficoltà. Nel momento della Comunione, mentre salivo verso l’altare con gli altri sacerdoti, vedevo il volto di Gesù ovale, severo ed austero. Man mano che avanzavo dicendo l’atto di dolore, per effetto ottico il volto di Gesù si allargava, quasi sorridente.
In questa sequenza c’è una risoluzione: da Rex tremèndae maiestàtis a Iesu pie. Questo spostamento di accento mostra che Gesù, giusto giudice, può venire supplicato. Con una audacia incredibile si insinua che ogni destino di dannazione segna una sconfitta dell’opera redentrice di Colui che è morto in croce per salvare gli uomini. Allora: «Recordàre, Iesu pie, quod sum causa tuae viae, ne me perdas illa die (Ricordati, Gesù buono, io sono il motivo del tuo cammino tra noi, non perdermi in quel giorno)». Sei venuto per salvare, vuoi smentire la tua azione, le tue parole? Tu che seduto stanco hai aspettato la peccatrice al pozzo di Giacobbe (cfr. Gv 4,6); tu che ci hai redenti con la croce; fa’ che tanta fatica non sia vana (Quaerens me, sedìsti lassus; redemìsti crucem passus; tantus labor non sit cassus). In questi versi esplode in modo aperto la contraddizione: colui che dovrebbe condannare, in realtà è venuto al mondo per salvare! Questo giudice, ora assiso glorioso, è la stessa persona che un tempo era seduta stanca presso il pozzo in attesa della Samaritana. Tutti noi che attendiamo di essere giudicati – secondo l’autore di questa preghiera – ci identifichiamo con la peccatrice perdonata. Un vertice del canto del Dies Irae si manifesta nel presentare il Signore stanco; è seduto e sfinito colui che è venuto a cercarci. C’è un richiamo al pastore che corre nella valle, sui monti, a cercare l’unica pecora (cfr. Lc 15,11-32). Sembra anche la figura del Padre misericordioso della parabola (cfr. Lc 15,11-32) che può soltanto attendere il figlio prodigo. Non gli ha impedito di andarsene da casa, non lo va ad acchiappare nelle discoteche del tempo, può solo aspettare: il giudice è paziente! Lui che ora è nella gloria – il Cristo – non può dimenticare la stanchezza da lui patita e non può vedere annullato lo scopo della sua prima venuta nel mondo. Allora il canto lo supplica così, con un imperativo: «Recordàre, Iesu pie (Ricordati, Gesù buono)»!
Il Dies Irae, questa grande preghiera, sotto la sua severa veste di definitività e di tremante convocazione di tutti di fronte al trono, lascia trasparire la convinzione che la condanna toccherebbe direttamente l’animo del Risorto. Non è imperturbabile. Il Giudice terribile può essere supplicato facendogli intravvedere che la condanna comprometterebbe l’immensa fatica che ha compiuta (Tantus labor non sit cassus).
La sequenza che inizia chiamando in causa il giorno dell’ira, dies ìrae, dìes ìlla, termina evocando un tempo contraddistinto da tutt’altro clima: «Lacrimòsa dies illa»: è giorno di lacrime, giorno del pianto… solo per i dannati? No. L’autore sembra alludere misticamente alle lacrime del Signore. È indubbio che questa preghiera domanda misericordia, anche per il “reo”, anche per colui che canta questo inno, che è bisognoso di misericordia in prima persona: «Voca me cum benedìctis: salva me con tutti i benedetti, i beati del Cielo». Tutto il canto vibra di sincerità. La nostra fede dice che la dannazione è un esito possibile. Un grande teologo, Urs von Balthasar, diceva che l’inferno c’è, ma è vuoto: una sua opinione… Chi può dirsi capace di conquistare la grazia con le sue forze? Qui sembra superata la tensione fra giustizia e misericordia: vince la misericordia! Evviva la misericordia del Signore.

Omelia nella Commemorazione dei fedeli defunti

San Marino Città (RSM), cimitero di Montalbo, 2 novembre 2020

Sap 3,1-9
Sal 41
Ap 21,1-5.6-7
Mt 5,1-12

Vorrei che le mie parole facessero un buon servizio alla fede e alla Parola del Signore. Se ne fossi capace, vorrei portarvi in alto, ad un punto di osservazione tale da abbracciare il passato, il futuro e il presente: il passato che ci porta, con le sue radici ancora vive, il futuro che ci entusiasma con la sua prospettiva di compimento e di gioia e il presente che ci mobilita e ci impegna.
Oggi la Chiesa è fiera di mostrarci tutti i figli di Dio che sono nell’abbraccio misericordioso del Padre: una folla immensa che nessuno potrebbe contare, come le stelle del cielo, come i granelli di sabbia sulla spiaggia del mare (cfr. Gen 22,17; Ebr 11,12). Sono coloro che ci hanno preceduto: il nostro passato. In quel grande assembramento di Cielo riconosciamo volti amati, che ancora adesso continuano a sostenerci con il loro amore. La Chiesa vuole che li ricordiamo non come persone ormai “archiviate” oppure come ombre, ma come amici, compagni di strada lungo il nostro cammino. Tutti vivi! Non consideriamoli soltanto come partiti da noi – e questo è motivo di tristezza, perché ci hanno lasciato – ma consideriamoli come arrivati: sono presso il Signore.
La giornata del 2 novembre, benché austera, non è lugubre. È una giornata che pone tutti noi davanti ad un futuro che ci entusiasma, rivolti ad «un cielo nuovo e ad una terra nuova» (cfr. Ap 21,1). Veniamo richiamati – e questo è motivo di speranza – ad una dimensione più completa della nostra esistenza; senza scappare dalle nostre responsabilità di oggi, dai nostri impegni quotidiani, guardiamo il punto di arrivo. Il senso della nostra vita non può essere schiacciato nella dimensione materiale e neppure rinchiuso sul presente. La nostra vocazione è di entrare nella luce divina per la quale siamo stati creati: il nostro futuro.
Ieri, nella festa di Tutti i Santi, c’è stato detto che la santità non è appannaggio esclusivo di quelli che hanno concluso il loro cammino terreno. Santi siamo chiamati ad esserlo anche noi. I santi sono in mezzo a noi, tutti ne conosciamo. Dobbiamo pensare di ognuno che è un candidato alla santità. I santi sono nascosti dentro le nostre famiglie, lungo le strade, all’interno delle nostre comunità, nei luoghi di lavoro, di studio, di sofferenza.
Oggi, insieme ai nostri cari, vogliamo innalzare una preghiera ed un ricordo specialissimo per chi è partito da noi a causa del virus che ci sta mettendo tanto alla prova. Queste persone le abbiamo già ricordate in Basilica con una solenne liturgia, presenti i Capitani Reggenti, a nome di tutti. Li abbiamo poi ricordati a fine estate con l’inaugurazione di una scultura commemorativa posta davanti al nostro Ospedale. Torniamo a pregare per loro e per il suffragio di tutti i defunti.
Passato, futuro, presente. Aiutiamoci adesso a guardare il paradiso. Ci aiuterà ad essere più santi. Tocca a noi scrivere pagine attuali della storia della santità, con gli slanci e le fragilità della nostra fede, con i gesti quotidiani di gentilezza, con la fedeltà non priva di audacia per inventare il futuro.
Ieri, abbiamo meditato come Gesù ha vissuto le beatitudini, pagina straordinaria dei Vangeli. Gesù conosceva un testo del profeta Isaia (cfr. Lc 4,16-20) che preannunciava le opere del Messia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me, mi manda per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per spezzare le catene, per asciugare lacrime, per annunciare a tutti un anno di misericordia» (cfr. Is 61,1-2). Gesù ha vissuto così le beatitudini, chinandosi sui poveri, sugli afflitti, sui perseguitati. Li ha dichiarati beati, perché lui è con loro.
Oggi, ben radicati nel presente, azzardo come potrebbe essere un altro modo di vedere e vivere le beatitudini: «Beati voi – dice il Signore – che vi private di qualcosa per donare ai più poveri; beati voi che vi servite della gentilezza per trasformare la terra; beati voi che offrite la vostra vicinanza per sostenere chi soffre e piange; beati voi che senza sosta lavorate per la giustizia, per sfamare chi è in cerca di dignità; beati voi che aprite il vostro cuore per accogliere la sofferenza del mondo; beati voi che dimorate nella verità per lasciare trasparire in voi la luce di Dio; beati voi che vi opponete alla violenza per lasciare alla pace di edificare la città; beati voi che restate saldi nella confidenza in Cristo malgrado le incertezze e i cambiamenti». Con Cristo e con il suo Vangelo faremo nascere la felicità sulla terra. Così sia.

Omelia nella Solennità di Tutti i Santi

Pennabilli (RN), Cattedrale, 1° novembre 2020

Ap 7,2-4.9-14
Sal 23
1Gv 3,1-3
Mt 5,1-12

«Ecco la generazione che cerca il tuo volto, Signore» (Sal 23). Il Vescovo riaffida alle tue mani, Signore, questo popolo che tu ami e in mezzo al quale hai posto la tua dimora.
Cari fratelli e sorelle, voi, in questo momento, per un disegno del Signore, rappresentate tutta la Diocesi, tutta la nostra famiglia, credente e in ricerca. A noi piace pensare una intimità con Gesù, stando sulle sue ginocchia come i bambini e le bambine del suo tempo, o come i discepoli camminando con lui. Ma la Chiesa conosce anche questi momenti di splendore, di solenni liturgie, dove sono misticamente presenti i santi e i beati del paradiso.

Noi che siamo ancora sulla terra ci chiediamo: «Possiamo conoscere la sorte dei martiri, dei giusti, dei santi, che nei loro giorni sulla terra hanno seguito il Signore Gesù?». La risposta viene da quel grande affresco sinfonico che è l’Apocalisse. Le prime persecuzioni avevano inflitto crudeli devastazioni alle comunità cristiane neonate. Il loro destino era forse di scomparire appena nate? La visione dell’Apocalisse dà a quelle comunità e a noi oggi una risposta di speranza dentro la prova. È un messaggio cifrato, che evoca Roma senza nominarla mai direttamente, ma applicandole le caratteristiche dell’antica Babilonia, crudele e vanitosa. Il messaggio centrale proclamato dall’Apocalisse è quello dell’Agnello che vince. Che paradosso: a salvare è un Agnello trafitto, a sua volta immolato!
Siamo qui, anche se visibilmente non abbiamo la percezione, con tutti i santi, con tutti i martiri e con i nostri cari a contemplare l’Agnello: «Beati gli invitati alla cena dell’Agnello». È l’Agnello della Pasqua definitiva, il Risorto. Ecco, lui ha capovolto l’ineluttabile cammino verso la morte in un cammino di vita piena, che è per tutti quelli che lo seguono: martiri, santi, giusti, una folla immensa che nessuno può contare.
La memoria di coloro che ci hanno lasciato non ha nulla di lugubre; al contrario è motivo di gioiosa speranza.
Giovanni, l’evangelista, ci assicura che col Battesimo siamo diventati figli di Dio: il nostro futuro è segnato per l’eternità da questa identità. Su un giornale è stato scritto che i preti non parlano più del Cielo, dei Novissimi, della vita che ci attende. Non è vero: ogni volta che veniamo in chiesa non si parla d’altro!
Giovanni ci svela le conseguenze della famigliarità con Dio. Di lui siamo figli ed è una relazione siglata da un’alleanza, da un patto irrevocabile (cfr. Rom 11,29; Ebr 6,17). Un messaggio di speranza ancora più esplicito e coinvolgente, che risponde alle domande sulla nostra sorte e su quella dei nostri cari. Domande incalzanti: che ne è di loro? Come saperlo, se sono spariti dalla nostra vista? E a noi, cosa accadrà? Se Dio, nel suo immenso amore, con patto irrevocabile fa di noi i suoi figli, non può abbandonarci. In Gesù vediamo già a quale futuro ci porta l’appartenenza alla famiglia di Dio. «Saremo simili a Lui… lo vedremo come egli è» (1Gv 3,2): non è una fiaba! Dobbiamo aiutarci in questa fede.
Concludo con tre squarci, uno rivolto al passato che ci porta, come un fiore che sboccia sullo stelo, sostenuto dalle radici; uno rivolto al futuro che ci entusiasma e uno ad un presente che ci impegna in concreto.

Un passato che ci porta. Oggi la Chiesa è felice e fiera di mostrarci tutti i figli di Dio che hanno vissuto le beatitudini del Vangelo, una folla immensa. «Come le stelle del cielo, come i grani di sabbia sul mare» (Ebr 11,12) sono coloro che hanno creduto a Gesù con tutte le forze e le povertà umane. Hanno creduto in ogni passo del loro cammino. Sono quelli che hanno amato, che hanno vissuto “il comandamento grande” (cfr. Mt 22,36-39). In questo assembramento di Cielo riconosciamo dei volti amati, che ancora adesso continuano a sostenerci con il loro amore e la loro preghiera. Non sono soltanto i grandi santi, sant’Antonio, santa Teresa, san Giovanni… Ma anche le persone care che continuano ad esserci accanto. Il Cielo non è il museo delle cere. La Chiesa ci presenta i santi non come persone archiviate, ma come amici, compagni di strada che ci “portano”.

Siamo di fronte anche ad un futuro che ci entusiasma. Dall’isola di Patmos Giovanni scrive la sua visione sul futuro della Chiesa e del mondo, ecco un cielo nuovo e una terra nuova (cfr. Ap 21,1), la vera e completa dimensione della nostra esistenza intravista in questa festa di tutti i santi. Senza fuggire dalle responsabilità, dagli impegni quotidiani, non perdiamo di vista il punto di arrivo. Lo scopo della nostra vita non è rinchiuso nel presente e non è schiacciato nella sola dimensione materiale. La nostra vocazione è entrare in quella luce per la quale siamo stati creati. Per quale fine Dio ci ha creati? Perché possiamo godere di Lui, e Lui di noi.

C’è un presente che ci mobilita. La santità non è appannaggio esclusivo di quelli che hanno concluso il loro cammino terreno. I santi sono in mezzo a noi oggi e voi ne conoscete tanti. Guardo voi e penso: «Quanti santi!». Volutamente ho aperto la meditazione con le parole del Salmo: «Ecco la generazione che cerca il tuo volto». I santi sono nascosti all’interno delle nostre famiglie, dei nostri cammini, dei nostri gruppi, delle nostre comunità, anche nei luoghi di lavoro, di studio e nei luoghi di sofferenza. Tutti chiamati alla santità nella situazione personale in cui siamo e nella situazione sociale in cui ci troviamo. Adesso tocca a noi scrivere le pagine attuali della storia della santità, con i nostri slanci e le nostre fragilità, nelle cose grandi ma anche in quelle piccole, con i nostri gesti quotidiani di gentilezza, con la nostra fedeltà non priva di audacia per inventare l’avvenire. Così sia.

Omelia nella XXX domenica del Tempo Ordinario

Serravalle (RSM), 25 ottobre 2020
 

S.Cresime

Es 22,20-26
Sal 17
1Ts 1,5-10
Mt 22,34-40

Quella che abbiamo ascoltato è la terza insidiosa disputa che i farisei, erodiani e sadducei fanno contro Gesù. Sulla scena appare uno “specialista della Legge”, che chiede a Gesù: «Qual è il comandamento più grande?». Per capire l’insidia, occorre sapere che i maestri avevano scremato dalle Sacre Scritture 613 precetti: 365 erano divieti («non fare…»), 248 erano ingiunzioni («fa’ così…»). C’erano due scuole di pensiero. Una diceva: «Il precetto più piccolo ti stia a cuore come il precetto più grande». Un’altra scuola aveva costruito una sorte di piramide: in cima il comandamento più importante, poi via via quelli di importanza minore, fino alle regole minime. Chiedendo a Gesù qual è il comandamento più grande, si fa in modo che si sbilanci per l’uno o l’altro insegnamento. Gesù spiazza i suoi ascoltatori: «Il comandamento è uno: amerai»; un verbo al futuro, come a dire che non si finisce mai di amare. Una frase di sant’Agostino lo esprime benissimo: «Quando dici basta, sei finito» (Sant’Agostino, Sermo 169, 15 [PL 38, 926]). Amerai perché sei stato amato. Può esserci qualcuno che non si è sentito amato dai suoi, ma alla radice tutti siamo stati pensati, desiderati, voluti, creati da un Dio amante della vita, che ama immensamente. Quando si producono oggetti può darsi che il prodotto venga difettoso e sia scartato, ma non ci sono scarti nella creazione di Dio. Nessuno può dire che non vale la pena esistere. Dio non fa scarti. Tu sei stato amato, dunque amerai. Dicendo così, Gesù non dice che i 613 precetti sono da buttare… Ci sono regole nella vita. Gesù va all’essenziale, semplifica, ma non riduce la tensione morale. Radicalizza le esigenze della Legge, mobilita tutto l’uomo: cuore, anima, mente. E in maniera integrale: tutto il cuore, tutta l’anima, tutta la mente. È un appello alla totalità. Amare senza misura è difficile, ma è la nostra vocazione. Siamo stati creati per amare, abbiamo questo DNA spirituale che ci determina. Più amiamo, più ci realizziamo; quando si ama, si è profondamente felici.
Nella risposta di Gesù allo specialista della Legge troviamo un altro motivo che manifesta l’originalità del cristianesimo. Gesù dice: «Amerai Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente». Poi aggiunge: «Il secondo precetto è identico al primo: “Ama il prossimo tuo come te stesso”». Questa è l’originalità di Gesù. Tutte le religioni e tutte le filosofie conoscono l’amore per la divinità; tutte le religioni e tutte le culture conoscono l’amore al prossimo, ma i due amori sono disgiunti. Invece Gesù li unisce. Allora capiamo l’insidia della domanda dello specialista della Legge, perché a volte nella vita capita di essere di fronte a scelte che attraggono ugualmente. Faccio un esempio. Stasera dico il Rosario e in tv c’è una partita di calcio. Che fare? Un sacerdote è uno specialista del Rosario… Dopo una giornata di lavoro un’oretta di relax in compagnia è piacevole. Per Gesù non è importante il Rosario e non è importante la partita, è importante che io ami, che quella scelta sia qualcosa di autentico. Questo è un esempio banale, ma a volte capita che ci si senta in tensione fra due fedeltà, la fedeltà a Dio e la fedeltà all’uomo. Gesù ha unito i due comandamenti, per cui quando amiamo compiamo un atto di culto, quando facciamo un atto di culto facciamo un atto di amore per gli altri: i due atti sono fusi insieme. Anche il lavoro può essere preghiera. E la preghiera può essere “anima” per le nostre responsabilità. Quando vado a confessarmi, lo faccio anche per il mio popolo, perché siamo un corpo solo: se entro nella luce del Signore, tutto il corpo è illuminato. Ciascuno di noi deve vivere il culto, la preghiera, con questo spirito aperto, universale. In pratica, però, si trova tempo sia per dire il Rosario che per guardare la partita, si trova tempo per andare a trovare una persona ammalata e tempo per andare a Messa, basta organizzarsi.
Cari ragazzi, tra poco vi farò delle domande, perché oggi riceverete il sacramento della Confermazione. Vi chiederò se rinunciate al diavolo e al peccato. Risponderete con forza: «Rinuncio». Poi vi chiederò se credete: in Dio Padre, in Gesù e nello Spirito Santo, nella Chiesa. E voi direte: «Credo». Poi, con molta emozione, insieme a don Simone, stenderò le mani su di voi perché scenda lo Spirito del Signore. Infine, ungerò la vostra fronte con un profumo. Si chiama Crisma: è simbolo dello Spirito di Gesù, che non vediamo, non tocchiamo, ma di cui sentiamo la fragranza. Rimarrà un po’ di umido per qualche minuto, poi evaporerà, ma il bacio che Gesù vi dà rimarrà per l’eternità. Anche se un giorno farete degli sbagli, sappiate di essere amati. Vi darò anche un piccolo schiaffo, per dire: «Cara ragazza, caro ragazzo, ora tocca a te. La comunità ti considera adulto nella fede».

5° Forum del dialogo

VENERDI’ 23 E SABATO 24 ottobre si studiano
“Ambiente e cambiamenti climatici” nel 5° Forum del Dialogo

Tutto è pronto per la 5° Edizione del FORUM del DIALOGO, dedicato ad un tema di grande attualità come “Ambiente e Cambiamenti climatici”. Siamo così in piena sintonia con le prime quattro edizioni, sempre impegnate su temi che segnano la società di questi tempi e le emergenze che l’uomo moderno deve affrontare. In concomitanza con la difficile pandemia in atto ,il 5° Forum vuole contribuire a portare a San Marino, e nei 15 Comuni italiani che hanno aderito, conoscenze più rigorose, opportunità di studio e di riflessioni, come collaborazione a quanti già stanno prodigandosi a studiare soluzioni e proposte operative.

La piccola Repubblica di San Marino ha fatto sue queste esigenze, accettando di buon grado a lavorare  per migliorare, curare ed educare  al rispetto dell’Ambiente.

Per fare questo, il Forum ha chiamato esperti e ricercatori di cinque Università italiane ed europee, disponibili a portare sul Titano, e per quanti parteciperanno, i risultati più recenti della ricerca scientifica.

Interessa a molti oggi conoscere le cause e gli effetti dei cambiamenti climatici, ma anche le prospettive possibili per la “cura dell’ambiente”. E’ quanto ci aspettiamo dal CNR e dalla eccezionale ricchezza del suo patrimonio culturale, con l’intervento del prof. Sandro Fuzzi che si preannuncia ricca di argomentazioni.

Così sarà per i contenuti scientifici di esperti italiani e internazionali che stanno studiando la situazione dell’Antartide con tutte le curiosità che riguardano gli effetti biologici dei cambiamenti climatici su quella zona. Ce ne riferirà il prof. Gianfranco Santovito, dell’Università di Padova e componente della spedizione italiana nell’Antartide. Il tema si presenta molto attrattivo per capire anche le differenze che segnano la vita  dell’Artide e quella dell’Antartide in questi tempi di veloci trasformazioni, L’Artide, si sa, è un oceano circondato da continenti e l’Antartide è un continente circondato dall’oceano.

Per collocare questi argomenti nella vita quotidiana e conoscere i rischi ambientali, non poteva mancare un intervento di respiro europeo all’insegna degli aspetti giuridici e operativi del climate change, come ci farà capire la prof. Alessandra Donati dell’Università di Lussemburgo.

Il suo intervento diventa un’ottima occasione per suggerire processi e indicazioni alle politiche di interesse ambientale, come San Marino vuol fare con l’istituzione di un “tavolo per lo sviluppo sostenibile”, già all’opera. Come in tutti i meeting, i partecipanti si attendono anche preziosi suggerimenti di comportamenti coerenti con la consapevolezza della grave crisi ambientale che viviamo e con la volontà di molti di affrontare i problemi, senza più rinviarli.

Ci penserà il prof. Marco Grasso, dell’Università di Milano Bicocca, a proporre una “bussola” di comportamenti per affrontare le azioni di sostenibilità nella giusta valutazione della crisi ambientale che stiamo vivendo. Si pensi, ad esempio, alle reali difficoltà per il mondo aziendale che si trova oggi nella necessità di ripensare i suoi processi produttivi, specialmente per quelli che generano forti emissioni di inquinamento o forti consumi energetici.

Sarà invece il prof. Claudio Stercal, dell’Università Cattolica, a sintonizzare i temi del Forum con il pensiero e l’azione di Papa Francesco nella sua coraggiosa enciclica “Laudato si’”, nella quale guarda all’ambiente come si guarda ad un “social di Dio”, in un coraggioso processo di “ecologia integrale”. Per evitare, però, facili allarmismi e un noncurante negazionismo,  il Forum ha affidato a noti studiosi  di venire a proporre conoscenze rigorose e proposte fattibili.

Può essere una buona occasione per rinforzare il ruolo che vuole assumere San Marino come “crocevia internazionale di dialogo con i problemi del nostro tempo”, come ci diranno le numerose esperienze presenti al 5° Forum.

Saluto al Convegno diocesano delle Famiglie

Piattaforma Zoom, 18 ottobre 2020

Sono grato per queste tecnologie che mi consentono di fare famiglia insieme con voi. Il mio cuore si sente legato a ciascuno di voi.
Mi inserisco brevemente nel vostro Convegno con due sottolineature. La famiglia evangelizza, è missionaria, anzitutto per quello che è; poi, evangelizza ed è missionaria per quello che fa.
La famiglia evangelizza anzitutto per quello che è. La famiglia è un’immagine della Trinità: come nella Trinità Santa le persone si amano e si donano reciprocamente. I Padri della Chiesa usano una parola per descrivere la Trinità che, per analogia, applico anche alla famiglia: la parola pericoresi, che significa “danza”, dove l’uno si dà all’altro, riceve l’altro, dove uno con la sua povertà arricchisce l’altro e viceversa. La famiglia evangelizza essendo relazione sempre più vera, sempre più concreta.
La famiglia evangelizza anche con quello che fa. Metto subito avanti una preoccupazione: che il fare non diventi attivismo, che non diventi una scusa per uscire dalla famiglia, per cercare compensazioni. L’esser parte di una squadra sportiva o il far parte di un gruppo in parrocchia non deve mai essere qualcosa che sottrae dalla casa, dalle proprie responsabilità familiari.
La famiglia sa quali sono i suoi compiti: in primis suscitare vita, non semplicemente in senso biologico, ma nel senso di “prendere dentro” la vita, essere una famiglia aperta. I figli possono aiutare tantissimo in questo. La famiglia ha il grande compito di trasmettere la fede. La famiglia è un luogo dove i valori vengono trasmessi senza troppe mediazioni, dove la fede viene comunicata con gesti semplici e con scelte coerenti.
Tutto quello che una coppia fa per essere più unita, per avere una maggiore intesa, non è sottratto agli altri componenti della famiglia. Avviene come nell’arco voltaico: quando i due poli si avvicinano fanno luce, così una coppia che vive intensamente la relazione diventa luce per tutti quelli che sono nella casa e per tutti quelli che sono attorno a quella casa. Famiglia, diventa sempre più quello che sei!
Buon incontro!

Omelia XXIX domenica Tempo Ordinario

Dogana (RSM), 18 ottobre 2020

S. Cresime

Is 45,1.4-6
Sal 95
1Ts 1,1-5
Mt 22,15-21

Tenete conto, ragazzi e adulti, che siamo nel Cenacolo. Lo Spirito del Signore mette nel nostro cuore non parole, ma sentimenti di fede, desideri di essere come ci vuole Gesù.
Per capire questa pagina di Vangelo bisogna avere chiaro il quadro della società e della cultura al tempo di Gesù. La Palestina è una provincia dell’Impero Romano. Da una parte c’erano i Romani con l’imperatore. Cesare è il nome del primo degli imperatori, appellativo che i successori si attribuiranno (anche l’imperatore del Sacro Romano Impero si chiamerà “Cesare”, in tedesco “Kaiser”, in russo “Zar”). In questo contesto, quando diciamo “Cesare” intendiamo il potere costituito. Dall’altra parte, nella società giudaica, c’erano i farisei, gli scribi, i sacerdoti, che mal sopportavano la presenza dei Romani. C’era poi un gruppo, gli Zeloti, che erano agguerriti contro i Romani. Spesso, come in questo caso, i farisei e gli scribi si servono degli Erodiani, vicini al re Erode, un re “fantoccio”, subalterno ai Romani. Si vuole mettere in difficoltà Gesù: questa è la prima di quattro inchieste: «Chi comanda in Palestina? Comanda l’imperatore o comanda Dio?». Era una domanda cattiva, perché costringeva Gesù a prendere una posizione. Se avesse detto: «Comandano i Romani», gli Zeloti si sarebbero infuriati. Se invece Gesù avesse detto il contrario, avrebbe delegittimato l’occupazione straniera. Gesù dà un colpo d’ala al discorso: «Restituite a Cesare quello che gli compete». Non “dare” a Cesare, ma “restituire” a Cesare quello che è di Cesare (è così nella lingua greca). Che cosa dà Cesare? Le strade, gli ospedali, le scuole, le palestre… Gesù dice: «Pagate le tasse; se siete miei discepoli non potete essere “ladri” usando il bene comune senza contribuire». Poi, Gesù dice: «Restituite a Dio quello che è di Dio». A Dio appartengono il nostro cuore, la nostra intelligenza, la nostra volontà, la nostra persona. Nessuno può pretendere di possedere un altro, di usarlo come gli pare e piace, perché noi apparteniamo al Signore. Siamo figli. Ad un certo punto Gesù dice: «Datemi una moneta». Il tributo era, in fondo, una cifra risibile. A Gesù viene data la moneta ed egli dice: «Di chi è l’immagine?». «Di Cesare». «E l’iscrizione?». Dietro la moneta c’era scritto: «divino imperatore». Gesù ridimensiona subito: di divino c’è solo Dio. Lui è la divinità. In questo momento Gesù dice a tutti noi, in modo particolare a voi che state per ricevere la Cresima: «Avete impresso nel vostro cuore l’immagine di Dio». Dio ci ha creato «a sua immagine e somiglianza» (Gn 1,26). L’iscrizione che portiamo è quella del santo Battesimo. Da quando siamo stati battezzati quell’immagine è stata rinnovata: siamo tesoro di Dio, la sua moneta preziosa, una moneta viva, che vale molto più dell’oro e dell’argento: «Tu sei prezioso ai miei occhi – dice il Signore – e io ti stimo (cfr. Is 43,4)».
Cari ragazzi, tra un istante vi chiederò se siete disposti davvero a credere in Dio, in Gesù, nello Spirito Santo, nella Chiesa. Risponderete forte e chiaro: «Credo». Poi stenderò le mani su di voi: un gesto antico, carico di significato, per chiedere allo Spirito di Dio di scendere su di voi. Lo Spirito verrà con i suoi doni, che ben conoscete. Dopo passerò da ciascuno di voi intingendo il pollice su un profumo mescolato con olio, il crisma (da cui la parola “Cristo”, “cristiano”, che vuol dire “unto”, “profumato”) e traccerò sulla vostra fronte un segno. Sentirete subito il profumo; poco dopo non sentirete più la sua fragranza, ma il segno rimane, invisibile e incancellabile, paragonabile ad un bacio che Gesù Cristo imprime sulla vostra fronte. Domattina, svegliandovi, ricordate il bacio di Gesù: un bacio vale più di molte parole.
Vi darò poi un piccolo “buffetto” per dire: «Tocca a te, cammina!». Quel gesto mi fa pensare alla pagina della Bibbia che racconta la storia di Sansone. Ci voleva un assalto definitivo contro i Filistei. Sansone cattura delle volpi, le chiude in un serraglio, ad ogni coda lega una torcia, dà fuoco alla torcia e spalanca le porte del serraglio. Le volpi partono a tutta velocità e vanno ad incendiare i campi di grano dei Filistei (cfr. Gc 15,4-8). Ovviamente l’incendio a cui vorrei invitarvi è un incendio d’amore, di bontà… a scuola, in palestra, in famiglia. Senza farsi vedere: «Non sappia la destra quello che fa la sinistra» (Mt 6,3). Mi incanto al pensiero di vedere voi ragazzi come dodici volpi che verranno sguinzagliate e accenderanno di amore chi incontreranno. Ricordate il detto di Gesù: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12,49). Il fuoco dell’amore.

Intervento in occasione della Veglia missionaria diocesana

Chiesanuova (RSM), 16 ottobre 2020

C’è una parola, che forse non avete mai sentita, molto importante nella teologia e nelle catechesi dei Padri della Chiesa. Più si va indietro nel tempo più ci si avvicina alla sorgente che è il Nuovo Testamento, che sono gli apostoli, la Chiesa degli inizi. Questa parola è stata tradotta e viene espressa con sinonimi: relazione, rapporto, unità. Però la parola greca è molto più suggestiva: pericoresi, cioè “danza”. Dio è “pericoresi”, cioè unità di tre Persone uguali e distinte. Le tre Divine Persone danzano – la danza è movimento, esprime gioia, coinvolge tutto l’essere – l’una dentro l’altra, l’una con l’altra, l’una per l’altra, al punto da essere una cosa sola: Dio Trinità d’amore. Provenendo dalla tradizione politeista romana e greca, siamo sempre stati prudenti nel parlare della Trinità. Ci hanno insegnato il segno della Croce: Dio che è Padre, Figlio e Spirito Santo, ma non siamo stati educati ad un rapporto differenziato con le tre Divine Persone. Le tre Divine Persone sono così unite, così “amanti” l’una dell’altra, che non facciamo torto a nessuna delle tre se ci rivolgiamo a volte a una e a volte all’altra. Le tre Divine Persone, proprio perché la danza è esuberante, infinita, straripante, decidono di creare: tutt’e tre le Divine Persone creano. Quando l’uomo si perde, le tre Divine Persone inviano il Verbo. Il Verbo viene in mezzo a noi a prenderci per mano affinché entriamo anche noi nella danza con “i Tre”. Gesù è missionario perché mandato dal Padre e dallo Spirito per venire ad ingaggiarci in questa danza, nella pericoresi. La vita cristiana è questa. Poi Gesù manda lo Spirito. Noi, adesso, siamo nel tempo dello Spirito, che è anche tempo di Gesù, che è anche tempo del Padre.
Come vorrei una Diocesi tutta missionaria! Guardando e contemplando questa nostra vocazione, dobbiamo essere affascinanti, gioiosi, nonostante i dispiaceri, e invitare chi ci sta attorno a questa danza.
Per fare una Diocesi missionaria bisogna che ognuno sia missionario. Per cominciare, sarete missionari se la prossima volta che fate la Comunione presentate a Gesù il grappolo di persone che volete introdurre nella danza, un grappolo di persone da coltivare nel cuore, per cui pregare, a cui stare vicini con un messaggio, un sorriso, una telefonata, una parola buona. Santa Teresa di Lisieux ha preso in cura varie persone. Uno era un condannato alla ghigliottina: ha dato la vita perché si convertisse. Così ha sostenuto un seminarista e un missionario. Teresa, ancor giovanissima, si ammalò di tubercolosi. A volte la malattia le rendeva difficile anche salire i gradini. Allora, ogni passo lo trasformava in un atto di coraggio e di amore per il cammino di quel missionario.
Decidete voi chi è il vostro grappolo, ma non troppo grande!

Discorso al Corso di giornalismo: “Conflitti ed esodi di massa. Il ruolo dei Piccoli Stati tra promozione del dialogo e tutela dei minori”

Fiorentino (RSM), 15 ottobre 2020

Porgo il mio saluto adoperando l’incipit dell’ultima enciclica di papa Francesco: Fratelli tutti (citazione dalle “Fonti Francescane”).
Saluto il Direttivo della Consulta per l’Informazione e tutti i partecipanti a questo Corso di giornalismo dal titolo così impegnativo, stimolante e ampio: “Conflitti ed esodi di massa. Il ruolo dei Piccoli Stati tra promozione del dialogo e tutela dei minori”.
Parto da un’esperienza personale. La prima volta che nella Basilica di San Marino ho celebrato la Messa per l’Insediamento degli Ecc.mi Capitani Reggenti fui colpito dai numerosi partecipanti e dal loro portamento compassato, elegante, attento. Ero in San Marino appena da qualche settimana. Soltanto alla fine della celebrazione ho saputo che i presenti erano i rappresentanti delle Ambasciate accreditate presso la Repubblica di San Marino. Sei mesi dopo, quando ho ripetuto la celebrazione, avevo una consapevolezza diversa che mi ha portato a provare commozione. Avevo davanti a me – per così dire – un bozzetto del mondo unito: la piccola Repubblica di San Marino riuniva insieme rappresentanti di diverse nazioni, rivelandosi capace di relazioni, di ospitalità, di dialogo e di convivialità. L’ho vista con occhi nuovi, come una realtà geograficamente piccola, ma con una grande densità di valori, personalità e stile. Immagino come dietro a quell’appuntamento istituzionale che si ripete due volte all’anno, insieme alla forza della tradizione, vi sia tutta una rete di contatti, di scambi, di mutuae relationes preziosissime, soprattutto oggi.
Da quando siamo entrati nel nuovo millennio sono accaduti eventi di portata mondiale che hanno lasciato tracce profonde nelle biografie personali, ma anche nelle dinamiche sociali, con oscillazioni fra due prospettive: consapevolezza dell’interdipendenza della globalità e tendenza alla difesa dell’identità. Cito tre eventi di questi primi vent’anni del nuovo millennio. L’11 settembre 2001 ci ha costretto a mettere a tema la questione del rapporto fra le culture. Si parlava di “scontro di civiltà”.  Con la crisi finanziaria del 2008 si è toccata con mano l’interdipendenza economica, il ruolo dei poteri forti nel determinare l’economia dei singoli paesi. Ora siamo coinvolti a livello planetario dalla pandemia. «Siamo tutti sulla stessa barca», ha detto papa Francesco nel celebre discorso del 27 marzo. A proposito di navigazione, di barche e di rotte verso l’Europa penso all’evento epocale che sono le migrazioni…
Siamo alla ricerca di un equilibrio fra riconoscimento dell’autonomia individuale, della libertà e dell’autodeterminazione da una parte e, dall’altra parte, le esigenze derivanti dall’appartenenza ad una nazione, ad un popolo, ad un gruppo. In questo contesto mi faccio attento – è un’autorità riconosciuta, mondiale – al pensiero di papa Francesco che sta aiutando a definire una grammatica delle relazioni sociali. No ad una società chiusa in se stessa, individualista, no al globalismo dominato dalla finanza. Il mondo porta in sé la vocazione all’unità: «Tutto è collegato» (Laudato si’, 91). «Siamo un’unica umanità, come viandanti, fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi» (Fratelli tutti, 8). Quando scrive la Laudato si’, anche nell’ambiente della Chiesa c’è chi sussurra: «Il Papa deve parlare di Dio!». In realtà la Laudato si’ è un testo di teologia e di antropologia: è l’uomo che viene messo in relazione con Dio, la creazione con il Creatore. Il Papa ribadisce tre principi fondamentali (preferirei chiamarli tre proposte esperienziali, anziché principi).

1. Siamo in relazione. Non possiamo non esserlo: la relazione è costitutiva del nostro essere. Relazione con gli altri, con l’ambiente, con il cosmo e con l’Oltre (Dio). Si parla di “creato” e l’allusione è evidentemente al Creatore. Sembra un discorso ovvio, eppure tante volte l’abbiamo dimenticato, affermando che esiste un “io” a prescindere, un “io” del tutto autonomo e indipendente. Ce lo ricorda l’ombelico: noi siamo stati in relazione ancor prima di nascere. Possiamo esistere solo dentro a reti di relazione. Un giorno chiesi a bruciapelo ad uno studente di antropologia, mentre insieme stavamo salendo la scaletta per andare al campo sportivo: «Che cos’è l’uomo?». «Un figlio», rispose. Effettivamente non tutti siamo mariti o mogli, non tutti siamo padri o madri, ma tutti siamo figli. Sembra un’osservazione elementare… È la prima evidenza di questa grammatica delle relazioni sociali.

2. Questa relazione dinamica si svolge su tutti i livelli: famiglia, amici, vicini di casa, colleghi di lavoro, ma anche nei mondi culturali, relazioni a cui apparteniamo. Ci sono relazioni digitali che arrivano ad abbracciare il mondo intero, relazioni gioiose, liberanti e altre che sono faticose e subite. Tutto questo lo viviamo adesso in una sorta di vortice. Abbiamo bisogno di limiti, di confini, di disciplina per arginare intemperanze e condizionamenti, ma soprattutto abbiamo bisogno di prenderci cura delle relazioni in profondità.
Narro ancora una esperienza tratta dall’ambito che mi appartiene. L’anno scorso abbiamo cominciato in novembre a preparare il Programma pastorale della Diocesi. Abbiamo fatto ragionamenti e stilato un cartellone. Non c’è mese senza un convegno, non c’è settimana senza un incontro, non c’è giorno senza un’iniziativa. Quando siamo entrati nel lockdown è stato come se l’inchiostro sul cartellone si squagliasse. Ci siamo chiesti: «Se eliminiamo le iniziative, i convegni, gli incontri è finita per noi?». C’è stato un momento di smarrimento. Siamo stati ricondotti da questa esperienza al silenzio e soprattutto all’ascolto. Ci siamo messi di fronte ad un’icona biblica (Es 3,1-10): il racconto di Mosè davanti al roveto ardente. È un’icona, cioè qualcosa che travalica l’esperienza personale di Mosè. Mosè si era ingaggiato in un’opera di liberazione di sua iniziativa, con criteri suoi, ed era finito in un clamoroso fallimento. Al punto da fuggire; poi prende moglie, ha dei figli, diventa imprenditore a servizio di Ietro, lo suocero. Un giorno vede un roveto che arde senza consumarsi e sente una voce che usa questa grammatica, coniuga questi verbi: Dio osserva l’oppressione che pesa sul suo popolo, ode il suo grido di dolore, conosce la sofferenza dei suoi che vivono nella povertà e nell’umiliazione. Per questo scende ed entra nella storia per intervenire in essa. Ernst Bloch nel libro Ateismo nel cristianesimo (1968) dà una definizione di Dio suggestiva: Dio non è colui che “sta sopra”, ma colui che “cammina davanti”.

3. Nessuna relazione può pensarsi chiusa, cioè indipendente e sganciata da ciò che sta “oltre”. La relazione deve pensarsi aperta anche a ciò che la supera, non solo al pianeta, agli uomini, ma anche al mistero che si spalanca alla coscienza, al senso religioso. Il Papa ci ricorda che questo tipo di ascolto ridimensiona ogni pretesa di assolutezza.
Questa grammatica è importante; spinti dalla pandemia in cui stiamo vivendo dobbiamo ripensare queste relazioni: noi col pianeta, noi con Dio e poi aver cura di queste relazioni. Buon lavoro!