Omelia nel Natale del Signore – Messa della Notte

San Leo (Cattedrale), 25 dicembre 2018

Is 9,1-6
Sal 95
Tt 2,11-14
Lc 2,1-14

(da registrazione)

Stiamo cantando le meraviglie del Signore: il Signore è grande. Ma il segno che ci è dato è quello di un bimbo. Gesù nasce in un clima di tensione, di disagio, di povertà. Nasce al tempo del censimento che, allora, significava umiliazione nazionale, inasprimento fiscale (il censimento era fatto per riscuotere le tasse), lunghi viaggi (bisognava andare nei luoghi della propria origine), scarsità di alloggi (tanto che Giuseppe è costretto a portare Maria a partorire in una stalla). I primi a riconoscerlo sono rozzi pecorai, malvisti dalla società di allora, inabili persino a testimoniare. Vien detto loro che troveranno il Messia nella forma di un fragile neonato, che tra l’altro diverrà profugo. Perché questi accenti?
Il Natale confligge con tante situazioni. Anzitutto il Natale cristiano confligge con il Natale comune: cenoni, regali, viaggi, ecc. Esso non ha nulla a che fare con il Natale di Gesù. È un momento di euforia dopata per dimenticare la crisi. «Buon Natale» – si dice –, auguri a raffica. Sia ben chiaro: non ho nulla contro le luci e contro i pranzi famigliari. Il problema è che si festeggia senza il festeggiato. Questo è il primo motivo di conflitto.
Poi, il Natale di Gesù confligge con una certa forma di religiosità, precisamente quella che da Dio si aspetta fortuna, salute, successo. A questi il Bambino di Betlemme dice: «Quelle cose chiedetele ai vostri dei, non a me. Come potrei concedervi queste cose? Nasco in una stalla, morirò su una croce». Qualcuno di voi mi dice: «Ma allora sei un Dio da poco, un Dio inutile: che ce ne facciamo di te, se non sai darci le cose che contano e che ci stanno a cuore?». La prima risposta è che Gesù non è Babbo Natale. La seconda la lascio dire a Pierre Claverie, uno dei monaci di Tibhirine, in Algeria, ucciso dai fondamentalisti e, insieme agli altri compagni, beatificato il 7 dicembre scorso. A chi gli domandava: «Perché rimanete in Algeria? Per fare che cosa?», lui rispondeva: «Noi siamo qui a causa del Messia crocifisso. Non abbiamo nessun interesse da salvare, nessuna influenza da mantenere, nessun potere e nessun privilegio da difendere. Siamo qui come al capezzale di un amico, di un fratello malato, in silenzio, stringendogli la mano, asciugandogli la fronte. È, in fondo, la risposta del Bambino di Betlemme. «Non servo a nulla – dite voi – ma sappiate che quando vivete momenti di tensione, siete bastonati dalla vita, vi sentite in uno stato di confusione, io vi sono vicino, sono l’Emmanuele che vi è accanto e vi tiene per mano». Inoltre, il Natale confligge anche con una teologia sbagliata dell’incarnazione. A volte si dice: «La Parola di Dio deve essere presa là dove si trova e incarnata nella realtà della mia vita». Sforzo encomiabile, ma teologicamente scorretto, perché le cose stanno diversamente. Il Mistero del Natale ci ricorda che «tutto è stato fatto per mezzo di lui e nulla esiste senza di lui» (cfr. Gv 1,3). Se crediamo che la realtà è creata dalla Parola di Dio non dobbiamo applicare un bel niente alla realtà, semmai tirar fuori dalla realtà la Parola per farla nostra. Gli antichi parlavano dei “semi del Verbo”. «Tutto è stato creato per mezzo di lui e nulla esiste senza di lui». Ogni realtà, ogni cammino degli uomini, ogni cultura contiene “semi del Verbo”. Se applicare sa di sforzo, scoprire sa di stupore, di meraviglia. È Natale!
Anche quest’anno gli artisti si sbizzarriscono a fare il presepio o le tradizionali icone della Natività. Ci sono i pastori, gli animali, i piccoli borghi, i magi, il bambinello.
Alla fine della Messa si è soliti metterci davanti al presepio. Molti diranno la loro ammirazione per ciò che li colpisce di più: un villaggio lontano, una realistica riproduzione del tramonto, le mura di Gerusalemme, una finestrella illuminata, le stelle, Gesù nella mangiatoia. Voglio dirvi quel che mi piace del presepio. La prima cosa è il vedere che tutti i personaggi convergono verso la stalla della Natività. Pastori, magi, viandanti, casalinghe, pecorelle, tutti vanno verso Gesù. Persino nel presepe napoletano le tante figure, che sembrano poco interessate all’evento, sono sistemate in un movimento ascendente, quasi a spirale, che approda alla mangiatoia. Mi vengono in mente le parole di Gesù: «Innalzato da terra attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Innalzato sul legno della croce, ma, prima ancora, sul legno della culla che la prefigura. Sono sicuro che Cristo ci sta attirando tutti, ci sta interiormente seducendo. Ho fiducia che un giorno tanti torneranno, anche se non so come, quando, dove… Il mio augurio è che, dopo aver guardato il presepio, ci mettiamo tutti in cammino con i pastori, in sincero e appassionato cammino verso Gesù.
La seconda cosa che mi colpisce del presepio è la Sacra Famiglia. I pastori sono guidati dagli angeli, i magi dalla stella, ma chi porge il Bambino sono Maria e Giuseppe. Gesù non lo si incontra solo, ma in una famiglia, che lo ha accolto e custodito. Gesù lo si trova non con un percorso solitario, ma grazie ad una comunità, piccola forse, povera, con dei difetti, ma essenziale. Il mio secondo augurio, allora, è che nella nostra ricerca di Gesù non abbiamo paura a bussare alla porta non di Betlemme, ma della nostra parrocchia. Lì potremo riscoprire la necessità e la bellezza della dimensione comunitaria della fede. Andiamo insieme verso Gesù! Così sia.

Omelia nella S.Messa di apertura della Visita Pastorale nella parrocchia di San Marino Città

San Marino Città, 21 gennaio 2018

III domenica del Tempo Ordinario

1Cor 1,1-13
Mc 1,14-20

(da registrazione)

Carissimi,
sono qui per incontrarvi. Il mio primo pensiero è di prendere l’avventura di questa settimana insieme come un libro sigillato, come un rotolo chiuso consegnatomi dal Signore. Non pretendo di aprirlo, di svolgerlo, ma, prendendolo dalle mani del Signore, dico con Gesù: «Ecco, Signore, io vengo a compiere la tua volontà» (Ebr 10,7). Nella Lettera agli Ebrei si dice che Gesù è entrato “nel mondo” con queste parole: «In capite libri de me scriptum est». Chiedo ai vostri santi patroni, Pietro, Marino e Leone, e a don Bosco di essermi accanto.
Mi “smarco” subito: io non sono il Buon Pastore, il Buon Pastore è Gesù. Lui solo, per fortuna! Tuttavia, l’allegoria del Buon Pastore illumina il ministero pastorale a cui sono stato chiamato. E per di più è un’immagine, quella del Buon Pastore, che mi coinvolge: con tutti voi io sono una pecorella, ma per voi un pastore. Davanti al Signore mi basta essere chiamato per nome, Andrea, senza evocazione di ruoli ed esibizione di titoli. Amo sapere che il Signore mi conosce e avvolge la mia fragile e titubante umanità con il suo amore: questo mi basta. Come pastore a lui chiedo forza e coraggio, lungimiranza e audacia. Legittime le vostre attese nei miei confronti e nei confronti di ogni prete, ne avete il diritto! Il fatto che siate esigenti vuol dire che avete stima. E quando sbagliamo e ci sgridate, ci fa onore: significa che da questa categoria vi aspettate molto. Insieme a tutti i sacerdoti chiedo la vostra preghiera, la comprensione, ma anche la docilità e la corresponsabilità. Vorrei fare della mia povertà l’invito a guardare oltre – anche la mia povertà è una chance! –, a guardare verso il Buon Pastore. Mi viene fatto dono di provare un’appassionata tenerezza verso il mio gregge. Quattro anni fa non sapevo che esisteste e voi non sapevate che esistessi. Poi è accaduto che ci appartenessimo reciprocamente. Sento che mi appartiene anche quella parte della comunità che forse non incontrerò.
La Chiesa, fin dall’antichità, è stata definita popolo che si raduna strettamente attorno all’Eucaristia, ma anche attorno al proprio vescovo. Quella del vescovo non è soltanto una funzione rappresentativa o di presidenza. Il vescovo è successore degli apostoli; bisogna fare una distinzione rispetto ai Dodici, ma per l’imposizione delle mani il vescovo ha la grazia di essere ammesso al collegio degli apostoli. Come vivo questa cosa? Sono stupefatto per il compito che mi è affidato dal Signore; mi viene da pensare: «Ecco, come uno degli apostoli devo parlare di te, Signore Gesù, devo raccontare tutto quello che so di te, come facevano gli apostoli». I primi cristiani, innamorati di Gesù, volevano sapere tutti i particolari di lui e della sua vita, anche i più insignificanti. Cosa importava, infatti, sapere che i grossi pesci raccolti nella “pesca miracolosa” erano 153, oppure sapere che l’erba sulla quale si sono seduti coloro che hanno goduto della moltiplicazione dei pani era verde, o che la veste di Gesù era inconsutile… per l’amore nulla è banale. Ma, soprattutto, gli apostoli han detto cose del cuore: che cosa pensava Gesù, qual era la sua ansia, qual era la sua intimità col Padre, com’era commosso di fronte alle nostre sofferenze.
Il Vescovo va un po’ in crisi pensando a che cosa dire agli amici di una parrocchia di città: «Gli dico le cose che ho imparato a scuola? Un po’ sì, servono anche quelle. Gli devo dire qualche progetto? Certo. Ma soprattutto loro vogliono sapere com’è il mio incontro con Gesù, qualcosa di inedito…». Non aggiungo niente – guai se lo facessi – alla Divina Rivelazione, però racconterò qualcosa di vissuto su Gesù. Questo mi interroga personalmente: «Io convivo davvero con Gesù? Sì, l’ho incontrato, ma dimoro con lui? Abito con lui? C’è qualcosa di nuovo nella mia convivenza con lui da spartire con i miei fratelli e con le mie sorelle?». Queste le domande che affollano la mente di un vescovo.
La Visita Pastorale mobilita anche voi, perché vi impone una riflessione, chiedendovi: «Che cosa ci sta a fare la nostra parrocchia al centro di San Marino? Qual è il nostro compito, la nostra mission? Che cosa ci sembra sia più necessario dire, testimoniare…». Sotto la spinta della Visita Pastorale la vostra comunità fa come – per così dire – un “tagliando”. Ai sacerdoti è pervenuto un questionario sul quale coinvolgere i Consigli pastorale e degli affari economici, proprio perché tutta la comunità faccia questa riflessione ed esca da questa settimana rincuorata e col desiderio di abitare la città con la gioia del Vangelo.
Il Vangelo di questa domenica è molto ricco di contenuti. Viene in ballo certamente un’urgenza che metterei in cima: la nostra formazione. C’è l’impianto catechistico che riguarda l’iniziazione cristiana da rinnovare, ci sono i giovani da riagganciare, ma ancora più necessario è ripartire dagli adulti.
San Marino è uno stato tra le nazioni, conosciuto e apprezzato, pertanto ha delle responsabilità di società, di politica, sulla famiglia. Anche per questo dobbiamo fare un passo avanti, sempre di più, nella conoscenza del Vangelo.
Auguri a tutti voi e buona settimana!

Omelia nella S.Messa di chiusura della Visita Pastorale alla parrocchia di Acquaviva

Gualdicciolo, 21 gennaio 2018

Terza domenica del Tempo Ordinario

Gio 3,1-5.10
Sal 24
1Cor 7,29-31
Mc 1,14-20

(da registrazione)

Quando sono stato consacrato vescovo per tutta la formula di consacrazione, lunghissima, due diaconi mi hanno tenuto il libro dei Vangeli sulla testa. Quel gesto solenne sta a dire che tutti siamo “sotto il Vangelo”, perché tutti siamo scolari, cioè discepoli del Signore. Pertanto, la sfida più grande è riuscire a scuotere la nostra insicurezza. Per esempio, oggi dovrei palesarmi in mezzo a voi annunciando una grande notizia, una grande novità; probabilmente voi dissentireste, dicendo che in fondo è solo una cosa religiosa, che riguarda pochi. Invece, il Vangelo di Gesù è veramente una svolta nella storia, perché ci porta la promessa di una vita altra (e non solo un’altra vita, pur essendo importantissimo sapere che abbiamo davanti un’eternità di gioia). Gesù si è presentato come araldo messaggero di questa notizia straordinaria e di importanza decisiva. I suoi contemporanei lo percepivano perché vivevano un tempo di crisi, di grande difficoltà in tutto il mondo allora conosciuto. Si chiedevano: «Quando accadrà che finalmente Dio si prenderà la sua signoria su di noi, immergendoci nella sua realtà di amore, di vita, di futuro?». Se lo sono chiesti gli antichi, se lo sono chiesti al tempo di Gesù, ce lo chiediamo anche noi. E Gesù entra nella storia dicendo: «Sono io il centro della storia, convertitevi, credete al Vangelo» (cfr. Mc 1,15). La conversione di cui parla Gesù non è tanto l’impegno a migliorare il comportamento morale – quello è una conseguenza –, ma è una questione di “postura”: convertirsi significa girarsi, voltarsi verso Gesù.
Qual è la cosa principale per la nostra comunità? È l’incontro con il Signore Gesù. Si può essere beneficiati di cristianesimo, ma non avere ancora realizzato un incontro personale con lui. Un incontro personale, ma anche di popolo, insieme alla comunità in cui viviamo. Quali occasioni abbiamo per incontrare Gesù? Ci sono quelle non programmate, in cui Gesù ci incontra nel modo più insolito, più creativo. A volte si tratta di un’ispirazione, oppure dell’incontro con una persona; altre volte di un momento intenso di contemplazione, qualche volta di un momento di dolore. E in quel dolore, anziché trovare la disperazione, incontriamo il Salvatore. Poi, ci sono delle occasioni programmate e da programmare. Per esempio il momento della Messa domenicale. Forse non sempre accade qualcosa di straordinario dentro di noi. Però, se ci prepariamo e andiamo incontro a lui, il Signore si infilerà certamente in qualche angolo del nostro cuore, perché non desidera altro che darsi a noi. Inoltre – questo vale soprattutto per noi adulti – abbiamo bisogno di formazione, di catechesi tra noi adulti. Non per indottrinamento, ma per metterci con la nostra vita davanti al Vangelo. Moltiplichiamo queste occasioni! Ma ce ne sono altre. Penso ai due verbi che usa soprattutto Giovanni, l’apostolo che, insieme ad Andrea, è stato una giornata intera con Gesù, in occasione del loro primo incontro: dimorare, rimanere. Questo vale per chi ha già incontrato Gesù e vuole coltivare la comunione con lui. Penso soprattutto alla Confessione e alla direzione spirituale. La direzione spirituale è garantita dalla presenza del vostro parroco, ma ci si può rivolgere anche ad un altro sacerdote di cui si ha fiducia… Quello che è importante è che ognuno abbia il suo confessore col quale può aprirsi e sentirsi accompagnato nel cammino.
È stato proprio in un clima di gioioso incontro con la persona di Gesù che le due coppie di fratelli, Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, hanno potuto dire: «Signore, veniamo con te». Gesù li ha chiamati una mattina sul lago; erano pescatori, impegnati nell’azienda ittica di famiglia. Gesù li ha guardati. È bello lo sguardo di Gesù! La preghiera, senza complicare troppo le cose, è quello sguardo. Santa Teresa d’Avila, grande maestra spirituale, nel cap. 26 del libro in cui racconta la sua vita spiega che cos’è la preghiera utilizzando almeno dieci volte la parola “sguardo”: «Noi guardiamo lui, lui guarda noi». In Simone, Gesù vede la roccia: Pietro. Guarda Andrea, persona modestissima, e vede in lui un preparatore delle persone all’incontro con lui. Incontra la peccatrice e vede in lei non solo i peccati, ma la sua chiamata alla santità. Quando va da Zaccheo non vede più solo un affarista, ma intuisce la generosità che si cela dentro di lui.
Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni hanno seguito Gesù e Gesù li ha fatti pescatori. Pescare significa prendere dal profondo e tirar fuori. Ognuno di noi è un pescatore: deve cavar fuori il meglio che c’è in ogni persona. In che modo? Con la stima, con l’ascolto, con l’accoglienza: in questo modo l’altro può dare il meglio di sé.
Permettetemi ora di dire una parola sul vostro santo patrono, Andrea. Compare in questo brano di Vangelo, ma anche in altri tre passaggi. In tutt’e tre troviamo una costante: Andrea è colui che porta a Gesù. Primo passaggio. Giovanni Battista vede Gesù che viene verso di lui e dice: «Ecco l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo» (Gv 1,29). Andrea segue Gesù e sta con lui tutto il giorno. Poi cerca suo fratello Simone e gli racconta: «Abbiamo trovato il Messia» e lo conduce da Gesù (Gv 1,41-42). Secondo passaggio. Molta folla seguiva il Signore sulla montagna. È ormai sera. I discepoli dicono a Gesù: «Dove compreremo del pane perché questa gente abbia da mangiare?» (Gv 6,5). E Gesù risponde: «Date loro voi da mangiare» (Lc 9,13). Filippo obietta: «Non abbiamo niente» (cfr. Gv 6,7). Invece Andrea dice: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cosa sono per tanta gente?» (Gv 6,9). Andrea è un po’ sfiduciato, tuttavia accompagna il ragazzo da Gesù, è uno che favorisce sempre l’incontro con Gesù. Terzo passaggio. Un gruppo di greci sapienti è arrivato a Gerusalemme, forse per ricerca religiosa o per turismo. Avvicinatisi a Filippo gli rivolgono questa richiesta: «Signore, vorremmo vedere Gesù». Filippo va a dirlo ad Andrea e Andrea va da Gesù e lo informa (cfr. Gv 12,21-22). Dopo questa “anticamera”, Gesù dirà una delle parole più grandi, la sua autorivelazione: «Quando sarò innalzato dalla terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Gesù annuncia che diventerà punto di attrazione universale. Tutto questo attraverso Andrea.
Il mio messaggio, quello che vi consegno al termine della visita pastorale, è proprio questo: «Siate persone che portano a Gesù, come Andrea, il vostro patrono».

Omelia in occasione della Giornata della pace

1 gennaio 2018, San Marino (Basilica del Santo)

Nm 6, 22-27
Sal 66
Gal 4,4-7
Lc 2,16-21

(da registrazione)

Eccellenze Capitani Reggenti, Signori Segretari di Stato,
Signori Capitani di Castello, Ambasciatrice
fratelli e sorelle,
grazie di aver accettato l’invito a trascorrere queste prime ore del nuovo anno nel raccoglimento, nella comune riflessione e nella preghiera. Auguri!
Ci fa da preziosissimo stimolo il messaggio di Papa Francesco in occasione della 51ª Giornata mondiale della pace, una giornata che si celebra ininterrottamente dal 1967, istituita dal beato Paolo VI.
Il messaggio è indirizzato a tutti gli uomini di buona volontà, perché ognuno è chiamato ad essere artefice di pace. Nello scorso anno, tra l’altro, ci eravamo soffermati su questo trinomio (tre sfumature): essere nella pace, fare la pace, essere pace. La pace comincia da noi, da me per primo. Grande pace sperimento, ad esempio, nel sacramento della Riconciliazione, perché mi sento abbracciato da Dio, fatto nuovo come un bambino. Avverto pace quando fluisce nell’anima un sentimento di benevolenza davanti al limite delle persone che mi passano accanto. È bellezza e gioia provare stima per un altro e pensarlo più buono e più sapiente di me.
La nostra Chiesa particolare di San Marino-Montefeltro si fa a sua volta messaggera e consegna le parole di papa Francesco a coloro che hanno responsabilità di governo – qui in San Marino e in Italia – e responsabilità civili, amministrative, educative, con un gesto solenne e significativo, adesso nella basilica del Santo Marino e, questa sera, nel santuario della Beata Vergine delle Grazie a Pennabilli. Il contesto è quello gioioso, pieno di speranza e di auguri del Capodanno. Per chi è credente è quello solenne che celebra Maria come Madre di Dio, madre di quel bambino che contempliamo nel presepio che è Dio, Verbo fatto uomo.
Papa Francesco nel suo messaggio esprime preoccupazione per le tensioni che lacerano l’umanità e prega per quanti soffrono a motivo delle guerre. Stupisce come nel suo messaggio, appena alla quinta riga, entri subito “in medias res” mettendoci di fronte a cifre inquietanti: 250 milioni di migranti, dei quali 22 milioni e mezzo sono rifugiati. La cittadina di Goma, nel Nord Kivu (cittadina con meno di 300 mila abitanti) – mi è stato detto in questi giorni – ospita 1 milione di profughi. In Italia quest’anno sono arrivati 114 mila stranieri e 2850 sono morti in mare. Questi milioni di migranti e di rifugiati, come affermò Benedetto XVI, «sono uomini e donne, bambini, giovani e anziani che cercano un luogo dove vivere in pace. Per trovarlo, molti di loro sono disposti a rischiare la vita in un viaggio che, in gran parte dei casi, è lungo e pericoloso, a subire fatiche e sofferenze, ad affrontare reticolati e muri innalzati per tenerli lontani dalla meta» (Angelus, 15 gennaio 2012).
Ecco il titolo del messaggio di quest’anno: “Migranti e rifugiati: uomini e donne in cerca di pace”.
Una caratteristica del messaggio, che appare evidente, è che si tratta di un testo controcorrente e parecchio coraggioso, perché dettato in un periodo carico di pregiudizi – lo dico senza animosità – e di volgarità, in un contesto ossessionato da identità chiuse che alimentano paure. È un messaggio decisamente alternativo – non piacerà a tutti – alternativo alle logiche del nemico, dello scarto, dell’indifferenza. Alternativo al sistema Caino, al sistema Erode, al sistema Pilato. Non voglio parlare in astratto, so che devo tanare il Caino che c’è in me, che mi fa dire «sono forse io il custode di mio fratello?» (Gn 4,9), scoprire l’Erode che c’è in me e l’ambiguità che gli fa dire: «Fatemi sapere dov’è il bambino, così andrò anch’io ad adorarlo» (cfr. Mt 2,8); mentre il retropensiero è di eliminarlo. Oppure il Pilato che c’è in me, l’indifferente, che «se ne lava le mani» (cfr. Mt 27,24).
Papa Francesco ci offre il progetto di una nuova cittadinanza. Nell’omelia della notte di Natale ha invitato ad avere una nuova immaginazione. Nel messaggio parla anche di sogno. Il suo è un invito a resistere e a respingere ogni forma di xenofobia e di razzismo, a ricostruire la grammatica della convivenza, ad attivare «la capacità di accogliere, proteggere, promuovere e integrare».
Il necessario realismo della politica non può diventare – cito – «una resa al cinismo e alla globalizzazione dell’indifferenza».
Come suo stile, Papa Francesco ama ricorrere alle immagini; gli servono per rendere performativo il suo pensiero, cioè per coinvolgere il lettore e per facilitare la memorizzazione di quello che dice. Ne evidenzio tre: lo sguardo, le mani, il cantiere.
Lo sguardo. Si tratta di uno sguardo contemplativo, che vede oltre, che vede in profondità, che non si ferma al “fotogramma”, usando un’immagine filmica. Ci sono delle meditazioni che ci innalzano, ci fanno vedere il mondo dall’alto, nel suo insieme, nella sua vocazione totale. È uno sguardo lungimirante, sapiente, fiducioso nella possibilità di «trasformare difficoltà avvertite come minaccia in opportunità per costruire un futuro di pace». Uno sguardo capace «di riconoscere i germi di pace che stanno spuntando».
Le mani. Sono le mani delle persone che arrivano e di quelle che accolgono, mani che si incrociano, magari timidamente. L’idea è che nessuno giunge a mani vuote e che ogni essere umano ha mani che portano, che ricevono, che scambiano doni.
«Che sarà mai di questo bambino?» (Lc 1,66), fu detto il giorno in cui nacque Giovanni Battista; interrogativo chi si pone per ogni bambino che nasce. Perché non si fa questa domanda per ogni bambino che arriva tra noi? E se ci fosse qualche Mozart, se ci fosse Galileo Galilei, oppure un Einstein? Certamente c’è Gesù Cristo.
Il cantiere. Non un cantiere qualsiasi, ma per costruire città dove si vincono la paura e la divisione, dove si lavora per realizzare la promessa della pace.
L’impegno a favore dei migranti – un’azione non qualunquista, ma prudente, concordata, elaborata con strategie di rispetto per tutti – non è altro che applicazione di principi che costituiscono un patrimonio comune dell’umanità, principi codificati nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, principi radicati nella nativa costituzione relazionale dell’essere umano (siamo fatti per l’incontro con l’altro, per lasciarci sorprendere dal dono di cui è portatore) e, per chi è credente, nella convinzione indistruttibile che ogni uomo è mio fratello perché figlio dell’unico Padre.
Per questi motivi, sul tema dei migranti, come su ambiente, armamenti e guerre, papa Francesco chiama i credenti e tutti gli uomini di buona volontà a «rendere il nostro mondo più umano», contrastando decisioni escludenti, portatrici solo di dolore, «per uomini e donne in cerca di pace».

Omelia S.Messa di ringraziamento (Te Deum)

Pennabilli, 31 dicembre 2017

Gen 15,1-6; 21,1-3
Sal 104
Eb 11,8.11-12.17-19
Lc 2,22-40

(da registrazione)

Questa sera mi metto di fronte a tutta la nostra Chiesa diocesana. Penso ai miei fratelli presbiteri, penso ai nostri sette monasteri. Oggi due ragazze, Marylou e Rita, hanno fatto il primo passo di ingresso nella comunità monastica delle Figlie Benedettine della Divina Volontà; sono salite sulla barca dietro a Gesù e si lasciano dietro tutto. Vanno incontro ad un grande amore, ad un grande futuro. E ho nel cuore i nostri giovani dell’Azione Cattolica che sono a Verona per una settimana di campo scuola. Ho in mente, soprattutto, i nostri ammalati. Prima di Natale ho avuto modo di fargli visita girando nelle corsie delle ospedali e nelle Case di riposo. Ricordo in modo speciale tutte le componenti della nostra Chiesa che è l’insieme dei discepoli che Gesù raduna attorno a sé.
A nome di tutta la Diocesi, dei miei fratelli presbiteri e diaconi, in unità con i nostri monasteri e con tutte le famiglie dico al Signore: Grazie. Perdono. Eccomi! Tre parole indicatissime per questo Capodanno. Alla fine della Santa Messa intoneremo il Te deum di ringraziamento per i doni ricevuti.
Una voce maligna dentro noi potrebbe insinuare questo dubbio: «Ringraziare? E tutto il male che c’è attorno a noi? E le disgrazie sempre in agguato? E i terremoti a ripetizione? E la siccità che ha messo in ginocchio l’agricoltura l’estate scorsa? E il bagaglio di sofferenze personali che ognuno di noi pudicamente custodisce? E le lacrime delle famiglie che si dividono? E gli amori traditi?».
Ha una sua pertinenza, ma è una voce maligna perché non coglie l’ampiezza, la larghezza, la profondità del mistero di luce che continua ad avvolgerci. Noi ci fermiamo su un “fotogramma” di pellicola, ma non vediamo tutto il film, non cogliamo l’intero: l’amore del Padre che ci tiene sul palmo della sua mano. Sembra una “frase fatta”, ma i santi, di fronte a queste parole, andavano in estasi, cioè fuori di sé dallo stupore, dalla gioia, dall’incanto. La mano del Signore è mano creatrice e conservatrice nell’essere (ricordate il grande affresco michelangiolesco nella Cappella Sistina, dove Dio tende la mano all’uomo, Adamo, che corrisponde timidamente); è mano salvatrice; è mano che ci fa da nido, ci protegge, ci avvolge; è mano che si è fatta visibile attraverso le mani di Gesù, mani che hanno curato, accarezzato, benedetto. Mani anche inchiodate per noi.
La preghiera ci educa a vedere l’intero del disegno di Dio, un disegno secondo il quale siamo destinati alla deificazione, perché la grazia santificante ci eleva, addirittura ci rende partecipi della natura divina. La preghiera ci fa vedere la bellezza del ricamo che è la nostra vita. La preghiera ci sostiene nel cammino verso un traguardo pensato e voluto per noi: il mistero pasquale! Ecco perché i travagli, le sofferenze e le lacrime. Per dirla con una metafora: è il miracolo della crisalide che diventa farfalla!
Enumero, poi, i tanti doni spirituali: i fiumi di Eucaristia (si fa di tutto perché anche nei piccoli borghi non manchi la celebrazione della Santa Messa), l’offerta di misericordia e di perdono, l’acqua della fonte battesimale che non cessa di infondere grazia, l’unzione del crisma per i nostri ragazzi che ricevono la Cresima e l’unzione risanatrice per i nostri infermi, l’effusione dello Spirito Santo per la missione degli sposi verso la famiglia (ci si sposa non solo per realizzarsi, ma anche per compiere una missione, per questo occorrono le risorse che dona il sacramento. Per diventare sacerdote sono necessari tanti anni di Seminario, per ricevere il sacramento del Matrimonio sono sufficienti soltanto otto incontri. Bisognerebbe parlarne di più, cominciare a dire la bellezza del matrimonio quando si fa catechismo e spiegarla agli adolescenti che devono conservarsi puri per esso), l’effusione dello Spirito Santo sui nostri ministri (quest’anno è stato ordinato un diacono).
Dice il profeta Isaia: «Ora – 2017! – così dice il Signore che ti ha creato, che ti ha plasmato: “Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni. […] Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima ed io ti amo. […] Non temere, perché io sono con te”» (Is 43,1-5 passim).
Capisco l’invito del Siracide: «Lodatelo più che potete. Ringraziatelo. Non è mai abbastanza. E, quando avete finito, ricominciate» (cfr. Sir 43,33).
Ascolto commosso il ringraziamento di Gesù, quando preso da una gioia profonda ha detto: «Ti ringrazio, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai svelato queste cose ai piccoli. Sì, Padre, perché così a te è piaciuto» (cfr. Lc 10,21).
Oltre alla gratitudine sentiamo di chiedere perdono? Per che cosa?
Credo che la nostra Chiesa debba chiedere perdono per l’ignoranza colpevole, perché si trascura la formazione di noi adulti. Potremmo sostare ad ascoltare e meditare i discorsi di papa Francesco e – perchè no? – scrivergli per dirgli che gli siamo vicini, che stiamo seguendo il suo magistero. Chiedo perdono a nome di tutta la nostra Chiesa perché sono ancora troppo chiuse “le pagine del libro delle Scritture”.
E chiedo perdono perché non facciamo sempre bella la nostra Chiesa, perché, se non è bella, non è attrattiva e tanti ne restano lontani.
Gesù ha detto: «Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché anche loro diano gloria al Padre» (cfr. Mt 5,16).
Nel Te Deum canteremo – doverosamente – «miserere, miserere nostri, Domine! Fiat misericordia tua Domine super nos, et salvi erimus»!
Grazie, perdono, Eccomi! Il Signore è «colui che rialza», così viene chiamato nella Bibbia. «Egli dà forza allo stanco, moltiplica il vigore allo spossato. Anche i giovani faticano e si stancano – così scrive il profeta Isaia –, gli adulti inciampano e cadono; ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza stancarsi, camminano senza affannarsi» (Is 40,29-31).
Eccomi! Quante volte questa parola è ripetuta nelle Scritture: ci sono padri, madri, pastori, giovani, profeti, creature semplici che dicono «eccomi» al Signore. Soprattutto «eccomi» è la Parola che svela l’animus di Maria, la Madre di Gesù: «Ecco, sono la serva del Signore» (Lc 1,38). La Madonna ha tre nomi: il nome che le hanno dato i genitori, Maria, il nome che le ha dato il Cielo attraverso l’angelo, piena di grazia, e il nome che lei si è data: la serva del Signore.
Il futuro, il 2018, sta davanti a noi come un rotolo sigillato, una pergamena che nessuno di noi può svolgere. Prendiamo questo rotolo dalle mani del Signore con fiducia, con abbandono di figli, consapevoli che il “sì” è sempre e comunque fecondo e creativo, apre nuove strade.
Per quanto riguarda il 2017 vogliamo ricordare la grande sfida, la triplice sfida che ci ha messi in cammino come operatori pastorali: il dopo-Gesù, la Pentecoste, è ancora più potente del prima, perché Gesù è vivo. La Pentecoste è ai primi minuti dell’aurora. La resurrezione è la forza che sta in mezzo a noi, dentro di noi, che ci rinnova. Nel 2017 è stato come vivere al tempo dei primi cristiani, con lo stesso fervore, con lo stesso entusiasmo, con la gioia del Vangelo tra la gente, nel mondo, come i Corinti di cui quest’anno stiamo studiando la pastorale. A Corinto si è annidata la famiglia di Gesù. Per questo ci siamo ripetuti tante volte quest’anno di abitare il nostro tempo, il più bello che c’è, perché è quello che ci ha dato il Signore.
Concludendo, penso con gratitudine al 13 maggio, quando tutta la Diocesi era presente per onorare la Madre di Dio, una partecipazione di popolo. E ora l’avventura, che non è soltanto del Vescovo, di accogliere la visita pastorale.
Grazie, Signore. Perdono. Eccomi!

Omelia nella Santa Messa di chiusura della Visita Pastorale alla parrocchia di Faetano

Faetano, 12 dicembre 2017

Is 40,1-11
Sal 95
Mt 18,12-14

(da registrazione)

«Che ve ne pare? Se un uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti e andrà a cercare quella che si è smarrita?» (Mt 18,12).
Il primo pensiero che mi è venuto in mente leggendo questo brano è che quel pastore è veramente “scriteriato”. Come si fa ad abbandonare novantanove pecore sui monti e ad andar giù per i greppi a cercarne una che ha voluto andare “per i fatti suoi”?
È giusto che Gesù ci interpelli: «Che ve ne pare?». Il comportamento di questo pastore è sorprendente e la conclusione di questa breve pericope evangelica è straordinaria: «Il Padre vostro celeste, Dio, l’Eterno, l’Altissimo, non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli» (cfr. Mt 18,14).
A conclusione della Visita Pastorale alla comunità di Faetano mi nasce in cuore questo invito: «Siate sempre più famiglia!». Lo siete già, ma siatelo sempre di più, perché non c’è mai la parola “fine”. «Se dici basta, sei perduto» (SANT’AGOSTINO, Sermo 169, 15 [PL 38, 926]). In particolare, nessuno di questi piccoli vada perduto.
Chi sono «questi piccoli»?
Il “piccolo” di cui parla il Vangelo è ciascuno di noi. Non dobbiamo perderci nello zapping degli impegni quotidiani: il nostro tempo è sempre così occupato. È necessario trovare dimora, almeno per qualche minuto ogni giorno, con noi stessi e con il Signore.
Ricordo un brano che mi hanno fatto tradurre ai tempi della scuola: era il racconto del rientro a Roma dell’imperatore Traiano dopo la conquista di Traci. L’imperatore arrivò a Roma sulla sua biga dorata e in città ci fu una grande festa. In mezzo alla folla una vecchietta implorava per sé un minuto di tempo all’imperatore. I centurioni la ricacciarono indietro, ma lei gridò più forte finché l’imperatore la sentì e le rispose: «Non vedi che non ho tempo?». «Ah, che delusione – disse l’anziana signora –, sei imperatore, ma non sei nemmeno padrone del tuo tempo!». Allora, trovare il tempo per la preghiera. In questi giorni ho visto una comunità che sa sostare nella preghiera, che sa dimorare nel tempo. Che sia sempre così!
Nessuno di questi piccoli vada perduto. Penso all’impegno che la vostra comunità mette per l’iniziazione cristiana. Voi ragazzi rappresentate a noi adulti un nostro grande dovere che è quello di dedicarci ad introdurre i più piccoli nella conoscenza di Gesù e nell’esperienza della Chiesa. Bisogna continuare a mettere ogni impegno senza stancarsi. Preziosissimo è il lavoro dei catechisti, ma è tutta la comunità che educa, a partire dal coro, dalle persone che svolgono servizi, dalla gioia che si sperimenta quando si entra dal portone della chiesa, quando si salgono i gradini. Tutto educa, tutto introduce nella conoscenza di Gesù. Guardo la vetrata della chiesa di Faetano. Senza la luce da dietro si vedono solo le ramificazioni; quando invece la luce la illumina si vede la bellissima immagine di San Paolo. Così è la Chiesa: se la si guarda da fuori la si può trovare noiosa, qualche volta scandalosa, ma se la si guarda illuminata la si vede bellissima, come riflesso di Gesù.
Occorre che l’impegno per l’iniziazione cristiana coinvolga le famiglie. Qui a Faetano ho incontrato molte famiglie giovani; bisogna inventare qualcosa per coinvolgerle. Sono sicurissimo che i catechisti, guidati da padre Ivo, sapranno escogitare qualcosa di nuovo; può essere qualche cena in più, l’ideazione di un percorso specifico per genitori…
Nessuno di questi piccoli vada perduto, mi fa pensare anche ai giovani. Impegniamoci ad inventare qualcosa perché si mettano in rete tra loro, facciano gruppo. Ci sono metodologie e anche contenuti che vengono preparati apposta per i giovani, per rendere più gradevoli e più fruibili certi fondamenti della fede.
Nessuno di questi piccoli vada perduto: pensiamo che tutti sono candidati, tutte le persone che fanno parte della comunità di Faetano. Non ci sono “bocce perse”!
È molto bello lo slogan del campo scuola che avete scelto quest’estate: «Erano un cuor solo e un’anima sola» (At 4,32). Come si fa per fare in modo che nessuno si senta perso? Non si tratta come i cowboy di lanciare il lazzo per catturare le persone e trascinarle in chiesa, ma farsi uno. Farsi uno vuol dire avvicinarsi, iniziare una conversazione, familiarizzare ovunque ci troviamo: in fabbrica, al supermercato, in coda allo sportello delle Poste, in ospedale, all’università… Pensare che ogni persona che incontriamo è un candidato, fa parte della famiglia. Come facciamo a farglielo sapere? Non c’è bisogno di dirlo apertamente; lo si respira quando c’è qualcuno che ci accoglie, ci dedica attenzione e ascolto. Farsi uno con tutti. Sentire che il problema dell’altro è mio. Non possiamo portare pesi superiori alle nostre forze, ma se il problema di chi mi sta attorno è anche un mio problema scatta il servizio, da non intendere come gesto paternalistico, dall’alto della mia autocoscienza verso l’altro che è in cammino, ma pensando che “se il tuo problema è mio, mi risolvo risolvendoti”.
Nessuno di questi piccoli vada perduto.
Per fare questo la comunità deve attrezzarsi valorizzando i ministeri. Pensiamo al dono grande che è padre Ivo in mezzo a voi. Ho gioito quando ho sentito la festa che gli facevano i bambini a scuola, gli impiegati nelle fabbriche e nelle aziende agricole, le persone per strada. Lui è fortunato perché molti laici collaborano con lui, mentre lui può essere san Francesco e Gesù in mezzo a voi. Poi il diacono Graziano, i catechisti, gli animatori. Nel video del campo scuola estivo ho potuto apprezzare che, accanto ad ogni bambino, erano presenti diversi animatori. È bellissima la diversità di ministeri in cui ognuno fa qualcosa, ma non occupa tutta la scena, come nei giardini si osservano tanti colori e tanti profumi, uno più bello dell’altro. In un giardino ci sono anche le radici, con cui in pochi si complimentano. Penso a quante nonne e nonni ho incontrato nelle case, con il rosario in mano, che si accordavano con padre Ivo per ricevere la Comunione eucaristica. Complimenti alle radici!
Oltre alla diversità di ministeri, è importante la strategia di fare gruppo. Il tono della vostra parrocchia è di tipo assembleare, ma ci sono problemi che toccano di più i genitori, altri che toccano di più i figli, problemi che toccano chi lavora, oppure i bambini, ecc. Occorre riservare momenti specifici per archi di età e per categoria, non dimenticando il collegamento con la diocesi, perché, insieme alle altre parrocchie, formiamo la Chiesa diocesana.
Infine, sottolineo la grande riscoperta del Concilio Vaticano II: i laici, a partire dalla riscoperta del Battesimo (mai cosa scontata!). Talvolta ci si dimentica di questo sacramento. È come dimenticarsi di avere addosso un gioiello, una perla preziosissima. Riscoprire il Battesimo: questo deve dare entusiasmo, coraggio. Anche se ho molto enfatizzato la parrocchia, ai laici spetta un grande compito: l’animazione delle realtà temporali, cioè il mondo del lavoro, la politica, la cultura… Se riuscissimo ad incidere sui mass-media, potremmo trasmettere bellezza e gioia. I laici sono l’anima nel mondo.
L’ultima parola che vi lascio è: curare la formazione, attraverso l’ascolto attento dell’omelia, una buona lettura, un buon programma televisivo, un momento di gruppo in cui leggere insieme un discorso del Santo Padre, il Catechismo della Chiesa Cattolica, ecc.
Pregate per il vostro vescovo e per tutti i sacerdoti. Vorrei fare una nomination particolare per le nostre suore, dono grande nelle nostre comunità, nelle corsie degli ospedali, tra i ragazzi dei gruppi che vengono per i ritiri nelle loro case. La presenza del SS.mo nel tabernacolo di queste case è possibile proprio per la presenza delle nostre suore.
Tanti auguri, andiamo avanti… a presto!

Omelia II domenica di Avvento

Faetano (RSM), 10 dicembre 2017

Is 40,1-5.9-11
Sal 84
2Pt 3,8-14
Mc 1,1-8

(da registrazione)

1.
È iniziata la Visita pastorale! Un apostolo di Gesù fra la gente di Faetano… Ha incontrato bambini, ragazzi e giovani; ha fatto visita alla Giunta di Castello; si è intrattenuto con i catechisti. Ha salutato un gruppo di parrocchiani che hanno sfidato, ieri mattina, la burrasca e la neve per accoglierlo. Ecco le prime 24 ore!

2.
L’evangelista Marco mi aiuta a centrare subito il senso della mia missione tra voi. Apprezzo la cortesia dei sammarinesi. Conosco l’impegno di tanti nel sociale. Ammiro il riferimento ai valori etici. Non posso che plaudire alla consapevolezza della libertà, al rispetto e alla cura per i disabili, all’amore per l’ambiente, alla ricerca della pace. Tutto questo, un quadro sublime, non è ancora il nucleo centrale dell’Evangelo (semmai è maturità umana, è buona educazione, è ciò che struttura il “buon cittadino”, è arte del buon vivere). Ma io sono tra voi per parlare di Gesù, il Messia. Per dirvi che è vivo e che non desidera altro che incontrarvi. Gesù è appassionato per ciascuno di noi, personalmente. Conosce tutto quello che c’è nel cuore. Conosce gli slanci, sa che vorremmo essere sempre migliori.
Stiamo vivendo l’Avvento, il tempo dell’attesa, ma in verità è lui che ci aspetta: come chi bussa alla porta con i palpiti del cuore di un innamorato che non vede l’ora d’incontrare l’amata, come contadino impaziente di vedere il seme spuntare. Quando san Paolo si recò ad Atene nell’Areopago, il grande centro culturale dell’antichità, per annunciare Gesù che è risorto, che è vivo e che dà voce alla promessa della vita eterna, gli venne chiusa la porta in faccia. Gli dissero: «Finché parli di filosofia sei il benvenuto tra noi, anzi ti ascoltiamo volentieri, ma quando parli di Gesù… ti sentiremo su questo un’altra volta» (cfr. At 17,16-32).

3.
Voi vi chiederete che cosa io posso sapere di Gesù. Forse volete delle prove che ne dimostrino la singolarità, l’unicità, la divinità. Vi interrogate – e fate bene – se Gesù può avere a che fare con la vostra vita. Molti potrebbero affermare che sono ottimi cittadini, persone oneste, ma che non hanno mai incontrato Gesù. Quando incontreranno Gesù che cosa accadrà? Non diventeranno più onesti, lo sono già, ma la loro vita cambierà perché vi entrerà un amore che dà senso. Qualcuno potrebbe chiedere: «Gesù è solo un celebre personaggio storico? Un sapiente antico?». No, vi dico. Quelle che vi state facendo sono domande sulla fede. Provo a rispondere.

4.
Guardatevi attorno: vedete un popolo che ha vissuto e vive di Gesù, che ha accolto la testimonianza della sua risurrezione. Guardate la Chiesa con le sue debolezza umane, segno che non brilla di luce propria e prova che sulle sue oscurità splende la luce della presenza di Gesù. I nostri peccati, i nostri limiti stanno a dire che la Chiesa non si basa su di noi, perché se così fosse sarebbe già morta, sarebbe un lontano ricordo del VII sec., invece è viva e vivacissima (basti al cattolicesimo dell’America Latina, dell’Africa, dell’Estremo Oriente…). Guardate e misurate la grandezza delle donne e degli uomini che hanno affidato a Gesù la loro vita, i santi: vivono di lui, sono una sua presenza nel tempo. Sono forse diventati meno umani? No, la sua grazia fa risplendere la loro umanità in tutte le sue potenzialità. Pensiamo a san Paolo, vostro patrono, che ha percorso il mondo antico avanti e indietro senza mai stancarsi, uomo coraggioso, che ha rischiato la morte tante volte per il suo ideale. Ricordiamo san Francesco d’Assisi, san Giovanni Paolo II, santa Teresa di Calcutta, don Oreste Benzi, ecc.

5.
Dico di più: provate ad ascoltare la sua parola, ad accettare le sue sfide, a scommettere sulla sua verità; sentirete dentro il calore, la gioia e l’efficacia della sua prossimità. Dico alcune frasi di Gesù: «A chi ama mi manifesterò» (Gv 14,21). «Non vi chiamo più servi ma amici» (Gv 15,15). «C’è più gioia a dare che a ricevere» (At 20,35). «Vi dico queste parole perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). Solo per questo!!!
Ci sono altre parole di Gesù da gustare. Ad esempio, quando Gesù dice: «Il tuo peccato è perdonato» (Gv 8,11); quando ripete la più sconvolgente delle dichiarazioni d’amore: «Prendete e mangiate: è il mio corpo per voi» (Mc 14,22). Non c’è altro che da fare l’esperienza. Esperienza di perdono; esperienza di convivialità.

6.
Riuniti insieme in questo Avvento, piccoli e grandi, stiamo invocando, pregando e cantando: «Vieni, Signore, Gesù» (Ap 22,20).
Questa domenica incontriamo due profeti – Isaia e Giovanni Battista – che ci parlano del venire di Gesù. Isaia vede da lontano: «Il Signore viene con potenza», potenza e tenerezza, «tiene sul petto i piccoli agnelli e conduce pian piano, con dolcezza, le pecore madri» (cfr. Is 40,11). Giovanni vede ormai prossimo il Messia: «Viene uno dopo di me ed è il più forte. Lui ci battezzerà, ci immergerà nel turbine santo di Dio» (cfr. Mc 1,7-8). I due profeti usano lo stesso verbo: «Viene». Il Signore si avvicina, nel tempo e nello spazio, dentro le cose di tutti i giorni, alla porta della nostra casa, ad ogni nostro risveglio. È vicino. Parla al cuore e lo cambia. Prepariamo la strada (cfr. Is 40,1). Apriamo la porta (cfr. Ap 3,20).

7.
Vorrei concludere dicendo ai bambini: «Non dite mai “sono troppo piccolo” per vincere il male, per fare più bello il nostro pianeta, perché bastano atti di amore, uno dopo l’altro».
Ai ragazzi, invece vorrei dire: «State uniti, cercatevi profeti (i vostri catechisti, i vostri amici più grandi…)».
Ai giovani, che ieri ho incontrato al bar: «Scegliamo Gesù, colmerà ogni nostra attesa».

Omelia nell’apertura della Visita Pastorale alla parrocchia di Faetano

Faetano, 9 dicembre 2017

1Cor 1,1-13

(da registrazione)

Mi metto nei panni del vostro patrono, San Paolo. San Paolo aveva una predilezione particolare per i cristiani di Corinto, forse la più corrotta delle città antiche, la città che presentava la più grande diseguaglianza sociale. C’erano, infatti, persone ricchissime – perché a Corinto vi erano due porti (uno affacciato sul mar Egeo e l’altro sul mare Mediterraneo) – gente d’affari, dedita al business, e c’erano tanti schiavi. La gente che andava e veniva portava una certa instabilità anche dal punto di vista morale. Per significare la lussuria noi, oggi, diciamo “fornicazione”; anticamente fornicare si diceva “corintizzare”, perché Corinto era famosa come città libertina. Eppure, a Corinto si era annidata una comunità di cristiani. Come vede Paolo la comunità di Corinto? Sono bellissime le parole con cui Paolo si rivolge ad essa nella sua Prima Lettera (Paolo scriverà ai Corinti almeno quattro lettere, due ci sono rimaste, due sono andate perdute). Paolo è molto realista: vede la corruzione e vede che il mondo antico si sta allontanando dalla grazia. Eppure, il Signore a Corinto ha scelto un piccolo gruppo di persone. Paolo lo descrive come una comunità piena di doni, amata dal Signore e ne tesse l’elogio. Dice che questa comunità deve essere all’erta, in attesa dello sposo, che è il Signore Gesù. È il tema dell’Avvento: l’attesa del Signore che viene. È così anche per noi. Io sono un successore degli apostoli che viene in questa comunità, in una Repubblica che sta vivendo un momento di grande sbandamento, di grande difficoltà (me lo confidano in tutti i posti in cui sono stato). Non è soltanto una difficoltà economica, ma anche morale. Si assiste ad una perdita della fede: le scorte del credere stanno venendo meno. Però, anch’io come San Paolo, vedendo voi vedo i doni che il Signore vi ha fatto e vi fa.
San Paolo si raccomanda una cosa fondamentale: non essere disuniti. Oggi nella Chiesa c’è un po’ di turbamento. Qualcuno la chiama confusione. San Paolo chiede alla comunità di Corinto di restare unita, di non dire «Io sono di Paolo, io invece sono di Apollo, io invece di Cefa… » (1Cor 1,12). Oggi la situazione non è tanto diversa… Noi siamo la Chiesa di Gesù, una Chiesa unita al suo pastore, che è il Santo Padre, e al suo Vescovo. Voi forse vi chiederete che cos’è una visita pastorale. Il Vescovo viene a controllare, a verificare come vanno le cose? No, il Vescovo viene per incoraggiare, viene per unire e anche per far rivivere quello che vivevano i primi cristiani quando arrivava un apostolo. Che cosa gli chiedevano? Gli chiedevano di parlare loro di Gesù, di raccontare com’era Gesù. Eccomi: sono qui per parlare di Gesù, per raccontarvi non soltanto quello che ho studiato nei libri, ma qualcosa del mio incontro personale con lui. La visita pastorale mi responsabilizza molto e, per questo, ogni volta che la inizio in una comunità, mi domando: «Ho incontrato Gesù? Parlo di Gesù per sentito dire o dico di Gesù qualcosa del mio incontro con lui?».
Mentre ero in viaggio per venire da voi mi è venuta in mente la visita pastorale di San Carlo Borromeo, grande vescovo di Milano. Egli ha girato la diocesi, che la più grande del mondo, a dorso di un mulo. Aveva sempre presso di sé il confessore: si confessava ogni tre giorni! Un grande santo, pieno di zelo, che ha saputo trasformare la sua diocesi.
Nei Promessi Sposi troviamo la descrizione di una memorabile visita pastorale, quella di un suo nipote, Federigo Borromeo, anche lui un sant’uomo. Viene descritto al capitolo XXIII il bellissimo incontro del cardinal Federigo con l’Innominato. L’Innominato non aveva chiuso occhio tutta la notte, turbato dalla dolcezza e dalla fede di Lucia, la promessa sposa di Renzo. Era rimasto colpito dalla purezza di quella ragazza di cui voleva abusare. Al mattino sente suonare le campane che riempiono la valle e vede il popolo che si riunisce in chiesa: un popolo che custodisce la memoria di Gesù e accoglie l’apostolo. Allora scende dal suo castello e si mette in coda con la gente; tutti si fanno da parte perché hanno paura di lui. Poi tenta di avvicinare il Cardinale, ma quasi vorrebbe tornare indietro. Il segretario crocifero tergiversa e poi va dal Cardinale e gli dice: «C’è una persona poco raccomandabile che la vuole vedere, io la sconsiglierei… lasci perdere». Invece il Cardinale gli va incontro e lo abbraccia. L’Innominato si ritrae d’istinto, perché non si ritiene degno. Invece il Cardinale si rivolge a lui dicendo che il Signore lo vuole incontrare. L’Innominato esclama: «Dio, Dio, se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?». E il Cardinale: «Voi me lo domandate? Voi? E chi più di voi l’ha vicino! Non ve lo sentite in cuore che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare e, nello stesso tempo, vi attira, vi fa presentire una speranza di quiete». E si assiste ad una conversione meravigliosa.
Vorrei tanto che la visita del Vescovo, nella mia povera persona, muovesse la fede delle persone che incontrerò, dei ragazzi, degli adulti…
In questi giorni sono andato spesso a pranzo con le persone che lavorano, nelle mense, per mostrare la presenza della Chiesa “accanto”. Pregate per me. Pregate perché io abbia un incontro sempre nuovo con Gesù e perché sappia parlare di Gesù con sempre maggiore entusiasmo.

Omelia nella S.Messa di chiusura della Visita Pastorale alla parrocchia di Montegiardino

Montegiardino, 8 dicembre 2017

Solennità dell’Immacolata Concezione

Gen 3,9-15.20
Sal 97
Ef 1,3-6.11-12
Lc 1,26-38

(da registrazione)

1.
Ho vissuto insieme a voi per quasi una settimana: un’esperienza molto bella. Montegiardino. In questo nome è racchiusa la vocazione di una comunità espressa da una metafora: il giardino, che vuol dire colore, profumo, vita.
La natura, il castello, la gente: tutto appare progettato per dire armonia. E questa è una responsabilità che vi riguarda. Vorrei che il nome del vostro paese, della vostra comunità diventi sempre più vero, autentico.
Ho visitato le attività commerciali (ad ognuna ho fatto auguri ed espresso complimenti) e le piccole aziende (ho pregato per il loro sviluppo e per il bene di tutti).
Ho potuto constatare le tante iniziative: ospitalità, sport, folklore, presepio vivente, laboratorio. Sono rimasto sorpreso dalla intraprendenza e dalla creatività. Ho potuto avvicinare le istituzioni: scuole, castello, caserma, parrocchia. Ho colto in tutti la preoccupazione educativa; questo vi nobilita.
Ho incontrato persone: bambini (indimenticabile la mattina di martedì in cui abbiamo preparato l’Alleluia), giovani, genitori, nonni, ammalati, disabili e le associazioni.
Mi sono fermato più volte sulla piazza: luogo significativo per la vita sociale e civile, punto di incontro dei cittadini.
Ho sostato presso il campo santo insieme a don Luis e abbiamo pregato per i vostri cari defunti.
Ho fatto un’ora di silenzio nella vostra chiesa. C’eravamo solo Gesù ed io. Ho avuto anche la fortuna di passare dieci minuti in cantoria, sulla tastiera di uno straordinario organo a canne.
Tante persone, tante strette di mano. E il tentativo di imparare i nomi di ognuno, perché il nome è la forma prima della comunicazione.
Mi sono reso conto anche delle problematiche ecclesiali: l’avvicendarsi troppo frequente dei sacerdoti; il clima generale di secolarizzazione e di abbandono della pratica religiosa; la caratteristica dei piccoli centri: una conoscenza ravvicinata coi vantaggi della solidarietà, ma anche i pericoli del giudizio e delle chiacchiere.
Un’attenzione mi sento di sottolineare: rimanere aperti all’intera Repubblica di San Marino, ma anche all’Italia, aperti a tutte le persone – sono tante – che vengono dall’estero come badanti e sono d’altra confessione religiosa.

2.
Mi è accaduta un’esperienza come quella che ha fatto san Paolo quando si è recato nella città di Atene. Una città illustre per la sua cultura, la sua vivacità, la sua gente. San Paolo prende la parola all’Areopago e inizia complimentandosi anche per la religiosità degli ateniesi. Lungo le strade ha visto i segni del loro rispetto per le cose sante, per i simulacri delle più svariate divinità, segni di una pietà diffusa. C’è persino un capitello dedicato al Dio Ignoto. Paolo loda la sapienza degli ateniesi che praticano i valori più alti della civiltà antica. Ma ad Atene manca l’incontro con la realtà più importante: Gesù! Egli è il Verbo dell’unico Dio fatto uomo, venuto per renderci partecipi della vita stessa di Dio: «Un Dio che si fa uomo perché l’uomo diventi Dio».
Sulla piazza di Montegiardino – vi ringrazio – avete scritto: «Benvenuto vescovo Andrea tra la gente con la gioia del Vangelo». Ebbene il Vangelo è proprio questo: è Gesù! La buona notizia è Gesù, persona viva e, dunque, il Vangelo non è un insieme di valori, una morale, una buona educazione, buoni sentimenti. È la persona di Gesù. Allora vi prego, non fate come gli ateniesi che, dopo aver apprezzato san Paolo per la sua cortesia e apertura alla loro cultura, dissero quando parlava di Gesù: «Su questo ti ascolteremo un’altra volta!» (At 17,32). Invece accogliete Gesù. Questo è il messaggio che vi lascio: fare in modo di incontrare Gesù, la sua persona, perché, con la potenza della sua morte e risurrezione, ci libera dal peccato, dai condizionamenti dell’amor proprio, dalle catene che ci immobilizzano al nostro uomo vecchio (con le sue passioni, i vizi, le inconsistenze, ecc.) e ci apre la via alla risurrezione da oggi e per sempre.

3.
Aggiungo una cosa che prendo pari pari dalla scritta che sta nel cartiglio dell’antico paliotto dell’altar maggiore della chiesa di Montegiardino: «Fasciculus myrrhae dilectus meus mihi». Parole misteriose, che tradotte significano una dichiarazione d’amore. Gesù dall’altare ripete ogni momento queste parole: «Tu sei un mazzolino di mirra, perché tu sei l’amato mio». Una bambina di quinta elementare ha avuto l’ispirazione di fare questa domanda: «Che cos’è la bellezza?». Innanzitutto, la bellezza è misura, proporzione. Non è bello quello che è sproporzionato e bislacco. Ma la bellezza non è solo questo, perché ci sono cose simmetriche, perfette, che non sono ancora belle: sono fredde, marmoree. La bellezza è di più: è armonia, in cui tutte le parti si compongono. La bellezza è ancora di più: è rivestita di amore, suscita emozione, parla. Perfezione, armonia e infinitamente di più: amore! Perché viene “da dentro”.
Dobbiamo ammettere che l’anima spesso “resta indietro” in tante azioni, rapporti e iniziative e allora non c’è bellezza, perché la bellezza viene dal cuore. Bisognerebbe che l’anima si mettesse a rincorrere il nostro corpo, le nostre relazioni, le nostre iniziative. Ecco che cosa ci porta Gesù. La sua morte e risurrezione ci restituisce una capacità più grande di amare. Sia lodato Gesù Cristo.

Omelia nella Santa Messa di apertura della Visita Pastorale alla parrocchia di Montegiardino

Montegiardino, 3 dicembre 2017

Is 63,16-17.19; 64,2-7
Sal 79
1Cor 1,3-9
Mc 13,33-37

(da registrazione)

Sono molto contento di essere a Montegiardino, anche se arrivo avendo nel cuore le parrocchie che ho già incontrato: Dogana, Serravalle, Falciano, Domagnano, Borgo Maggiore. Per un vescovo la Visita Pastorale è una cosa bellissima.
Stasera vorrei dirvi tre cose: che cos’è una visita pastorale; qual è uno dei pilastri più importanti della vita spirituale del cristiano; come il Signore vede questo pilastro.

1.
Che cos’è la Visita Pastorale?
Ogni volta che dico che cos’è la Visita Pastorale rifiorisco. La Visita pastorale è la visita dell’apostolo alla comunità dei cristiani. Oggi i cristiani sono molto ridimensionati nel numero. Tuttavia ogni piccola comunità è come una costellazione che rende bello il cielo di San Marino. Il vescovo, proprio come facevano gli apostoli dei primi tempi, va in ogni comunità a parlare di Gesù. Non potrebbe bastare leggere un libro su Gesù? No, il vescovo ne parla con autorevolezza, perché è un successore degli apostoli. Sono il 66° vescovo di San Marino-Montefeltro, l’ultimo anello di una catena che ci aggancia a Rimini, fino ad arrivare al vescovo di Ravenna Sant’Apollinare, che fu ordinato vescovo da un amico di San Pietro apostolo, Ignazio di Antiochia. Non è una lezione di storia, ma la rivelazione di un mistero. Se una comunità cristiana vuol essere veramente tale deve essere agganciata a Gesù, non in modo burocratico, ma con la vita. Il Vescovo va a parlare di Gesù come Pietro, come Andrea, come Matteo, come Giovanni… Loro lo avevano incontrato, sapevano tutto di lui ed erano felicissimi di poter raccontare i miracoli, le parabole, ogni particolare. Per chi ama nulla è un dettaglio!
La domanda che mi faccio oggi è: ho incontrato Gesù? Ho studiato, so leggere il Vangelo in greco (la lingua in cui è stato scritto), ma questo sapere che si trova nei libri non dà sapore. Il sapere che dà sapore è l’incontro vivo con Gesù. Allora, mentre vengo a visitare voi, dentro di me si muove il desiderio di conoscere di più Gesù, di avere ancora più familiarità con lui.
Oggi una bambina di V elementare mi ha chiesto: «Come si fa a far parte del mondo di Gesù?». Le ho detto che per prima cosa bisognava leggere il Vangelo, poi essere uniti nella Chiesa, perché a tutti vengono dubbi nella fede e insieme possiamo aiutarci. Ho raccontato l’esempio di un campeggio in cui ognuno aveva portato il suo pezzo di legno per preparare un grande falò. Uno dei ragazzi, arrabbiatosi con gli altri, si era allontanato con il suo pezzo di legno acceso. Dopo qualche minuto il pezzo di legno si spense.
Siamo noi la Chiesa di Gesù, il mondo di Gesù. Ma dobbiamo essere uniti: accenderci gli uni gli altri. Questa è la visita pastorale. Il Vescovo dimorerà con voi, nel vostro paese.

2.
L’Avvento ci insegna che un pilastro fondamentale della vita cristiana è l’attesa del Signore. Tante volte l’attesa si spegne, perché crediamo di averlo già raggiunto. Invece, come ci insegna la Prima Lettura, dobbiamo fare un’invocazione: «Signore, noi siamo come foglie avvizzite, vieni ad aiutarci» (cfr. Is 64,5).

3.
La cosa più sorprendente è che il Signore aspetta noi. Noi aspettiamo lui, dobbiamo vigilare, non dobbiamo dormire, dobbiamo essere attenti, ma il Signore attende noi. Come ci attende? Se sfogliamo la Sacra Scrittura vediamo che lui è un padre che aspetta il ritorno del figlio (cfr. Lc 15,11-31). Quanto amore, quanta pazienza, quanta vigilanza. È una immagine che ci ha lasciato Gesù quando ha parlato del Padre misericordioso. Poi Dio ci aspetta come un contadino che ha seminato e attende che il seme nella terra marcisca e pian piano sbocci (cfr. Mc 4,28). Dio ha con noi la pazienza del contadino. Inoltre, ci aspetta come un innamorato aspetta la sua amata. Il Signore aspetta tutti noi con il batticuore. Infine dice: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20). Sono venuto a dirvi proprio questo: il Signore è alla porta e bussa. Credo che nessuno metterà il catenaccio. Penso che tutti apriranno: «Signore, vieni, non tardare».