Omelia nella Solennità di Cristo Re dell’Universo

Borgo Maggiore, 26 novembre 2017

(nella Visita pastorale a Borgo Maggiore)

Ez 34,11-12.15-17
Sal 22
1Cor 15,20-26.28
Mt 25,31-46

(da registrazione)

Cari amici,
diamo lode al Signore, il nostro Re! Gesù, Signore, Re dell’universo. Vogliamo proclamarlo nella nostra piccola grande Repubblica, vorremmo proclamarlo in tutto il mondo; vorremmo che il nostro grido, il nostro canto potesse penetrare i cieli. Vorremmo che tutti gli aprissero le porte, che gli stati – come diceva Giovanni Paolo II – gli aprissero le porte. Nel Vangelo viene descritta una visione sfolgorante: la corte divina è riunita e tutti i popoli della terra sfilano davanti al Re. Il nostro cuore si china a guardare Gesù buon pastore.
Faccio una piccola inclusione per i più piccoli: in questi giorni mi sono scappati alcuni errori. Il primo è stato in una scuola d’infanzia. Mi hanno chiesto: «Chi è il vescovo?». Ho provato a spiegarlo, ma non sono arrivato all’essenziale e mi è scappata una parola non adeguata. Ho detto che il vescovo è il capo. Gesù non ha mai detto così di sé. Mi sono proprio sbagliato. Il suo modo di fare il re non è come quello dei grandi della terra. Gesù riesce persino ad avere – questa è la sua regalità – un contatto personale con tutti, persino con un bambino che piange nel deserto, dice la Sacra Bibbia.
Ricordo di aver letto al Liceo il seguente racconto. Quando l’imperatore romano Traiano rientrò a Roma dopo aver vinto la grande guerra contro i Traci, gli avevano innalzato addirittura un arco di trionfo di marmo sulle cui colonne erano scolpite le sue imprese militari di conquista del mondo. Mentre lo attraversava, a destra e a sinistra c’era una folla sterminata che gridava a gran voce «Viva l’imperatore!». Una vecchietta tentò di fermarlo un attimo. Lui si girò e le disse: «Non ho tempo». La signora rispose: «Se non hai tempo per me non sei un vero imperatore! Sei un grande nel mondo, ma non sai essere attento a me che ho bisogno, anche solo per un minuto. Significa che non sei il padrone del mondo». Pensiamo per un attimo al pastore come viene descritto nella Prima Lettura. Proviamo a contare i verbi che esprimono le azioni che compie il pastore buono, il vero Re, un Re di cuori. Sono dodici: cerca (è lui che va in cerca! Non c’è bisogno di alzare la voce per farsi sentire), passa in rassegna, raduna, conduce, fa riposare, riconduce, fascia, cura, ecc.
È il vero pastore. Il Signore è il Re perché ama infinitamente e il suo regno si caratterizza proprio per questo. Oggi c’è chi non riconosce Gesù. Sapete qual è la legge del Regno di Gesù? È quella che abbiamo sentito nel Vangelo: dar da mangiare a chi ha fame, dar da bere a chi ha sete, vestire chi ha freddo, ecc. Questa mattina sono andato a celebrare la Messa a Ca’ Rigo. La chiesa era gremita di persone. Ho fatto loro i complimenti, perché tanti di loro avevano dato da mangiare, avevano cresciuto i figli, gli avevano dato da studiare: avevano vissuto le opere di misericordia.
Un altro errore che ho fatto ieri: mi è stato chiesto com’è la vita di un sacerdote, di un vescovo. Ho provato a rispondere. Alla fine, quando ci siamo messi in posa per una fotografia di gruppo, una ragazzina mi ha detto: «Caro Vescovo, che brutta vita la tua!». Mi ha spiazzato. Mi sono reso conto di non aver detto la cose più importanti: non gli ho detto quante lacrime ho asciugato, quante partite a calcio ho fatto per tener uniti i ragazzi, quanti ammalati ho preso per mano e accompagnato a Gesù… magari tutti diventaste preti!
Sia lodato Gesù Cristo.

Omelia nelle Esequie di don Mario Campana

Torricella, 24 novembre 2017

Sap 3, 1-9
Sal 31
Lc 23, 44-46.50.52-53; 24 1-6

«Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio» (Sap 3,1).

Cari fratelli e sorelle,
è questa la ragione della nostra speranza: «Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio». Ed è ciò che ci conforta quando siamo di fronte al mistero della morte. Un mistero sempre; sia che la morte rapisca come un ladro in gioventù, sia che tagli l’esile filo di una esistenza lunga. Le anime sono nelle mani di Dio. Questa parola è anche il motivo della nostra preghiera di suffragio; chi di noi è così puro da presentarsi davanti a Dio, davanti all’Altissimo, senza l’invocazione della sua misericordia?
Ci avete mai pensato? Non è da poco sentire nel cuore questa certezza: siamo nelle mani di Dio. A volte lo si dice con rassegnazione, come a dire «non c’è più niente da fare», ma quelle parole vanno prese nel loro vero significato. Sono parole di Vangelo: noi siamo nelle mani di Dio. E le mani di Dio formano una sorta di nido. Lì è stato collocato don Mario, soprattutto nel tempo della malattia e, al riparo di quelle mani, don Mario ha coltivato l’unione con Dio. Non amo fare panegirici. L’ho conosciuto negli ultimi anni. Uomo di preghiera e, a quanto mi risulta, maestro di preghiera. Ha insegnato ad amare la Parola di Dio. È vero: più disponibile a dare fiducia alla preghiera che alla medicina e, per usare un eufemismo, “più formica che cicala”. Nelle visite alla Casa di Cura “Toniolo”, dove fu ricoverato all’inizio dell’anno e dov’è rimasto fino a Pasqua, l’ho sempre sorpreso – nelle mie visite settimanali – con il Rosario in mano e “il segno giusto” nel libro del Breviario. Se era di mattina lo trovavo già spostato verso il Vespro, se era tardo pomeriggio era già nel giorno successivo. Per noi sacerdoti “il segno nel Breviario” è un buon “termometro”. Vuol dire che don Mario era fedelissimo alla preghiera. Quanti racconti mi ha fatto, non so fino a che punto realistici, cose rocambolesche, soprattutto quando era sui monti; ma lo penso nelle mani di Dio soprattutto in questo momento. Invito me e ciascuno di voi a concentrarci su queste mani, le mani del Signore. Vedo tre caratteristiche: sono mani creatrici, mani salvatrici, mani amorose.
Mani creatrici: da quelle mani siamo stati plasmati (cfr. Gb 10,8), come l’artista fa col suo capolavoro di creta. «Siamo opera delle sue mani». Nelle sue mani sono gli abissi della terra (cfr. Sal 94,4), i cieli con l’arcobaleno che lui vi ha teso (cfr. Sir 43,12). Ogni volta che il Signore apre le sue mani fioriscono la vita e i viventi si saziano di beni (cfr. Sal 104,28). Tutte le opere delle sue mani sono verità e giustizia (Sal 110,7) e l’opera delle sue mani è proclamata dal firmamento (Sal 18,2). Mani creatrici: se considerassimo questo avremo molta più stima degli esseri umani, anche di noi stessi. A volte si cerca l’autostima nel successo, nella carriera… Mentre siamo «opera delle sue mani» (Is 64,7). Basterebbe questo per ridiventare anche di buon umore.
Mani salvatrici: chi ha familiarità con la Bibbia conosce, come il ritornello, «le sue mani forti, il suo braccio disteso», che ha salvato e liberato il popolo, mani distese sul mare che diventa terra ferma. Mani che guidano il popolo, che prendono per mano, che strappano dagli inferi, che, se feriscono, risanano. A volte pesano sulla spalla o sul capo del profeta. I miei confratelli presbiteri sanno bene quanto è pesante, talvolta, quella mano del Signore, ma nello stesso tempo la sua è anche una mano che solleva, che incoraggia. Nessuno viene strappato da quella mano (cfr. Gv 10,29).
Mani amorose: la Scrittura dice che noi siamo come una perla nel palmo della mano del Signore, la più preziosa delle perle, una corona. Anzi, il nostro nome è scritto sulla mano del Signore (cfr. Is 49,16). Caro don Mario, tu sei scritto su quella mano. Dio non permetterà che qualcuno ti cancelli.
Le mani del Signore sono mani amorose che coprono e fanno ombra. Mani che toccano le labbra del profeta. Isaia non poté dire altro che «Signore, come posso parlare di te, le mie labbra sono impure» (cfr. Is 6,5). E il Signore gli toccò le labbra. Anche Gesù consegnerà la sua anima nelle mani del Padre. Le mani del Signore – sentite questa sottolineatura delicatissima e commovente – portano la sua creatura fino alla sua guancia.
Che dire poi di Gesù! Lui è la mano del Padre tesa per noi, una mano misericordiosa rivolta ai peccatori, che risolleva i malati e quanti, come Pietro, stanno per sprofondare. Mano rivolta a raccogliere chi è sceso nello Sheol. Gesù: mano di Dio!
Voglio dire una parola anche sulle mani di Gesù. Mani che hanno risanato, incoraggiato, accarezzato, asciugato lacrime; mani inchiodate per tre ore sulla croce ma sempre spalancate, destinate a rimanere spalancate per sempre.
Che cosa ha fatto Gesù sulla croce? Siamo stati avvertiti dalla Parola di Dio letta dal diacono di non fermarci alle tre del pomeriggio del Venerdì Santo, perché dopo avviene la risurrezione: stiamo parlando di un vivente!
Ma che cos’ha fatto Gesù per tre ore sulla croce? Non ha fatto della strada, non ha percorso le contrade della Galilea, non ha potuto lavorare.
Per prima cosa ha continuato a soffrire. «Ho sete» (Gv 19,28). Gesù domanda una goccia d’acqua. Per la febbre, per il tetano, per lo spasimo di un supplizio atroce. Ma non solo. Ha sperimentato l’abisso della notte oscura: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34).
Poi continua a pregare. Tutta la sua passione l’ha vissuta rivolto verso il Padre. Per tutto il tempo. Ma ci sono momenti in cui questo essere rivolto al Padre si esprime con parole: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). Da notare che Gesù con quelle parole cita il Salmo 31, ma si prende la libertà di aggiungervi una parola, una parola di indirizzo: «Padre». «Padre, nelle tue mani consegno il mio Spirito». E poi, ultima preghiera al Padre: «Tutto è compiuto».
Inoltre Gesù continua ad amare. «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). E, rivolto al ladrone crocifisso con lui, dice: «Oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23,43). Quanto amore, quanta carità, quanta tenerezza. Ai piedi della croce, un luogo tremendo, dove gli istinti peggiori dei carnefici si scatenano, Gesù crea un “campo magnetico” di amore, di affetti. E gli escono queste parole rivolte alla madre: «Donna, ecco il tuo figlio» (Gv 19,26). E rivolto all’amico del cuore: «Figlio, ecco tua madre!» (Gv 19,27).

Omelia nella Santa Messa di apertura della Visita Pastorale alla parrocchia di Borgo Maggiore

Borgo Maggiore, 20 novembre 2017

1Cor 1,1-13
Sal 22
Lc 5,1-11

(da registrazione)

«Ringrazio continuamente il mio Dio per voi» (1Cor 1,4).
Sì, cari amici, siete motivo di gratitudine (al Signore) per l’edificazione che portate alla gente di San Marino. Sono grato per il vostro contributo alla vita diocesana. Vi sento molto presenti. È noto il vostro impegno per le famiglie, per i ragazzi e i giovani, per l’accoglienza e per quella esperienza di pastorale integrata verso cui ci stiamo muovendo. Si può dire che nella vostra parrocchia il Signore è servito. Anzitutto con l’attenzione a chi è in difficoltà o soffre a causa della povertà o della malattia. «Tutto quanto avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, l’avete fatto a me», dice il Signore. Il Signore è servito in una liturgia appropriata, partecipata dall’assemblea, animata dal coro, servita da una molteplicità di ministeri, ministeri della Parola e dell’Altare; ed ora arricchita anche da un gruppo di chierichetti: un piccolo seminario nel significato proprio, etimologico (una serra). Chissà quanti germi di vocazione il Signore semina nella vostra comunità. Dunque «nel glorificare il Signore esaltatelo quanto più potete, perché ancora più alto sarà. Nell’innalzarlo moltiplicate la vostra forza, non stancatevi, perché mai finirete» (Sir 43,30).
Il Signore è servito dai tanti di voi che mettono a disposizione mani, intelligenza e cuore per la causa del Vangelo, per far conoscere Gesù, i detti e i fatti riguardanti la sua vita, e «la potenza della sua risurrezione» (Fil 3,10). Alludo all’impegno apostolico, ma anche a quello dell’animazione nella realtà temporali. Servizio nell’evangelizzazione, nella liturgia, nella carità.
«Vi esorto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, ad essere tutti unanimi» (1Cor 1,10).
Come nella comunità dei Corinti, anche nella vostra non mancano le difficoltà, le tensioni e i momenti di debolezza. I tempi non sono dei migliori. Non serve vagheggiarne di diversi! La fede è sottoposta ad una sfida dopo l’altra. Del resto come ammetteva con malinconia il profeta Elia: «E io non sono migliore dei miei padri» (1Re 19,4). Ci impensierisce la sproporzione fra la frontiera della missione che sta davanti a noi e la nostra pochezza… Ci si sente inadeguati come il piccolo Davide di fronte al gigante Golia.
Come stare, allora, nella fragilità, nella esperienza della insufficienza e del limite? Reagendo con un “di più” di impegno? È volontarismo! Cercando aiuto, complicità nel bene, collaborazioni? Può essere utile, talvolta necessario, ma… Tutto qui? Mi metto con voi davanti all’icona giovannea della moltiplicazione dei pani (cfr. Gv 6,1-15). Arrivo subito all’osservazione fatta dall’apostolo Filippo al Signore: «Anche duecento denari di pane non basterebbero che a dare qualcosa… Ma che cos’è questo per tanta gente?» (cfr. Gv 6,9). È la constatazione della nostra insufficienza che si scontra col bisogno degli uomini e con i desideri di Dio. L’insufficienza! Eppure è da questa insufficienza che il Signore trova la materia del suo intervento, la materia del suo miracolo. L’insufficienza è un aspetto del mistero della Chiesa e un aspetto del mistero della vita del cristiano. La meta a cui il Signore chiama, l’ideale a cui invita, sono grandiosi, stupendi, immensi. Inumani, anche. E le nostre forze sono sproporzionate.
Il cristianesimo è Cristo. Ma Cristo, secondo la parabola, è la pietra scartata dai costruttori come inutile, inadatta, difettosa. Dio però agisce con quella e ne fa una pietra d’angolo (cfr. Mt 21,42), quella che tiene in sesto e dà vigore a tutto l’edificio. Gesù è riconosciuto Dio sulla croce, nel fallimento umano. Cristo vince perdendo, salva con la propria morte.
Il cristianesimo è l’insufficienza umana eretta a metodo dell’operare di Dio, tanto nell’Antico Testamento quanto nel Nuovo Testamento. Dio sceglie ciò che è debole, infermo, ciò che non conta, per confondere ciò che è forte (cfr. 1Cor 1,27-29). Dio interviene e costruisce, gioca e riporta vittoria con la nostra debolezza. San Paolo dichiara: «Vedo il bene e compio il male» (cfr. Rom 7,19-33). Addirittura! E Gesù in Giovanni: «Senza di me non potete fare nulla» (Gv 15,56). Ma il cristiano, d’altra parte, può replicare: «Posso tutto in colui che mi dà la forza» (Fil 4,13). E può dire: «Sono insufficiente da me, ma la mia sufficienza viene da Dio». Anzi può affermare: «Quando sono debole, allora sono forte» (2Cor 12,3-10). È Dio che nel mondo e nella storia, da solo, produce il bene, tutto il bene: «Solo Dio è buono» (Mc 18,18). Da lui «ogni dono perfetto» (Gc 1,17). Eppure gli uomini diventano suoi collaboratori e collaboratori che da lui ricevono mezzi, forza e risorse per esserlo (cfr. preghiera “Actiones”). Così il cristianesimo è la forza nella debolezza, la forza della debolezza, in altre parole la forza nell’amore!
Cari amici, all’inizio di questa mia visita pastorale alla vostra comunità dico che nessuno è inutile. Non lo sono i piccoli che sono senza esperienza. Non sono inutili gli anziani privi di attività, talvolta giudicati improduttivi, di peso. Non sono irrilevanti per la vita della comunità quanti sono in difficoltà con la loro fede, quanti sono in ricerca e indugiano sulla soglia. Non sono distanti quanti hanno subito ferite nella loro vita familiare e non possono partecipare fino in fondo al sacramento dell’Altare. Ma soprattutto non solo inutili i poveri, gli ammalati, i disabili… Anche il soffrire è un agire; anche il soffrire può diventare un offrire. Tutti quelli che sanno amare, comunque si trovano, sono validi, danno un senso alla vita, contribuiscono al bene della comunità. Basta mettere la nostra povertà nelle mani di Dio. Cinque pani. Due pesci. Il Signore fa il resto. L’insufficienza diventa sovrabbondanza che soccorre le necessità degli uomini e asseconda le attese di Dio. Così sia!
L’insufficienza capita e accolta così forma la gioia del cuore di Dio, del cuore degli uomini del nostro cuore. Questo è il segreto della fecondità. Questo è il mistero del cristianesimo. Questo è il miracolo dell’amore: la forza della debolezza, la potenza dell’amore.

Omelia XXXIII domenica del Tempo Ordinario

Cattedrale di San Leo, 19 novembre 2017

Giornata del Ringraziamento
Prima Giornata mondiale dei poveri

Pr 31,10-13.19-20.30-31
Sal 127
1Ts 5,1-6
Mt 25,14-30

(da registrazione)

«Voi, fratelli – ci saluta così la Scrittura – non siete nelle tenebre […]: voi tutti infatti siete figli della luce e figli del giorno» (1Ts 5,4-5). C’è un complimento più bello di questo?
Nel Regno di Dio, che cominciamo già a gustare qui e ora, si lavora: non è solo beatitudine e tenerezza, ma anche responsabilità. Va ricordato nella Giornata del Ringraziamento. Tuttavia, sebbene il lavoro sia eredità amara del peccato originale, in qualche modo esso ci rende simili a Dio, perché, all’indomani della creazione, il Signore ha collocato l’uomo come suo impresario, affidandogli il compito di farla sviluppare e crescere.
Dio ha fatto il mondo e lo regge con la sua Provvidenza. Nella Genesi Dio viene raffigurato con le abili mani del vasaio che prende la creta dalla terra e con essa plasma l’uomo: è il primo mestiere col quale Dio viene narrato nelle Sacre Scritture. Inoltre, Dio viene immaginato come una levatrice che, come avveniva al tempo dello scrittore della Genesi, soffia nelle narici del neonato affinché cominci a respirare. Oppure Dio viene ritratto come abile chirurgo che dal torace di Adamo espianta la costola con cui viene creata la donna. Dio viene descritto addirittura come un sarto che prepara il vestito per Eva e Adamo dopo il peccato originale. Queste sono tutte “le cause” del lavoro del Signore, lavoro svolto, nel suo caso, in totale gratuità.
Nella Cattedrale della mia città di origine, Ferrara, vi erano due porte: una centrale con la rappresentazione di Gesù giudice e una laterale adornata di bassorilievi, ora custoditi nel Museo della Cattedrale (tale porta ora non c’è più dopo il rifacimento settecentesco). Nelle formelle che rivestivano la porta laterale non erano rappresentate figure di santi, né di eroi della mitologia classica, come si potrebbe immaginare, bensì erano raffigurati i mestieri, i lavori del luogo: un grande ammaestramento.
Una curiosità: perché nel racconto evangelico Gesù condanna il servo che ha sotterrato il talento in una buca? Perché quell’uomo lascia a riposo la creazione. Lui voleva restituire integro ciò che aveva ricevuto, non l’ha trafficato per paura del suo padrone.
Qual è l’opposto dell’operosità? L’accidia, uno dei sette vizi capitali. L’accidia è un vizio grave, è il vizio di chi non sa assumersi le proprie responsabilità. L’accidia può avere due forme: quella che intendiamo solitamente, cioè la pigrizia, l’indolenza, la svogliatezza, l’ozio, l’inerzia e poi la forma dell’attivismo, cioè di chi lavora per stordimento, come alibi per distogliersi dai doveri principali, dalla cura dei rapporti.
Dopo la meditazione di questa pagina di Vangelo sottolineo tre pensieri. Il primo: tutti i lavori sono importanti e sacri (comprenderei anche i lavori domestici, il servizio per i vicini di casa, il servizio in parrocchia, nel volontariato). Il lavoro è la via normale per il proprio sostentamento, ma anche per realizzarsi. Un secondo pensiero: il lavoro è sempre per gli altri: anche quando si lavora per sé in fondo si fa un servizio agli altri. Terzo pensiero: il più trascurato fra tutti i lavori è la cura dell’anima (non c’è neppure nelle dodici formelle della Cattedrale di Ferrara!).
Quando l’attore comico Benigni interpretò i dieci comandamenti disse che l’anima, a volte, rimane indietro e si può vederla mentre rincorre il corpo. Effettivamente possiamo vivere questa dissociazione. Allora invito a prendersi cura dell’anima, ad esempio facendo in modo che il lavoro più materiale sia pervaso dall’impegno di lavorare per amore.
Per questo lavoro sull’anima non bastano delle “promesse da marinaio”, occorre la pratica della vigilanza, l’ascolto attento, la preghiera.
La parabola dei talenti, dunque, ci insegna che Dio ha stima di noi, conosce le nostre possibilità, non pretende che siamo perfetti, ma chiede di non sprecare i suoi doni.
Questa domenica ci viene mostrata – nella Prima Lettura – anche la figura di una donna intraprendente e laboriosa. Mentre domenica scorsa sembrava che il Signore invitasse alla prudenza, oggi il Signore condanna la prudenza del servo che non si dà da fare.
Penso che si possa guarire dall’accidia recuperando un rapporto di fiducia con il Signore: «Signore, metti nelle mie mani i tuoi doni e io mi impegno a farli fruttificare».
In questa domenica in cui ricordiamo i poveri, il cuore dev’essere aperto ai nostri fratelli. Certo, la povertà è da combattere perché è frutto di ingiustizia, di male, ma guardando il volto di chi è in difficoltà ci accorgiamo che la povertà è un ammaestramento, un invito a condividere e a non essere troppo attaccati ai beni della terra. Sia lodato Gesù Cristo.

Omelia nella S.Messa di chiusura della Visita Pastorale nella parrocchia di Domagnano

Sap 6,12-16
Sal 62
1Ts 4,13-18
Mt 25,1-13

(da registrazione)

Dopo aver trascorso una settimana intera con voi, l’immagine che mi raffigura Domagnano è quella dell’alveare. C’è tutto un ronzio laborioso attorno alla parrocchia e alla piazza davanti alla chiesa, dove “si viene e si va”: si va al lavoro, si va alle proprie case e si torna, ci si riunisce per circostanze formative – la formazione mi pare sia molto in evidenza – ci si incontra per momenti di preghiera, non solo per la Messa domenicale. Ho anche avuto la gioia di partecipare a qualche Eucaristia feriale e ho visto persone, ho visto solidarietà per il dolore degli altri quando ricordano uno dei loro cari defunti. Ci sono anche incontri di tipo organizzativo; ad esempio, mentre siamo riuniti attorno all’agape eucaristica c’è chi sta preparando il momento conviviale. Dunque c’è vita; usando le parole di Virgilio quando descrive l’alveare, direi: Fervet opus. Suppongo che venga fatto del buon miele. Se ne accorgono anche i genitori che, nonostante il venir meno delle scorte del credere, mandano i loro bambini al catechismo.
Se stiamo alla liturgia di oggi l’immagine è piuttosto quella dell’olio. Vediamo dieci ragazze nella notte con le lampade accese. È una metafora abbastanza eloquente: quelle ragazze siamo tutti noi, è la comunità. Si trovano nella notte: stiamo attraversando momenti difficili. Lo dico per la nostra appartenenza alla società civile europea, mondiale, ma anche sammarinese. Dieci ragazze nella notte con lampade che minacciano di spegnersi. E sappiamo quanto è importante vederci nella notte, perché non si va da nessuna parte quando è buio totale. Non mancano le luci, ma occorre l’olio per alimentare la fiamma. Se manca l’olio anche la luce si spegne. Allora non si può più andare incontro allo sposo e non si può essere di aiuto a chi cammina insieme con noi. L’idea dell’olio mi proviene anche dai giri fatti insieme a don Marco per la campagna. Abbiamo visto qualcuno che raccoglieva le olive… L’olio è un’immagine che torna tantissime volte nell’Antico Testamento e la incontriamo anche nel Nuovo. Ad esempio, l’olio veniva usato dai patriarchi per ungere le grandi pietre che venivano innalzate per ricordare il luogo dove si era sperimentata una presenza misteriosa di Dio. L’olio era indispensabile per le lampade che ardevano per il culto: fiamma che arde nel luogo dove Jahvè ha posto la sua presenza. L’olio veniva versato sul capo di Aronne, su quello dei sacerdoti; veniva adoperato per ungere gli arredi sacri, l’arca dell’Alleanza, il candelabro, l’offerta e anche i re venivano consacrati con l’olio. Il Salmo 103 dice: «L’olio fa brillare il volto». Anche i vostri volti, siete belle persone, perché l’unzione crismale che avete ricevuta, che vi ha consacrato, che vi ha messo in cuore grandi ideali, rende anche le nostre facce attraenti, spero anche gioiose. Quando usciamo di chiesa dovremmo essere segni di questa gioia, di questo olio che fa brillare il volto. Allo stesso modo, il Salmo 91 afferma: «Tu mi hai dato, o Signore, la forza di un bufalo e mi hai cosparso di olio splendente». Ma l’olio è simbolo anche di qualcosa che si mette insieme a caro prezzo, perché le olive devono passare attraverso il torchio per essere spremute. Di chi parlo in questo momento se non di Gesù? Lo ricordate nel Getsemani? La parola Getsemani significa “orto del frantoio”, perché in quel giardino c’è un grande frantoio, forse condominiale, e proprio lì Gesù, come un’oliva, viene spremuto e anticipa tutta la sua Passione. Dice l’evangelista che sudò sangue (cfr. Lc 22,44), per il dolore intenso che stava patendo. Dunque l’olio, simbolo del culto a Dio, ma simbolo anche di ciò che fa brillare il volto e simbolo della carità, passa attraverso l’azione del frantoio. Mi piace tantissimo una citazione di Sant’Agostino, che dice: «Il prezzo di una partita di frumento? Il tuo denaro. Il prezzo di una proprietà terriera? Il tuo argento. Il prezzo di una gemma preziosa? Il tuo oro. E il prezzo della carità? Te stesso. Ciò che è più prezioso è anche più caro… Cerchi come acquistare un fondo, un gioiello, un giumento? Metti le mani in tasca. Ma se vuoi la carità, cerca te stesso, trova te stesso» (Sermo XXXIV,4.7). Perché è te stesso che devi dare.
Torniamo alle dieci ragazze nella notte. Siamo noi, a volte un po’ stolti e a volte un po’ saggi. Quali sono le nostre lampade? Parto da quello che vedo nella vostra parrocchia. La lampada del Santissimo Sacramento che rimarrà accesa accanto al tabernacolo, anche dopo la Santa Messa, quando spegneremo le luci sull’altare. È l’olio della preghiera. Vi invito a perseverare nella preghiera, ad esempio fermandovi per un attimo di adorazione in chiesa quando passate di qui per andare al bar, o per fare due chiacchiere oppure per accompagnare i bambini… Il Signore è presente tra le nostre case. Abbiamo l’olio della preghiera anche nelle nostre case. Facendo visita agli anziani e agli ammalati, che non riescono a venire in chiesa, mi sono reso conto di quanta preghiera fanno. Noi siamo qui, andiamo a lavorare, abbiamo tanti impegni, loro pregano. Ho chiesto – so che i ministri straordinari della Comunione lo fanno sempre – di invitarli a pregare per tutti, a tenere le mani alzate verso il Signore: l’olio della preghiera. Poi vedo un grande cero che arde davanti a noi di fianco all’Evangeliario, che abbiamo esposto la sera di inizio della visita pastorale. Luce che brilla nella notte è la Bibbia, la Parola di Dio. Se la leggiamo e la viviamo ci trasforma in un altro Gesù e diventa luce per i nostri passi. Nel Concilio Vaticano II abbiamo riscoperto questo modo di dire: la duplice mensa, la mensa della Parola e la mensa dell’Eucaristia (cfr. DV 21). C’è un’altra luce settiforme (sono sette lampade): la lampada della testimonianza, perché noi, come cristiani, abbiamo il dovere di tener viva la luce nella notte, per esempio abbiamo responsabilità sociali, produttive, economiche, educative… Ho incontrato molti bambini nelle scuole e ho potuto apprezzare una grande cura per l’istruzione, soprattutto nelle scuole dell’infanzia. Poi sono stato accompagnato in tantissime attività produttive e devo anche ringraziare il capitano di Castello che mi ha voluto invitare. In confidenza gli ho chiesto che cosa spinge ad offrire la propria disponibilità per un tale servizio. È stato bellissimo sentire con quale coscienza lavorano queste persone, indipendentemente dalle opinioni politiche legittime, nella ricerca del bene comune. Sarebbe più comodo stare alla finestra e criticare. Siamo stati anche ad incontrare i partiti politici che hanno la sede nel vostro territorio. Sono stati incontri chiari: «Dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». Ma non deve mancare la testimonianza dei cristiani. Poi la democrazia ha le sue regole. Ad esempio, a livello di nazione, anche se piccola, saremo invitati tra non molto ad esprimere dei pareri su tanti aspetti. Il problema etico principale in questo periodo è quello della salvaguardia della vita dal suo concepimento sino alla fine. Non basta dire «io non farei mai…», dobbiamo dire come pensiamo la società, dobbiamo osare… Poi si cammina insieme agli altri. Le sette lampade sono una sola lampada settiforme, perché l’olio che si metteva nella Menorah veniva alimentato da un’unica coppa. La lampada viene raffigurata a volte anche come rami di ulivo e prende sette forme: i doni dello Spirito Santo.
Concludo facendovi una duplice consegna: continuate ad essere un alveare dove si vive insieme, dove si programma insieme, dove ci si vuole bene; non spegnete le luci, mettete olio: la lampada della Parola, la lampada dell’Eucaristia, la lampada della carità e della testimonianza. Sia lodato Gesù Cristo.

Omelia nella celebrazione delle Sante Cresime durante la Visita Pastorale

Domagnano, 11 novembre 2017

Mt 25,1-13

(da registrazione)

La liturgia è piena di luci, di festa, di fiori, di canti… e di cuori che palpitano di emozione.
Che cosa accade? Rispondo perché sento che non possiamo fermarci all’esteriorità (solo un rito socialmente riconosciuto, che muove gente?) e neppure possiamo attardarci a commentare le emozioni soggettive.
In verità, chi abbiamo davanti? Adulti e ragazzi. Gli adulti sono presenti per dare il benvenuto ai ragazzi che entrano nel mondo degli adulti: la Cresima è il sacramento che fa adulti nella fede. Poi ci sono gli ospiti graditissimi che compiono un sincero atto di amicizia nei confronti dei ragazzi e delle loro famiglie. Persone variamente credenti (con varie gradazioni di adesione alla fede), però tutte disposte ad un’ora di raccoglimento. E questo li onora. Qualche altra persona è qui per un gesto di cortesia, comunque non senza una qualche adesione a quello che si sta celebrando. Inoltre ci sono coloro che aspettano fuori dalla porta. Ma c’è anche chi è consapevole di quanto sta per accadere.
Agli uni e agli altri vorrei dire qualcosa del mistero del Dio di Gesù, cioè del Dio di cui Gesù di Nazaret ha svelato il mistero più intimo. Comincio dal segno che contraddistingue i cristiani, un gesto che facciamo nelle più svariate circostanze, molto spesso – parlo di me – distrattamente, senza pensarci: il segno della croce. Un segno che contiene tre messaggi, concentrati come in una pillola, ma potentissimi. Primo messaggio: quando ci segniamo con la mano che sfiora il capo, scende sul cuore e poi unisce le spalle è per ricordare un Dio che abbraccia: un abbraccio che avvolge la totalità della persona. Secondo messaggio: Dio ha la forma della relazione. Per spiegare la relazione adoperiamo la più fondamentale delle relazioni: quella del Padre, del tu che gli sta di fronte, che è il Figlio, e dell’amore che fonde in unità l’uno e l’altro. Terzo messaggio: è un Dio che si è fatto visibile, che ha voluto che la relazione fosse visibile nel Figlio, che diventando uomo è Gesù di Nazaret. Quando facciamo il segno di croce esprimiamo queste affermazioni molto impegnative e molto originali.
Ho rispetto di tutte le religioni perché ognuna di esse è un sentiero che sale verso Dio, però ho scelto di essere cristiano, perché mi sembra che essere cristiano sia il top. Quando dico «nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo», mi metto dentro la loro relazione.
Propongo una sorta di “intervista impossibile”. Chiedo al Padre: «Chi sei?». Non lo vedo, non lo sento, sento parlare di lui, ma chi è? Il Padre risponderebbe: «Io non esisto, non esisto per me, sono totalmente vuoto, spento, di fronte ad un “tu”, rovesciato in colui che mi sta di fronte». Ma come? Adoriamo un Dio che è fatto di vuoto?
Poi vado dall’altra persona, quella che la tradizione e il linguaggio religioso cristiano chiamano “il Figlio” (si tratta di parole umane utilizzate per spiegare misteri), e gli dico: «E tu chi sei?». Lui risponderebbe: «Io non esisto, non ho consistenza in me, sono tutto in ascolto, tutto rivolto verso colui che mi sta di fronte, quello che voi chiamate il Padre. Sono totalmente immolato in lui». Allora vado dalla Terza Divina Persona, quella che noi chiamiamo “lo Spirito Santo”, che tra poco scenderà su di voi, e gli chiedo: «E tu?». Lui risponderebbe: «Anch’io non esisto; io sono la donazione, l’ascolto, l’immolazione reciproca, sono l’amore del Padre e del Figlio». Dopo questa intervista sono un po’ sbalordito. «Ma allora chi siete?». Loro mi rispondono: «Noi siamo nell’essere in relazione, nell’essere nell’altro; nell’altro troviamo noi stessi, la nostra ricchezza, la nostra esistenza. Le Tre Divine Persone vivono ognuna per l’altra. Non per sé! Usando il linguaggio di un maestro antico dico che la Prima Divina Persona è l’amante, colui che parte in questa danza d’amore, quello che noi chiamiamo il Padre; la Seconda Divina Persona è l’amato, lo Spirito Santo che è l’amore, il bacio che unisce il Padre e il Figlio. Il bacio è la cosa più muta che c’è. Quando baci non puoi proferir parola perché le tue labbra sono tutte impegnate nel significare l’amore che hai. Nello stesso tempo il bacio è il linguaggio più eloquente che ci sia. Quando dai un bacio ad una persona non hai bisogno di parlare, ma gli dici una montagna di cose, gli dici te stesso. Allora ecco che cosa sta per succedere: il bacio di Dio Amore si imprimerà su questi ragazzi e la loro fronte verrà profumata con il sacro crisma. Un simbolo, un segno esteriore, ma la grazia è tutta interiore, nel cuore. Cose troppo grandi queste! Sì, è vero. Irraggiungibili? No, perché son proprio fatte per noi. Mistiche, irreali? Certo, fanno ammutolire per la meraviglia. Un Dio che ci ama a tal punto da imprimerci il suo bacio per sempre, un bacio che non si cancellerà mai, che imprime il carattere, come ci hanno insegnato al catechismo.
Una sera, Gesù, si alzò da tavola – fu l’ultima volta –, prese un catino, ci versò acqua, si cinse di un asciugamano attorno alla vita e cominciò a lavare i piedi dei discepoli. Qualcuno fece un passo indietro: «No, Signore, questo no. Tu, lavare i piedi a me?» (cfr. Gv 13,6). Gesù rispose: «Tu non sai ora quello che io faccio, ma lo capirai dopo» (Gv 13,7). Questa parola Gesù, attraverso di me, la dice a voi ragazzi, a voi catechisti. Quello che sta accadendo non lo capite, ne capite un millesimo, però capirete, capiremo, magari tra tre anni, tra cinquanta. Capiremo. Quel bacio ci accompagnerà per tutta la vita.
Concludo con l’immagine bellissima del Vangelo di oggi. Ci sono dieci ragazze nella notte con una lampada, una piccola luce nell’oscurità della notte. Anche voi vi incamminate in una notte molto oscura considerando i tempi che ci aspettano. Vi inoltrate nella notte, ma avete una luce. Posso fare un augurio a voi ragazzi? Cercate di fare in modo che l’olio non venga meno. Inoltratevi nella notte. Ci siamo anche noi con voi, soprattutto la parrocchia. Vorrei tanto che voleste bene alla vostra parrocchia. Vorrei che frequentaste il gruppo parrocchiale. Se anche voi genitori vi avvicinate alla parrocchia, partecipate alla Santa Messa, pian piano lo faranno anche i ragazzi… Sia lodato Gesù Cristo.

Omelia nella S.Messa di apertura della Visita Pastorale a Domagnano

Domagnano, 6 novembre 2017

1Cor 1,1-13
Sal 22
Lc 5,1-11

(da registrazione)

Vi è sicuramente nota la motivazione per cui quest’anno ci dedichiamo alla lettura della Prima Lettera di San Paolo ai Corinzi. L’anno scorso avevamo letto il libro degli Atti degli Apostoli per vedere come la gioia del Vangelo aveva animato le prime comunità cristiane. Quest’anno abbiamo scelto di fare una sorta di zoomata su una comunità in particolare, quella di Corinto, comunità fervorosa e a volte un po’ irrequieta, comunità ricca di doni e di carismi, ma anche di tanti pettegolezzi e avversità. Una comunità reale. I primi versetti della Prima Lettera ai Corinti sono perfetti come inizio, starei per dire come “copertina”, della visita pastorale del vescovo alla vostra parrocchia.
Chi è il mittente della lettera? Che coscienza ha di sé? Chi sono io che mi rivolgo a voi in questo momento? Tra Paolo, l’Apostolo, e il vescovo Andrea che relazione c’è?
L’Apostolo si è presentato con il nome proprio greco-romano, Paulus (Paolo), (di per sé si chiamava Saulo, come l’antico re d’Israele). San Paolo ha preferito il nome Paulus, cioè “piccolo”. Un nome subito accompagnato dalla qualifica: apostolo. Una qualifica che esprime l’autorità che proviene dal fatto che è inviato, ambasciatore di Dio; ma, a differenza dei profeti biblici, Paolo è inviato da Gesù Cristo. Quindi l’autorevolezza di Paolo sta nell’essere chiamato per, secondo la volontà di Dio. Il vescovo Andrea che cosa può dire di sé? Che è un “piccolo”, che non ha altra qualifica se non quella che gli proviene dall’imposizione delle mani nell’ordinazione episcopale. Non viene con sublimità di parola, né con la presunzione di essere qualcuno; anzi, avverte profondamente di essere circondato di infermità, di fragilità e, tuttavia, in forza della successione apostolica, viene per proclamare che Gesù è vivo. Vorrei dirvelo con tutta la forza che ho dentro: Gesù è vivo! A volte questa certezza si offusca, è appannata, per questo vengo a “lucidarla”: Gesù è risorto, è in mezzo a noi. Poi vengo per confermare nella fede. Nel momento in cui svolgo il ministero, unito a tutti gli altri vescovi, posso darvi la garanzia. Tutto il corpo episcopale, insieme al Santo Padre, ci dà la garanzia assoluta. Inoltre, vengo per assicurare che lo Spirito Santo agisce, è all’opera. Questo lo credo per la verità della fede, ma la posizione che occupo di apostolo nella grande Chiesa diocesana mi fa imbattere tante volte in esperienze negative, per questo devo incoraggiare in questi tempi difficili. Oggi vediamo che le chiese si stanno svuotando. Ma lo Spirito del Signore è in mezzo a noi; siamo appena all’alba della Pentecoste. Il dopo-Gesù indica che siamo dopo la risurrezione di Gesù, ma Gesù è presente in mezzo a noi più di prima. Sono qui anche per ringraziare «il mio Dio»: questo modo di dire di San Paolo sta a dirci la necessità di un rapporto personale con il Signore. Perché ringraziare? Per il dono della grazia, il “dono del dono” (grazia vuol dire dono), l’eccedenza dell’amore di Dio in Cristo Gesù. San Paolo usa l’espressione «in Cristo Gesù» almeno 70 volte. Siamo proprio “collocati” in Gesù.
Chi sono i destinatari della lettera? Dove abitano? In quali condizioni di vita?
Paolo dovrà riconoscere, qualche pagina dopo, che «non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, molti potenti, non molti nobili, eppure, davanti a quella comunità di fratelli, Paolo trasalisce di stupore, di gratitudine, di gioia, di incanto, tra i Corinti. Il Signore si è scelto nella complessità di Corinto una comunità che si configura con tre qualifiche:
1. Chiesa di Dio. Noi siamo abituati ad avere uno sguardo giornalistico nei confronti della Chiesa, ma l’espressione Chiesa di Dio rimanda alla tradizione biblica, dove l’assemblea del Signore è il popolo convocato da lui per vivere nella sua Alleanza. I singoli gruppi cristiani, che a Corinto si riunivano nelle case per fare la cena del Signore, erano la Chiesa di Dio. Come la nostra assemblea di questa sera con Gesù Risorto. Non siamo in grado di vederlo, ma sentiremo la sua impronta nel cuore.
2. Santi per la chiamata. Dio ha scelto chi ha voluto liberamente. I suoi occhi su di noi ci vedono nella sua santità. Siamo usciti da lui come il Verbo, la Seconda Divina Persona, il tu che sta di fronte a Dio, la sua Parola. Anche noi siamo parole uscite dal suo cuore. Ognuno di noi, arrabattandosi come può nella vita, deve realizzare quella parola iniziale che ci ha fatto esistere, che ci dà consistenza. Se noi camminiamo sul raggio su cui siamo stati posti diventeremo santi.
3. Santificati in Gesù Cristo. Penso al dono della fede, cioè la nostra risposta, penso all’immersione battesimale, cioè il sacramento con cui siamo stati lavati, santificati, giustificati, separati dalla profanità del peccato. Sentiamo dentro di noi che siamo peccatori, ed è la nostra coscienza che ci avverte, ma non ne godiamo e ci rimettiamo sempre in quella consacrazione.

Eppure la comunità di Corinto soffre per le divisioni, le gelosie, i rapporti negativi. Questo è uno dei suoi mali. San Paolo scrive per aiutarli. Anche le nostre comunità hanno le loro difficoltà, non dobbiamo scandalizzarci. San Paolo diceva che siamo stati tutti rinchiusi nella disobbedienza per usare tutti misericordia (cfr. Rom 11,32). Allora usiamo misericordia, reciprocamente, e incoraggiamoci. Gesù ha detto: «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20). Notate che non ha detto «dove sono due o tre santi…»! Con questa gioia viviamo insieme questa settimana. Sia lodato Gesù Cristo.

Omelia S.Messa di chiusura della Visita Pastorale a Falciano

Falciano, 5 novembre 2017

XXXI domenica del Tempo Ordinario

Conferimento S. Cresime

Ml 1,14- 2,2.8-10
Sal 130
1Ts 2,7-9.13
Mt 23,1-12

(da registrazione)

«Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo» (Mt 23,11).
Ecco come Gesù ha voluto la sua Chiesa! Una Chiesa fraterna, umile, diaconale. Gesù ha voluto espressamente i suoi discepoli uniti tra loro, fino a formare una famiglia. Non li ha pensate uno ad uno, individualisticamente, staccati l’uno dall’altro (cfr. LG 9).
Come un celeste emigrante venuto dal Cielo ci ha portato lo stile della sua patria, che è la “comunione” che unisce il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo: la Trinità Santa a cui forse pensiamo poco, ma che abbiamo presente ogni volta che facciamo il segno di croce. La comunione, dono del Signore, si storicizza nella comunità. La comunione è dono dall’alto; la comunità è il nostro costante impegno, perché sempre da costruire e ricostruire. La Chiesa, in questo senso, è divina (come un Sacramento) ed umana.
Ecco la prima consegna che, al termine della visita pastorale, vi affido: siate sempre più comunità. Mettete ogni impegno nel fare unità attorno alla Parola di Dio e all’Eucaristia. Che la comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo diventi la vostra comunità. Non vagheggiate altri scenari: il Signore vi fa incontrare questi fratelli, queste sorelle, quelli della porta accanto, quelli che sono gomito a gomito con voi nei banchi della vostra chiesa. Non siete un club di persone che si sono scelte, “esclusive”, ma siete fratelli e sorelle che il Signore ha chiamato. Ecclesia, Chiesa, significa appunto l’assemblea di coloro che sono chiamati. È necessario, utile, bello che i fratelli si trovino insieme (cfr. Sal 132,1). Rispondete agli inviti del Signore, agli inviti del vostro parroco e dei vostri catechisti. La vostra parrocchia è la più bella del mondo perché è quella che il Signore ha pensato per voi! Fate lo sforzo di conoscervi di più, scambiatevi i vostri nomi, nel segno della pace. Accoglietevi gli uni gli altri senza giudicare. Prendete parte alle iniziative di formazione: non si finisce mai di essere discepoli, cioè “scolari”. Ma ci sono anche iniziative, altrettanto importanti, culturali, sportive, ludiche, conviviali: servono per stringere rapporti, per creare una rete di cuori, per sostenervi nei passaggi difficili della vita, per creare un tessuto sociale cristianamente ispirato. Lo desideriamo tanto anche per i nostri ragazzi e i nostri giovani chiamati ad affrontare la sfida di essere autentici cristiani nella società di oggi. Perdonate l’insistenza: Gesù non ha immaginato la sua Chiesa come una comunità di hippie, spontaneistica. Gesù – l’avete sentito nel brano evangelico appena proclamato –non contesta l’autorità di quanti siedono sulla Cattedra di Mosè (il magistero sinagogale), ma l’atteggiamento pratico di tanti maestri, atteggiamento incoerente: «Dicono e non fanno» (buoni propositi e disimpegno pratico, molto fumo e poco arrosto). La severità di Gesù non va contro la debolezza di chi vorrebbe ma non ce la fa, bensì contro l’ipocrisia di chi fa finta. Verso la nostra debolezza Gesù si è sempre mostrato premuroso, come il vasaio che, se il vaso non è riuscito bene, non butta via l’argilla, ma la rimette sotto e la plasma di nuovo, fino a che realizza il suo progetto. Gesù non sopporta gli ipocriti. Ipocrita e l’uomo di Chiesa che più si mostra severo e duro con gli altri, più si sente giusto, vicino a Dio. L’ipocrita non si accontenta di essere peccatore, vuole apparire buono. Possiamo certamente allargare l’ammonizione ha chi ha responsabilità nella comunità cristiana (preti e vescovi); la possiamo applicare anche a quei genitori che dicono e non fanno: mandano al catechismo e alla Messa i loro figli e loro non vi partecipano mai, danno una linea morale ai figli e, a loro volta, si concedono molti fuori pista. Gesù stigmatizza chi ostenta vanitosamente la propria religiosità, per farsi vedere, per sentirsi importante. Anche in una piccola comunità possono scattare meccanismi di questo tipo. Non dimentichiamo quello che Gesù ha detto: «Quando fai l’elemosina, non sappia la sinistra ciò che fa la tua destra; quando preghi non ostentare, entra nella cella interiore; quando fai un sacrificio, fallo con un sorriso sulle labbra…» (cfr. Mt 6,1-6). La vostra sia una Chiesa umile!
Nella Chiesa dovranno esserci certamente maestri, padri, leader, però scevri di atteggiamenti ipocriti, vanitosi e autoritari. L’autoritarismo è usurpazione, perché il Signore è l’unico maestro e capo. La vostra sia una Chiesa fraterna!
La vostra parrocchia non sarà dunque una Chiesa acefala, ma una comunità dove i rapporti sono vissuti in modo fraterno. Una società paritaria? Una società di uguali? Sì. Ma con una differenza. Il più grande è chi serve. Il più grande è chi ama di più. Allora, il più grande in una comunità forse sarà una mamma sconosciuta che lavora ed ama nel segreto della sua casa, una nonna o un nonno che è alle prese con i suoi acciacchi e prova a sorridere ai suoi nipotini; forse è il mio vicino di banco che affronta con dignità una diagnosi poco favorevole o una difficoltà lavorativa; forse è quel fratello o quella sorella che sono stati invitati ad assumere un incarico per la comunità e cercano di trovare il tempo per aderire. O forse ciascuno di voi che mette amore quando non c’è amore! Una comunità diaconale!

Omelia S.Messa al cimitero di Serravalle

Serravalle, 1 novembre 2017

(da registrazione)

Letture?

Non ero mai stato in questo camposanto e la prima impressione che ne ricavo è l’accoglienza: è molto avvolgente.
I nostri cari meritano non soltanto il rispetto, ma anche la nostra devozione, la nostra preghiera per loro. La forma della preghiera è triplice. C’è la preghiera di adorazione che si deve soltanto alla divinità, a Dio, l’unico Signore davanti al quale si piega il nostro ginocchio. Poi c’è la preghiera di venerazione, cioè quella che attribuiamo alla Vergine santa, ai santi e agli angeli, una preghiera nella quale chiediamo loro di pregare insieme con noi, di intercedere per noi, in quanto vivono nella pienezza della carità, pertanto, davanti a Dio, e possono accompagnarci. Infine vi è la preghiera del suffragio, quella che noi facciamo per i nostri cari defunti, per i quali chiediamo, nel mistero di Dio, che siano purificati e ammessi alla visione di Lui, faccia a faccia, e possano godere – questo è il destino – la felicità: Dio, infatti, ci ha creati per lodarlo, amarlo, goderlo in Paradiso, ma anche perché fossimo felici. Iniziando questo momento di preghiera eucaristica mi sono raccomandato di considerarlo un momento pasquale: dovremmo dirci gli uni gli altri “buona Pasqua”, perché siamo qui non per commemorare un caro estinto, ma, anzi, per entrare in contatto con Gesù Risorto. Allora questa non è una mesta cerimonia, ma la celebrazione della risurrezione di Cristo. Tanti segni (anche quando si celebrano i funerali) evocano la risurrezione, altrimenti le nostre preghiere sarebbero gesti patetici, fini a se stessi. Il primo segno sempre presente nel rito funebre è il cero pasquale: non è una candela come le altre, è un cero grande e decorato che viene acceso nella notte di Pasqua mentre si esegue un canto antichissimo: «Questa è la notte in cui Cristo, spezzati i legacci della morte, è risorto vincitore del sepolcro». Viene riacceso ad ogni funerale per manifestare la nostra speranza che il nostro fratello, la nostra sorella, che ha vissuto alla luce di Cristo, risorgerà con lui nella gloria. Questa è la nostra fede.
Non ho una certificazione della risurrezione per gli studi di Filosofia classica che ho compiuto, studi che mi hanno portato a considerare la sopravvivenza dell’anima, ma la proclamo sulla parola di Gesù: mi fido di quello che ha detto il Signore Gesù.
Un altro segno tipico sono i fiori. Al funerale, come nella celebrazione di oggi, portiamo dei fiori freschi e belli sulla tomba, talvolta trasformiamo la tomba in un giardino. I fiori sono segno del paradiso che nella Bibbia viene chiamato “giardino fiorito” e chiediamo al Signore: «Concedi al nostro fratello e alla nostra sorella di entrare in paradiso».
Consentitemi un’altra sottolineatura. Pensate che i pagani chiamavano questo luogo (il cimitero) necropoli che, tradotto dal greco, significa “città dei marciti”, non solo morti, ma addirittura “marciti”. Da quando Gesù è risorto il cimitero ha cambiato nome; il luogo dove sono i nostri cari non si chiama più necropoli, ma cimitero che vuol dire “dormitorio”, luogo dei dormienti. Ahimè, a volte si sta rischiando di tornare al concetto di necropoli perché si vedono sulle tombe, a volte, i simboli degli hobby, dei mestieri, al posto della croce e degli epitaffi. Noi diciamo che la persona si è addormentata, ma non per un sonno eterno. Gesù dice: «Il nostro amico Lazzaro si è addormentato, ma io vado a svegliarlo» (Gv 11,11).
E poi un altro segno, la deposizione. Di solito per un funerale il momento più straziante, il distacco definitivo, è quando la bara viene calata nella fossa e la persona più cara della famiglia vi getta sopra un lotto di terra. Ebbene, San Paolo, scrivendo ai cristiani, diceva: «Nessun seme rivive se prima non muore» (cfr. 1Cor 15,36), così è del nostro corpo. Lo si semina corruttibile, ma risorgerà incorruttibile. E noi diciamo: «Fa’ che il nostro fratello, la nostra sorella possa presentarsi a te trasfigurato nella sua carne mortale». Addirittura, intingendo l’aspersorio nell’acqua benedetta, il sacerdote dice: «Possano le loro ossa rifiorire».
Inoltre, i cristiani quando fanno questo tipo di celebrazioni cantano; magari la voce si strozza in gola, non si ha voglia di cantare, ma dobbiamo cantare: non deve mancare mai l’Alleluia. Ci sono canti che sembrano delle “ninne nanne”. Penso al Kyrie della Messa dei defunti in gregoriano, è una ninna nanna ed è tra le opere più poderose della storia della musica. Ci sono dei veri affreschi sinfonici nelle parole del Dies Irae.
C’è un detto ferrarese, un po’ malizioso contro i preti, che dice: «I preti cantano sul morto». Per dire evidentemente che i preti vivevano con le elemosine dei funerali, ma si può prendere il proverbio per il verso giusto, «il prete canta sulla morte»: è diventato prete per essere testimone dell’altro mondo. Così sia.

Omelia nella Solennità di Tutti i Santi

Cattedrale di Pennabilli, 1 novembre 2017

Ap 7,2-4.9-14
Sal 23
1Gv 3,1-3
Mt 5,1-12

(da registrazione)

La festa dei Santi ci introduce ad alcune giornate speciali. Siamo invitati dalla liturgia ad una straordinaria esperienza di comunione spirituale: la Chiesa militante – che siamo noi in cammino sulla terra –, la Chiesa in via di purificazione, che si prepara all’incontro “faccia a faccia” col Signore, e la Chiesa trionfante, che gode già della visione beatifica. Non tre Chiese, ma un’unica Chiesa. Per questo siamo pieni di speranza, nonostante tutto quello che accade ogni giorno. Consentitemi un paragone forse poco adeguato: chi traina i vagoni è il Signore Gesù e noi siamo uniti a lui in questo cammino. Formiamo un unico corpo, una unità saldissima e c’è reciproco scambio. Non viviamo in tre compartimenti stagni. La Chiesa pellegrinante, che siamo noi, gode dell’intercessione dei santi, si sente presa per mano. La Chiesa in purificazione gode delle nostre preghiere di questi giorni. La Chiesa trionfante fa risplendere la bellezza del mistero pasquale, inondata di luce, di canti, di fiori. Anche la liturgia di domani, che a volte viene scambiata per una liturgia mesta, in realtà è una liturgia pasquale, dove tutto ci parla della risurrezione: quella di Gesù e quella a cui siamo destinati anche noi.
Propongo una breve riflessione sulla solennità di oggi. Come si riconosce un santo? Dalla gioia, anzitutto. Il santo è una persona non necessariamente straordinaria, ma straordinariamente centrata sul tesoro che rende la sua vita felice, armoniosa. «Un santo triste – diceva una mia maestra – è un triste santo». Benedetto XIV, il bolognese card. Lambertini, aveva stabilito alcune regole per la procedura di riconoscimento della eroicità delle virtù di un cristiano. Le aveva sintetizzate in tre parole. Un santo è uno che fa la volontà di Dio sempre, subito e con gioia. Ecco le beatitudini! Poveri, miti, puri, affamati, perseguitati… Gesù li chiama “beati”, cioè felici.
Provo a dire qualcosa del mio rapporto con i santi. Oggi ci sono varie modalità, oltre ai libri, per conoscere la vita dei santi. Ricordo che mi ha commosso, di recente, il film sulla vita di Giuseppe Moscati, il medico napoletano vissuto all’inizio del nostro secolo, professore universitario che ha lasciato un’impronta nella storia della medicina. Egli amava immensamente i poveri. Erano i tempi della Prima Guerra Mondiale. Ha svuotato la sua casa per aiutare i poveri che assisteva personalmente.
Da ragazzo ammiravo padre Damiano De Veuster, un olandese andato missionario nelle Isole Hawaii, in particolare in un’isoletta, Molokai, in cui erano concentrati i lebbrosi. In lui, come in tanti santi missionari, ammiravo l’aspetto eroico, avventuroso e romantico. Il mio proposito da adolescente era: anch’io voglio essere santo. In seguito mi sono reso conto che è pura illusione pensare che la santità sia frutto dei nostri sforzi.
Da giovane mi ha soccorso l’incontro con Teresa di Lisieux, “la mia ragazza” (così la chiamavo). L’ho incontrata nei giorni della disillusione: non riuscivo ad essere santo, nonostante gli sforzi sinceri. La santità – concludevo – non è per me. Facevo un po’ come la volpe che non arriva all’uva e diceva che non era matura. Così mi mettevo il cuore in pace, restando nella mediocrità. Teresa mi ha insegnato la “piccola via” di mettere amore in ogni cosa e le “sei esse”, un detto da lei composto in sei parole che iniziano per “esse”: «Sarò santa se sarò santa subito». Una scoperta: la santità è un dono da accogliere nel momento presente, dono che Dio semina in ciascuno di noi, costituito da note da eseguire nel difficile spartito della nostra vita.
Veniamo ad oggi. Guardo il foglietto della Messa che avete fra le mani; guardo l’icona del frontespizio: sono riportati grandi santi “moderni”, personalità gigantesche, rese tali dalla grazia: don Bosco, San Giovanni Paolo II, Santa Faustina Kowalska, Santa Teresa di Calcutta, San Padre Pio… Ne godo. Metterei un’altra icona, se fossi l’editore del foglietto. Metterei i volti non solo di personalità straordinarie. Penso, ad esempio, alla signora Mercedes, una giovane sposa colpita da una malattia rara (la sclerodermia), lasciata dal marito con una bambina sordomuta. Questa giovane mamma che viveva il dramma della malattia mi ha insegnato – in quel periodo facevo l’animatore vocazionale in diocesi – che, oltre alla vocazione al sacerdozio e alla vocazione alla famiglia, può esserci anche una vocazione alla sofferenza. Poi ricordo un’altra ragazza, si chiamava Paola Volpe. Era non vedente, ma sapeva parlare di Gesù Luce ai miei studenti. Aggiungerei anche il volto di un sacerdote, don Dario, parroco di dodici minuscole parrocchie sull’Appennino parmense. Lo vedo santo perché cercava di vedere nei parrocchiani il lato positivo (facile vedere i difetti!), che annotava puntualmente nel Liber mortuorum. Leggendo le “adnotationes” sembrava che in paese fossero vissuti solo dei santi. Quando si recava in città, a Parma, dava tutto quello che aveva ai poveri e non aveva più i soldi per pagare il biglietto di ritorno. Inoltre, era capace di stare – senza inquietarsi – mezza giornata bloccato dalla neve: viveva con solennità l’attimo presente.
Faccio un’ultima osservazione: molti fra i santi sono giovani. Forse il Signore li porta presto con sé perché hanno raggiunto la maturità? Forse vengono rapiti presso di lui per essere preservati da questo mondo? Domande inutili. Tante volte questi giovani santi vengono ricordati per la loro sofferenza e per la morte prematura, prima che abbiano “gustato” la vita fino in fondo, l’amicizia, l’amore… Ci si spaventa pensando: «Dio mi prende in parola appena riesco a dirgli che voglio essere suo». Pregiudizi, luoghi comuni, paure: pensieri da superare. Il Signore sa qual è il nostro vero bene. Dicevo che la santità è per i giovani; mi correggo: è per tutti, ma è certo che la santità rende giovani, perché porta a vivere gli aspetti più belli e caratteristici della giovinezza. Queste sono le qualità dei giovani: la generosità, perché c’è assenza di calcolo; la totalitarietà: o tutto o niente; l’audacia dei grandi progetti, perché i giovani spesso sono leggeri, senza troppe sovrastrutture e portati facilmente verso i sogni.
Concludo con le parole dell’Apocalisse guardando a voi: «Vidi…una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello». (Ap 7,9). Una folla immensa di santi. Ci siamo anche noi in questa grande carovana di cercatori.
Ricordiamo sempre che l’opposto del peccato non è la virtù, ma la fede: credere in ciò che il Signore saprà fare in ciascuno di noi quando gli diciamo il nostro “sì”.