Omelia XIV domenica del Tempo Ordinario

Nebbiù di Cadore, 8 luglio 2018

Campo adulti Azione Cattolica

Ez 2,2-5
Sal 122
2Cor 12,7-10
Mc 6,1-6

(da registrazione)

Questa pagina del Vangelo mi porta ad un ricordo autobiografico. Vivevo quasi tutto l’anno in Seminario e diventavo un po’ estraneo ai paesani di Stellata di Bondeno (FE), mio paese di origine. Quando ero ormai grande e comparivo in paese durante le vacanze estive, mi chiedevano di chi fossi figlio. «Sono il figlio dell’ortolano», rispondevo. «Da dove ti vengono queste cose? Dove le hai imparate?», mi chiedevano allorché mi sentivano suonare o parlare in chiesa, quando il parroco mi invitava a riferire qualche pensiero. Immagino più o meno così Gesù di Nazareth che torna al suo paese. A Nazaret, è evidente davanti a tutti che si deve fare un primo bilancio della sua attività, del suo ministero in Galilea. È chiara la sua potenza, così come la presenza dello Spirito in lui, la sapienza, la parola autorevole, i miracoli… Ma c’è di più. Gesù, con quello che fa e che è, sconvolge le categorie mentali della gente che viveva una quieta esistenza religiosa e sociale. Con tutto quello che Gesù fa e dice, non fa altro che provocare le persone, le chiama in causa, perché tutto è finalizzato ad un incontro più attento con lui, un incontro che va al di là dell’anagrafe, perché vorrebbe suscitare in loro la fede. Ecco allora che Gesù manifesta la sua profonda identità e i compaesani restano semplicemente sconvolti. Non per i contenuti dell’insegnamento, ma per la misteriosità di quello che gli accade. «Sei il figlio di Giuseppe, il carpentiere; Maria, tua madre, è in mezzo a noi; i tuoi parenti, la tua tribù sono qui…» (cfr. Mc 6,3). L’evangelista Marco usa un verbo un po’ strano: il verbo «scandalizzarsi», che noi adoperiamo nel suo significato di “restare male per un comportamento”; ma il verbo «scandalizzare» di per sé significa «inciampare». Anche nel Padre Nostro c’è un versetto un po’ tormentato: «Non ci indurre in tentazione». Esso sta per «fa’ che non facciamo passi falsi, che non mettiamo il nostro piede in una tagliola, che non inciampiamo – appunto – in uno scandalo». Gesù, quindi, fa sì che i suoi concittadini, avendolo visto nascere e crescere sotto i loro occhi e conoscendo bene la sua famiglia, restino sbigottiti, meravigliati. Tutto questo avrebbe dovuto azionare in loro un movimento verso la fede, un processo di fede. Invece si bloccano. Sarebbe molto bello che ogni domenica ascoltando il Vangelo restassimo meravigliati. Bello anche se certi vangeli mettessero degli interrogativi dentro di noi. A me piaceva molto quando mio babbo, rincasando dopo la Messa domenicale, confidava di non essere d’accordo su alcune parabole di Gesù (per esempio quella degli operai dell’ultima ora). Forse voleva solo provocarmi e vedere se riuscivo a rispondere. Qual era la soluzione nella mia famiglia? Era quella di restare con l’interrogativo… Ciò è positivo: vuol dire che il Vangelo inquieta, fa meraviglia, ci si accorge che viene da altrove, che gli “stellatesi” non hanno le categorie per capire, perché è una sapienza che viene da oltre. Per questo c’è bisogno di incaricati, del parroco, che spieghino le Scritture. Invece i nazaretani vogliono normalizzare Gesù, lo vogliono mettere dentro i loro schemi, perché diventi innocuo, perché, tutt’al più dica cose edificanti, ma non provocanti. Gesù è amareggiato; vive un momento di sconforto in cui gli esce un pessimo proverbio (che circolava già): «Nessuno è profeta in casa sua» (cfr. Mc 6,4). Tuttavia, Gesù non si fa miracoli addosso, il suo potere taumaturgico non è un fluido incontrollabile (anche se domenica scorsa abbiamo sentito che guarisce una donna che gli tocca il mantello… ma lui se ne accorge). E i miracoli non li compie per lasciare a bocca aperta le persone o per attirare narcisisticamente l’attenzione su di sé. Il miracolo che Gesù compie è sempre per condurre alla fede.
Il Vangelo si chiude dicendo che Gesù fa lo stesso qualche miracolo. A Nazaret non poteva compiere nessun prodigio, ma «solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità» (Mc 6,5-6a).
Gesù, però, non si ferma, va oltre. Conclude il Vangelo: «Percorreva i villaggi dintorno insegnando» (Mc 6,6b).
Incoraggiati dalla Prima Lettura di Ezechiele, ciascuno di noi pensi che è un profeta. Quando si dice di una persona che è un profeta, spesso si immagina che riesca a predire il futuro: non è così. Profeta è colui che parla a nome di Dio. Il Signore lo chiama e gli dà questo impegno. A noi il Signore Gesù chiede di essere testimoni della sua risurrezione con la nostra vita. Allora, la nostra vita sia un incanto, una danza, un alleluia.
Nel “cartellone del campo”, stamattina ho disegnato un grande rigo musicale. Le note sono ciascuno di noi, posizionate in modo da comporre l’alleluia che è la nostra vita di risorti che hanno ricevuto il Battesimo. Se prestiamo attenzione, nella Messa ci sono tanti riferimenti alla risurrezione e alla Pasqua (cfr. Colletta: «O Padre, togli il velo dai nostri occhi e donaci la luce dello Spirito, perché sappiamo riconoscere la tua gloria nell’umiliazione del tuo Figlio e nella nostra infermità umana sperimentiamo la potenza della sua risurrezione. Per il nostro Signore Gesù Cristo…»).
Signore, eccoci: abbiamo tante fragilità, ma ce la mettiamo tutta, perché andiamo nel tuo nome, con la tua forza. «È quando sono debole che sono forte» (2Cor 12,10). Così sia.

Omelia nella XIII domenica del Tempo Ordinario

Montecopiolo, 1 luglio 2018

Sante Cresime per la parrocchia di Villagrande

Sap 1,13-15; 2,23-24
Sal 29
2Cor 8,7.9.13-15
Mc 5,21-43

(da registrazione)

Anzitutto un saluto a voi, cari ragazzi. Sono state molto belle le frasi che avete letto davanti a tutti noi. Basterebbe riflettere su quello che avete detto per capire la bellezza della Santa Cresima.
Saluto anche i vostri genitori, le madrine e i padrini, i familiari e gli ospiti che provengono da altri paesi.  Benvenuti! Che siate tutti nella possibilità di vivere bene quest’ora di preghiera.
In tutte le chiese oggi si è alzato il grido: «Gloria, gloria a Dio nell’alto dei cieli, pace in terra agli uomini di buona volontà». Un’invocazione di pace per tutto il mondo.
Mi soffermo sul brano del Vangelo di Marco. Do per conosciuto, apprezzato e trasformato in preghiera l’atto miracoloso che Gesù compie, prima verso la donna che aveva perdite di sangue e poi verso la figlia malata di uno dei capi della sinagoga, Giairo. Il problema per quella donna era enorme, non solo dal punto di vista fisico, ma anche dal punto di vista spirituale (per la cultura del tempo il sangue rappresenta la vita quando scorre dentro il corpo, ma è morte quando scorre fuori).
Mi soffermo più che sui miracoli sulla attenzione che Gesù ha per le persone. Parto da una mia personale esperienza. Ho fatto per molti anni l’insegnante e l’educatore in Seminario, poi mi sono ritrovato a fare il parroco e, improvvisamente, a fare il vescovo. Fra i problemi che ho dovuto affrontare subito è stato l’incontro con le grandi assemblee. Ricordo il giorno dell’ordinazione episcopale. La cattedrale di Ferrara era gremita e, come previsto dal rito, al termine dell’ordinazione dovevo attraversare la navata per dare la benedizione. Temevo molto quel momento. Inoltre, al termine della celebrazione, sono stato accompagnato in una sala del palazzo arcivescovile per salutare i presenti. Ho salutato tantissime persone, stretto mani, incrociato sguardi. È stata un’esperienza per un verso gratificante, ma anche di grande imbarazzo, almeno per me… In una tale occasione si vedono tante persone, ma non se ne incontra neanche una. Era una folla. L’incontro, invece, presuppone un minimo di rapporto.
Come ho detto, nel commentare il brano di Vangelo scelgo di non fermarmi sui due miracoli. Mi concentro su Gesù sommerso dalla folla. Lui sì che sa andare in profondità. Cerca l’ «a tu per tu». Gesù dice a Giairo – così si chiamava il papà della fanciulla: «Vengo con te». Ed è andato a casa sua, nel luogo della sofferenza. Poi ci sarà il miracolo; Gesù dirà: «La fanciulla non è morta, dorme» (Mc 5,39). Gesù ha fatto alcuni miracoli, ma il dolore non è risparmiato a nessuno. Torniamo all’incontro con quella donna che soffriva di emorragia. La folla travolge Gesù; tutt’attorno il vociare della gente; gli apostoli fanno largo al maestro e Gesù sta camminando svelto verso la casa di Giairo. Di colpo Gesù si ferma. Si gira. Si guarda attorno. Cerca gli occhi di una persona. «Chi mi ha toccato?» (Mc 5,30), esclama. Il Vangelo registra lo stupore degli apostoli che vedono Gesù attorniato dalla gente: in tantissimi lo avranno sfiorato! Gesù, invece, è attento alla presenza intimidita della donna. Anche se era tra tante persone che lo acclamavano, per Gesù esisteva solo quella donna che soffriva e che si è accostata a lui con infinita fiducia. Quella donna pensava: «Basta che tocchi il lembo del suo mantello… Non voglio spettacolarità, non voglio mettermi in evidenza. Mi basta sfiorarlo, perché ho fiducia in lui» (cfr. Mc 5,28). Qui c’è l’essenza della nostra vita di cristiani. Vorrei dire a tutti, a chi frequenta la parrocchia, ma anche a chi non ne ha l’opportunità per i più svariati motivi: «Gesù ti vuole incontrare». La parola “incontro” è la parola chiave della fede cristiana. Andare a Messa non è come andare ad una cerimonia. La Messa è un incontro. Se per caso una persona dovesse pensare di essere un peccatore, deve sapere di essere la preferita di Gesù. Se in questa chiesa ci fossero 99 santi e un solo peccatore, Gesù andrebbe dal peccatore!
Carissimi ragazzi, fra alcuni minuti riceverete una effusione sacramentale dello Spirito Santo. Esternamente non si vedrà nulla di spettacolare, ma succederà “tutto”. Gesù vi imprime il suo bacio sulla fronte. Domani non sentirete più l’umido dell’olio profumato sulla fronte, ma quel bacio non si cancellerà mai più. Da parte di Gesù l’amore per voi è garantito. Avrete lo Spirito di Gesù con voi per sempre. E che cosa fa lo Spirito Santo? Vi farà prendere la forma di Gesù. Crescendo, diventerete sempre più somiglianti a Gesù. Per il Padre voi siete già Gesù: «Tu sei mio figlio, mia figlia».

Omelia nella Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo

San Marino, 31 maggio 2018

Es 24,3-8
Sal 115
Eb 9,11-15
Mc 14,12-16.22-26

(da registrazione)

Dopo tre anni di cammino insieme, per l’ultima volta il gruppo dei discepoli giunge con Gesù a Gerusalemme. È la festa di Pasqua. L’insegnamento del Signore tocca ormai il vertice. È come se Gesù levasse definitivamente il velo di ogni mistero. Dice: «Tutto quello che ho ricevuto dal Padre ve l’ho fatto conoscere» (cfr. Gv 15,15). Ora sta per dare pieno valore alle sue parole con la sua morte e risurrezione. È la massima prova della qualità di relazione che offre agli uomini: «Dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).
Tutto si svolge durante una cena. La nuova alleanza viene sigillata non più come sul monte Sinai, fra tuoni e lampi, neppure più come al tempio in liturgie solenni, sfavillanti, con il sangue di agnelli offerti in espiazione, bensì tutto avviene nell’umiltà di un pasto tra amici. «Prendete, questo è il mio corpo dato per voi. Bevete, questo è il mio sangue, il sangue della nuova alleanza» (Mc 14,22-23).
Le letture bibliche di oggi sono attraversate – come avete potuto sentire – da un filo rosso che le attraversa tutte. Ricorre una parola che riassume il senso della festa del Corpus Domini; la parola è: alleanza, cioè legame, nodo che unisce ciò che era disperso, cioè comunione. Sì, nuova alleanza, rinnovata e definitiva modalità di comunione tra Dio e l’umanità.
Il rapporto col cibo è fondamentale per gli esseri umani, sia come sostentamento, ma anche come segno di unione tra commensali. Ci sono disturbi alimentari gravi che hanno la loro causa nella qualità delle relazioni pregresse, familiari. Siamo di fronte ad una relazione che nutre, un cibo che dice relazione.
Sull’altare c’è un piccolo pane bianco, con poco sapore, che è silenzio, profondissimo silenzio. Permettete una confidenza, un pensiero personale. Che cosa mi può dare questo pane? Per un istante mi affaccio sull’enormità di ciò che mi sta accadendo: Dio mi cerca, Dio è in cammino verso di me; poi, Dio arriva e assedia il mio cuore con i suoi dubbi, i miei dubbi, i miei trasalimenti, entra e trova casa in me. La comunione, allora, mi sembra essere più che un bisogno mio, un bisogno di Dio. Faccio la Comunione e Dio mi abita. Sono la sua casa: «Prendete – dice –, questo è il mio corpo. Bevete, questo è il mio sangue». Mangiare e bere il corpo e il sangue significa fare propria l’intera vicenda di Cristo, cogliere il suo segreto vitale. Quando Gesù dà il suo corpo vuole che la nostra fede si appoggi non tanto a delle idee, ma ad una persona. Non ha detto: «Ecco la mia mente a tua disposizione, la mia volontà, la mia divinità, il meglio di me». Semplicemente, poveramente, ha detto: «Ecco il mio corpo», cioè la mia persona, fatta di sguardi, di gesti, di ascolto, di cuore. Quando Gesù dà il suo sangue, vuole che nelle nostre vene scorra la sua vita, vuole che nel nostro cuore metta radici il suo coraggio e quel miracolo che è la gratuità nelle relazioni.
In conclusione, quando Gesù ci dà il suo corpo e il suo sangue vuole anche farci attenti al corpo e al sangue dei fratelli. Infatti, si dice del corpo che è «offerto» e del sangue che è «versato». Dunque, la legge dell’esistenza è il dono di sé e unica strada per l’amicizia è l’offerta. Allora, non indietreggiamo. Questa relazione nutre.

Omelia nella Messa di apertura della Visita Pastorale nelle parrocchie di Perticara e Miniera

1Pt 1,3-9
Sal 110
Mc 10,17-27

(da registrazione)

Sono venuto a dire che è vietato lasciarsi prendere dall’avvilimento per quanto riguarda la vita cristiana, la vita della Chiesa. L’avvilimento viene a coloro che pensano che il progresso della fede dipenda da loro. Si sentono talmente protagonisti che, siccome le cose non stanno andando benissimo, si sentono falliti. È autocommiserazione. Invece, dobbiamo avere salda la fede che è il Signore che suscita il suo popolo.
Questo è il secolo in cui il Signore ci ha messi a vivere.

1.

L’importante è che la comunità cristiana, anche se composta di pochi, poveri e piccoli, sia autentica. Se è autentica c’è la carità fraterna, c’è l’ascolto della Parola di Dio, si cerca di vivere in grazia di Dio e quindi si chiede perdono quando si pecca… Questa piccola comunità, ipso facto, diventa generativa.

2.

La seconda cosa che desidero sottolineare è che occorre vivere il Vangelo, “tirarlo giù dall’ambone” – per così dire – e portarlo nelle nostre case, nelle nostre vite. Per esempio, da ragazzino, quando ero seminarista, mi rivedevo spesso nel giovane che andava dietro a Gesù del Vangelo di questa sera e anch’io ripetevo i tre verbi che Gesù boccia: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere… la vita eterna» (Mc 10,17). Di per sé, sembrano tre verbi giusti. «Cosa devo», cioè il senso del dovere; «fare», l’impegno; «per avere». Tre verbi che nascondono delle attività. Far le cose per dovere va bene, ma per Gesù l’attenzione viene completamente spostata dall’area del dovere. È il servo che dice così, è il sottoposto che parla così. Gesù, invece, dietro di lui vuole persone libere, che fanno le cose per amore, con gioia. «Cosa devo fare»: tante volte ci impigliamo nel fare, pensiamo che il cristianesimo sia fare tante cose. Vedremo che Gesù dà un’altra prospettiva. «Per avere»: l’idea di accaparrarsi, di guadagnare, con le mie forze, con le mie performance. Invece, Gesù dice: «Segui me, non metterti tu davanti; non preoccuparti, guardami, sono io la tua ricchezza, il tuo tutto». Nel cristianesimo è importante il dovere, è importante il fare e anche l’avere la vita eterna, ma c’è una cosa che viene prima di tutto questo, che denuncia, in fondo, la pretesa di essere noi che facciamo, che esibiamo le nostre qualità, che mettiamo davanti noi stessi. Gesù dice: «La fede è soprattutto accogliere: accogli me! Poi, se ti innamori di me, farai le cose con impegno, con senso di libertà e con leggerezza».

3.

Sono a metà della visita pastorale; dopo essere stato in tante parrocchie posso dire che il nostro problema principale è quello della formazione degli adulti. Non siamo più adeguati al tempo attuale, perché la società ha fatto un certo percorso e pone tante problematiche nuove da affrontare. La nostra preparazione, invece, è rimasta al catechismo e siamo smarriti di fronte a questo squilibrio. Con la fede c’è la fiducia, ci si abbandona in Dio, ma è necessario anche dare risposte. A Novafeltria i giovani dell’ACG e degli Scout mi hanno rivolto domande molto complesse, ad esempio sui temi dell’omosessualità e del matrimonio gay. Poi, molti non sanno come è nato il Vangelo, quali sono le grandi indicazioni dell’evangelista Marco, di Luca, di Matteo, di Giovanni. Non si va oltre alla lettura domenicale. Invece, abbiamo bisogno di formarci. Ho saputo che quest’anno avete vissuto una bella esperienza di scuola biblica aperta a tutti. Vanno benissimo i percorsi di gruppo, ma occorre anche qualcosa che sia per tutti, dove si ricomincia a formare la nostra fede.

4.

Concludo con la vicenda della matita. Questa mattina, a scuola, le maestre hanno fatto fare una piccola recita ai bambini. Era la storia di una matita che ha cinque caratteristiche; si può considerare una metafora della nostra vita di cristiani. Per fare una matita, la prima cosa necessaria è che ci sia dentro la grafite; se non c’è la grafite non si può fare nulla. La grafite è l’anima. Sta a dire che bisogna mettere l’anima in quello che facciamo. La punta fa un tracciato. La nostra vita, anche la più umile, lascia un tracciato su un foglio bianco che è la vita. Penso alle vostre famiglie, ai figli, al lavoro… state lasciando tracce concrete. Poi, quando la punta della grafite si consuma, bisogna usare il temperino. Il temperino è fa male alla matita; rappresenta la sofferenza e il sacrificio, necessari per crescere e per raggiungere la meta. In cima alla matita c’è una piccola gomma, perché quando si disegna si può sbagliare. La gomma cancella per poter ricominciare. La quinta cosa è il Signore: noi siamo una matita nella sua mano.

Omelia nella S.Messa di apertura della Visita Pastorale nella parrocchia di Sant’Agata Feltria

Sant’Agata Feltria, 27 maggio 2018

S. Cresime

Dt 4,32-34.39-40
Sal 32
Rm 8,14-17
Mt 28,16-20

(da registrazione)

Anzitutto vi ringrazio per il saluto che mi avete rivolto attraverso le parole del vostro parroco. Sì, sarò insieme con voi una settimana intera; avrò la possibilità di incontrare tanti di voi… Sarebbe bello incontrare tutti, ma non credo sarà possibile in una settimana. Però il mio cuore è sicuramente disponibile ad allargarsi e spero di trovare un piccolo posto anche nel vostro. Poi saluto i familiari dei ragazzi che riceveranno la Cresima e gli ospiti, le persone che sono venute per partecipare alla festa.
In questo momento ho in mente di comunicare tre pensieri. Primo pensiero. Oggi è solennità, grande festa, della Trinità, di Dio Trinità di persone. Oggi festeggiamo in un unico abbraccio d’amore e di lode la Santa Trinità. È come se la liturgia della Chiesa ci accompagnasse in cima ad un’altissima montagna da cui possiamo vedere il panorama attorno. Questa domenica siamo sul cucuzzolo dell’anno liturgico e possiamo spaziare col nostro sguardo su tutti i grandi misteri della nostra fede, che siamo andati celebrando via via nel percorso dell’anno liturgico. Anzitutto, il mistero di Dio invisibile. Quanti lo cercano! Ieri, parlando alle monache agostiniane di Pennabilli, avevo messo a tema il cercare il volto di Dio, perché neanche loro, che pregano tanto, hanno davanti a loro il volto di Dio. Il volto di Dio è misterioso. Chi ha studiato teologia ha solo qualche millimetro di vantaggio, ma Dio rimane inaccessibile, trascendente. Eppure, nel cuore degli esseri umani c’è una nostalgia di lui, una nostalgia di infinito, c’è il desiderio. Noi colmiamo tanti desideri che abbiamo: il desiderio di andare a casa, il desiderio di fare il pranzo, il desiderio di vedere un film, il desiderio di una passeggiata, il desiderio di una persona. Però questi desideri sono tutte allusioni ad un grande desiderio che soltanto qualcosa di infinito può colmare. Bellissimo quello che disse Benedetto XVI ai nostri giovani riuniti in piazza a Pennabilli nella sua visita di alcuni anni fa, quando disse che il cuore è come una finestra da tenere spalancata sull’infinito. In quell’occasione chiese ai giovani di non smarrirsi nelle cose immediate, ma di restare aperti.
Nel primo tempo dell’anno liturgico siamo stati messi di fronte al nostro desiderio di infinito e abbiamo sentito l’annuncio che Dio ci è venuto incontro. Ecco il mistero dell’Avvento e del Natale. Poi, viene sulla terra la Seconda Divina Persona, il Figlio, quello che noi chiamiamo Gesù, detto il Cristo, cioè l’unto. Gesù dona la sua vita, vive quello che noi chiamiamo “Pasqua di morte e risurrezione”. Dal cucuzzolo di questa domenica possiamo guardare tutto il tempo della Quaresima e della Pasqua fino alla Pentecoste, quando Gesù ci rivela Dio amore ed effonde il suo respiro, il suo amore, lo Spirito Santo. Ecco, in un colpo d’occhio unico, in un unico abbraccio, racchiudiamo oggi il mistero di Dio. Potremmo fare della speculazione sul perché Dio è uno e trino, ma la Chiesa ci invita a non perder tempo, perché siamo di fronte ad un grande mistero. Proviamo a guardare che cosa fa il Padre, che cosa fa il Figlio, che cosa fa lo Spirito Santo. Non abbiate timore di avere un rapporto differenziato con le tre Divine Persone. Possiamo relazionarci col Padre; il Figlio non ha gelosie; lo Spirito Santo non ha invidie. Per sapere com’è il Padre basta sfogliare il Vangelo e osservare come l’ha raccontato Gesù; prendiamo, per esempio, la parabola del figliuol prodigo, che si dovrebbe dire parabola del Padre misericordioso. Poi, possiamo relazionarci con il Figlio, Gesù. Forse è più facile, perché Gesù è stato uomo come noi. Gesù si dona nella frazione del pane: «Prendimi… Mangiami». Molti di noi, tra poco, lo riceveranno, potranno parlare con lui, potranno anche tentare di ricostruire il suo volto. E, infine, possiamo metterci in rapporto con la terza Divina Persona.
Qui dico una parola specifica per i ragazzi della Cresima. Tra poco, cari ragazzi, davanti a tutti, solo voi direte le risposte alle domande che porrò: «Credete a Dio Padre onnipotente?». E voi risponderete, chiaro e forte: «Credo!». Nella Cresima si fa la professione di fede consapevole. Poi avete tutta la vita per scoprire quello che pronunciate in quella parola di cinque lettere, «credo!». C’è tutta la vita davanti per sviscerare, cavar fuori tutto quello che è implicato in quella parola. Io, insieme ai vostri parroci, stenderò le mani. È un gesto antico, che facevano gli apostoli per chiedere allo Spirito di Dio di scendere e la chiesa di Sant’Agata diventerà un cenacolo: lo Spirito del Signore scenderà su di voi. Il vostro padrino o la vostra madrina vi accompagneranno all’altare, diranno il vostro nome. La Cresima non è una benedizione, voi state per ricevere un sacramento, un’azione che compie il Signore su di voi, imprimendovi il suo bacio. Ecco il senso di quell’unzione con l’olio profumato (si chiama crisma) sulla vostra fronte. Quel profumo svapora; forse, alla fine della Messa, toccandovi la fronte non lo sentirete neanche più, ma il bacio rimane per sempre. Anzi, noi adulti siamo contenti adesso di ripensare alla nostra Cresima. Può darsi che usciamo di chiesa di buon umore, pensando allo Spirito che abbiamo ricevuto. Dopo l’unzione vi darò un piccolo schiaffo, che è una carezza, per dire «la pace sia con te… vai!». Alle Cresime ricordo sempre l’episodio di Sansone che, per mettere in crisi i Filistei, siccome non aveva un grande esercito, aveva catturato delle volpi, aveva legato alle loro code delle torce e le aveva incediate prima di lasciarle andare via. Le volpi incendiarono i campi di grano dei Filistei che dovettero cedere (cfr. Gdc 15,4-5). Quel piccolo schiaffo che vi darò sta ad indicare che voi siete “le volpi di Gesù” e a voi dico: «Andate… ad incendiare d’amore il mondo». Prendete coscienza che siete quelli che devono evangelizzare il mondo dei ragazzi.
Terzo pensiero. Che cosa viene a fare il vescovo con la visita pastorale?
Mi presento. Mi chiamo Andrea. Sono qui da quattro anni. Tre giorni fa ho salutato il Santo Padre, ho avuto il privilegio di poterlo incontrare. Gli ho detto che portavo i saluti di tutti e lui si è raccomandato che portassi la sua benedizione a tutti quelli della Diocesi di San Marino-Montefeltro. Attenzione, un’unica Diocesi. A San Marino ho trovato qualcuno che pensa che la Diocesi era solo di San Marino; ma ho trovato anche nel Montefeltro qualcuno che pensa che la Diocesi coincide con la Val Marecchia.
Il vescovo viene a dire che siamo uniti, formiamo la Chiesa. Per Chiesa spesso si pensano i sacerdoti, i vescovi, le monache. No, la Chiesa è ogni battezzato. Siamo tutti la Chiesa. Mi dispiace quando si parla della Chiesa in terza persona: «La Chiesa dovrebbe… ». Ciascuno di noi è la Chiesa. La Chiesa appoggia su Gesù. Noi sacerdoti siamo a vostro servizio. Una volta, nel presentarmi, mi è scappata una parola orribile. Dovevo spiegare ai bambini della scuola d’infanzia chi è il vescovo. Ho iniziato dicendo che è il successore degli apostoli, che è quello che va nelle parrocchie a parlare… Alla fine mi sono arreso e ho usato una parola non evangelica; gli ho detto che il vescovo è il capo della Chiesa. Allora i bambini hanno capito, ma ho sbagliato. Il vescovo non è il capo, il capo è Gesù. Noi sacerdoti siamo a servizio della comunità. Dobbiamo vegliare sulla integrità della fede ed eventualmente correggere le persone che non hanno chiaro il quadro della fede.
Un altro compito del vescovo è quello della mediazione. Il vescovo deve far in modo che ci sia l’unità. I nostri caratteri sono diversi, le culture diversissime, le sensibilità politiche lecitamente differenti, ma bisogna volersi bene (addirittura amare il partito dell’altro come il proprio). Il vescovo deve ricordare che, come ci sono le armonie delle voci che cantano, ci dev’essere l’armonia della carità. Il Signore ci vuole vestiti di carità.
Il vescovo ha anche il compito di far sì che la devozione sia fervorosa, ma corretta, senza esagerazioni. Bisogna imparare a gestire bene i doni di Dio.
Un altro compito del vescovo – questo è sublime – è prendere per mano la sua Chiesa come fa il babbo con la sposa quando la porta all’altare. Cosa vuol dire in pratica? Che il vescovo deve preoccuparsi della santità del suo popolo. Com’è felice il vescovo quando, leggendo i libri di storia del Montefeltro, impara a conoscere i santi della nostra terra. Abbiamo molti santi nel Montefeltro… ma dobbiamo diventare santi noi. Il vescovo dovrebbe raccontare di Gesù, infervorare, dire che è bello essere discepoli di Gesù. Poi, tra molti anni, vorrei potervi presentare in Cielo, tenendovi tutti per mano: «Ecco, Signore, la Diocesi di San Marino-Montefeltro, la tua sposa». Questa è la sostanza della preghiera quotidiana del vescovo. Alla recente assemblea generale dei vescovi italiani il Papa ci ha chiesto se preghiamo e ha detto che dobbiamo pregare di più, anche se abbiamo tanto da fare. «La cosa più importante “da fare” – ha detto il Papa – è la preghiera per il vostro popolo». Lo voglio fare! Così sia.

Omelia nella professione solenne di suor M. Francesca osa

Pennabilli, 26 maggio 2018

Dt 4,32-34.39-40
Mt 28,16-20

(da registrazione)

Carissimi,
un saluto speciale ai familiari di suor Francesca e un saluto alla sua nuova famiglia, le monache agostiniane “della rupe”, come si dice qui a Pennabilli. E un saluto a tutti voi, fratelli e sorelle, ai miei confratelli sacerdoti, e in modo particolare al Vicario del Padre Generale dell’Ordine Agostiniano.
Siete venuti per prendere parte ad una festa, una festa di nozze. A proposito, avete l’abito nuziale? Sapete qual è? L’abito nuziale è credere che siamo amati. La prima tonalità della preghiera consiste proprio in questo: credere che siamo amati. Veniamo in chiesa proprio per farci dire che siamo amati immensamente dal Signore.
Suor Francesca ha scritto nella prefazione alla brossura con la liturgia della professione solenne che «oggi qui si parla di noi». Ha scritto questo – suppongo – per dire che non è lei il centro, ma lo siamo tutti, in quanto tutti amati. Completerei questo pensiero dicendo che oggi non si parla di noi, ma si parla del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo. Sono loro all’origine della vocazione di suor Francesca e di ciascuna delle nostre vocazioni.
Avete sentito le parole del Deuteronomio: Dio va ad acciuffare un gruppo di beduini nel deserto per farne portatori nella storia della grande esperienza dell’essere amati. Il Padre dona il Figlio e dona il suo Spirito. «Gioisca il cuore di chi cerca il Signore» (Sal 104,3). «Cercate il Signore e la sua potenza, cercate sempre il suo volto» (Sal 104,4). Ecco, nel monastero non si fa che questo. Nel monastero si svolge l’esistenza nella ricerca del volto del Signore; è la ricerca di chi avverte una chiamata interiore: «Di te ha detto il mio cuore: “Cercate il suo volto”; il tuo volto, Signore, io cerco» (Sal 26,8). Nel monastero abitano coloro che fanno parte della generazione di quanti lo cercano. Lo cercano nella preghiera, passano anni interi nella preghiera, anche con sforzi, ma sempre con sentimenti di amore, per scoprire di fissare il proprio sguardo, di immergersi, di perdersi nella bellezza di quel volto. Contemplazione. Lo cercano nell’umiltà, con il cuore dei piccoli del Vangelo, come i bambini che salgono sulle ginocchia di Gesù, come il pubblicano che «si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”… e tornò a casa sua giustificato» (Lc 18,13-14), come la povera vedova la cui preghiera giunge sino alle nubi. Lo cercano nella gioia, tutta la loro vita non può essere che gioia, perché è vita d’amore. E il Signore non può non portare a pienezza la loro gioia, svelando loro il suo volto. «Gioisca il cuore di quanti cercano il suo volto», gioiscano anche se c’è da soffrire. La vita di amore non è forse anche vita di trepidazione, di ricerca, di ansie, di tormenti? Ricordate la fanciulla del Cantico dei Cantici? Lo cercano insieme. Ecco «quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme! È come olio profumato sul capo, che scende sulla barba, sulla barba di Aronne, che scende sull’orlo della sua veste. È come rugiada dell’Ermon che scende sui monti di Sion» (Sal 133,3). Insieme, perché insieme sono più facili il cammino e la salita. «Meglio essere in due che uno solo, perché due hanno un miglior compenso nella fatica. Infatti, se vengono a cadere, l’uno rialza l’altro. Guai invece a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi» (Qo 4,9-10). Così il Qoelet. Insieme perché sorelle, sorelle che vivono sotto il tetto dello stesso Padre e Gesù è tra loro, secondo la sua parola: «Dove due o più sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20). Insieme, per essere qui sulla terra un’immagine della Trinità, «come tu, Padre, sei in me e io in te – dice Gesù –, siano anch’essi in noi una cosa sola, […] e la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola» (Gv 17,21-22).
Il loro – parlo delle monache – è un modo di vita ecclesiale. La loro scelta non mira certo alla ricerca di una vita comoda o di interesse, di interesse per sé e di disimpegno per gli altri, come qualche volta volgarmente qualcuno pensa. Tantomeno cercano di soddisfare intimismi arbitrari, atmosfere mistiche, spiritualmente raffinate. È un modo di vita ecclesiale, perché è nella Chiesa, perché è della Chiesa, perché è per la Chiesa. Ovviamente viene da Dio, da Cristo, dallo Spirito. È una grazia da accogliere, custodire, trafficare, ma è stata affidata con tanti altri tesori alla Chiesa, luogo privilegiato della grazia. Questo modo di vivere è proprietà della Chiesa, da conservarsi nella Chiesa, da viversi per la Chiesa. È ecclesiale perché la Chiesa lo approva, approvando e accettando la domanda di coloro che sono chiamati ad affrontare questo genere di vita con dedizione totale. Dunque, la Chiesa approva questo modo di vivere, lo difende, lo aggiorna – come ha fatto di recente – lo sviluppa, libera la grazia in esso racchiusa, ne favorisce le possibilità di santificazione e di nuova evangelizzazione. Ecclesiale è questo tipo di vita perché segno della Chiesa, segno di una Chiesa che sa di essere povera, perché non possiede che la Parola e il Sacramento. Una Chiesa che vuol essere vicina ai poveri, ai poveri di ogni tipo, e condividerne la condizione, promuoverli nello spirito delle beatitudini. È ecclesiale questo tipo di vita perché strumento della Chiesa. Pensiamo, ad esempio, ai Dodici che istituiscono i diaconi perché non è giusto – dissero – che noi trascuriamo la Parola di Dio per il servizio delle mense (cfr. At 6,2). «Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola» (At 6,4). Comprendiamo allora la parte che la vita di orazione, di intimità, di contemplazione, ha per l’efficacia dell’attività stessa, per la fecondità del ministero della predicazione. Ecclesiale ancora, di conseguenza, perché esigenza, necessità della missione della Chiesa. Ci deve essere, ispirato da Dio, nella Chiesa chi prega per gli altri, chi prega con amore per coloro che non pregano, per coloro che non riescono a pregare. La preghiera salva, l’amore può tutto. Apostolicità, missionarietà, concretezza di questo genere di vita, se crediamo al primato della grazia, al primato dell’amore, alla indissolubilità del nesso tra azione e contemplazione. E, infine, ecclesiale è questo genere di vita perché incarna e rende visibile e attuale l’incontro con lo Sposo, il Signore. Cantava un’antifona: «Veni, sponsa Christi, accipe coronam quam tibi Dominus praeparavit in aeternum». Chi è la sposa cinta della corona? È la Chiesa, è suor Francesca e, in suor Francesca, tutti noi. Con la Chiesa, sposa del Signore, e con suor Francesca gustiamo le primizie di queste nozze, le nozze dell’Agnello. Godiamo in questo momento anche noi e chiediamo la grazia di cercare sempre nella nostra vita il volto del Signore, anzi di trovarlo. Così sia!

Omelia nella S.Messa di chiusura della Visita Pastorale nella parrocchia di Sartiano

Sartiano, 20 maggio 2018

At 2,1-11
Sal 103
Gal 5,16-25
Gv 15,26-27; 16,12-15

Pentecoste: è il vertice della storia della salvezza. Dalla creazione alla storia del popolo eletto, dall’incarnazione del Verbo alle giornate di Gesù sulla terra, fino alla sua morte e risurrezione… a che cosa mirava tutto questo? All’effusione dello Spirito Santo. E ora lo Spirito del Signore riempie l’universo.
La Pentecoste è anche il culmine dell’anno liturgico iniziato con l’Avvento. Lo Spirito Santo non si vede e, per raffigurarlo, si usano spesso metafore: la colomba, le lingue di fuoco, il vento gagliardo, il profumo… Con la sua invisibilità, lo Spirito Santo dice l’assoluta trascendenza di Dio. Dio è impossibile da catturare, come il vento. Impossibile da raffigurare, come il pensiero. Impossibile da circoscrivere, come un volto creato. Invisibile, semplice, trascendente, inaccessibile, eppure presentissimo.
Consentitemi il paragone: chi di noi, questa mattina, ha pensato all’aria con tutti i suoi componenti (ossigeno, idrogeno, ecc.)? Nessuno, ma abbiamo continuato a respirare. Così lo Spirito del Signore. Noi viviamo in lui. Lo Spirito è respiro del nostro respiro, anima della nostra anima.
Consentitemi anche un’altra metafora. Se fosse possibile avvicinarsi ad un bimbo ancora nel grembo della sua mamma, e si potesse parlare con lui, gli chiederei come sono gli occhi della mamma, il colore dei suoi capelli, il tono della sua voce. Quel bimbo mi risponderebbe: di chi parli? Eppure, quel bimbo è il più intimo che ci sia a quella donna. Così siamo noi rispetto allo Spirito di Dio. Lo Spirito è come il grembo nel quale siamo. Non lo vediamo, non lo sentiamo, non lo tocchiamo, eppure siamo intimi a lui e lui intimo a noi.
Tra le tante metafore che raffigurano lo Spirito Santo ne pesco un’altra. L’ho intravista negli scritti dei Padri della Chiesa, i grandi maestri dell’antichità. Essi rappresentavano lo Spirito Santo come “il bacio”. Proviamo a contemplare la Santissima Trinità, che nominiamo ogni volta che facciamo il segno della croce. Il Padre, che è la prima Divina Persona, è colui che ama per primo, è l’amante, è il principio dell’amore. Il Figlio, la seconda Divina Persona, è l’amato, perché il Padre, per tutta l’eternità, riversa il suo amore, anzi se stesso, in colui che gli sta di fronte, quel “tu” divino, che è il Figlio; in lui tutto è stato creato, anche noi siamo figli nel Figlio: il Padre amando il Figlio, ama noi, con lo stesso amore. Lo Spirito Santo, la terza Divina Persona, è il bacio, l’amore che unisce il Padre e il Figlio. Il bacio ha due caratteristiche fondamentali. Il bacio è la forma di comunicazione più alta che ci sia; con un bacio dici più di quanto dice un’enciclopedia; con un bacio dici tutto: «Tu sei vita della mia vita, respiro del mio respiro, tu sei il mio tutto». Quando due innamorati si baciano esprimono questo; quando una mamma bacia il suo bambino vuol dirgli che lui è tutto suo e lei è tutta sua. Nello stesso tempo il bacio è la cosa più muta che ci sia. Quando baci non puoi parlare.
Ecco lo Spirito Santo, il bacio di Dio: eloquente e silenzioso. Vorrei che questa settimana ci ricordassimo dello Spirito Santo e ogni mattina immaginassimo di essere svegliati dal suo bacio, un bacio che ci fa essere spirituali, che ci fa essere pietre vive di una Chiesa viva.
In occasione della Visita pastorale sono solito lasciare un messaggio, suggerire un impegno. Vi chiedo di essere “persone di spirito”, cioè persone consapevoli di essere piene della potenza e presenza dello Spirito Santo. In concreto: non solo restaurare – qui avete fatto grandi opere di restauro e altre vi aspettano, dalla statua di Sant’Antonio Abate al Tabernacolo e alla chiesetta di San Biagio – ma far rivivere. A che serve avere una chiesa splendida, restaurata, lucidata, se poi non ci sono i fedeli? Non siamo per il recupero dei musei: la chiesa la vogliamo riempire di presenze. Anche questo, dunque, è parte del mio messaggio: non solo restaurare, ma far rivivere. Così sia!

Omelia nella S.Messa di chiusura della Visita Pastorale a Novafeltria

Novafeltria, 13 maggio 2018

Ascensione del Signore

At 1,1-11
Sal 46
Ef 4,1-13
Mc 16,15-20

(da registrazione)

Anzitutto, un grande omaggio a tutte le mamme e un omaggio ancora più grande alla nostra Mamma del Cielo, Maria, la mamma di Gesù affidata a tutti noi.
Oggi è il 13 maggio, il giorno di una sua particolare tenerezza verso di noi, accaduta a Fatima, ma dono per tutta l’umanità.
Quella di oggi è una Messa all’aperto?
No. È una Messa sulla piazza, tra le case, dove si svolge il nostro vivere quotidiano.
È nostalgia della primavera?
In verità, l’iniziativa mira a rendere più evidente la prossimità del sacrificio di Cristo con la vita di tutti: la vita di chi va in chiesa e di chi non ci va; di chi non va perché forse non si sente degno o si sente giudicato, oppure di chi semplicemente, per ora, non crede sia così importante. Questa scelta è un gesto educativo: vogliamo educarci ad essere una comunità aperta, coraggiosa, accogliente, attenta al mondo circostante. Vogliamo essere lievito nella pasta; un piccolo segno, ma che ci porta a fare un passo dentro di noi nella direzione della testimonianza. Signore, mi affidi il tuo Vangelo, mi chiedi di gridarlo dai tetti (cfr. Mt 10,27). Ci sto.
La comunicazione del Vangelo è avvenuta storicamente, e avviene così anche oggi, per contagio, da persona a persona, da cuore a cuore. A poco servirebbe questa iniziativa se per primi non portassimo, in questo momento, nel cuore e nella nostra preghiera, il vicino di casa o l’inquilino del nostro caseggiato. Si incomincia sempre così, con piccoli gesti: un giudizio evitato, un saluto cordiale, un’opera di mediazione in un contesto di discussione, un po’ di pazienza per il volume troppo alto del vicino o per gli strilli del bimbo del piano superiore. E verrà il momento nel quale ci verrà chiesto: «Perché sei sempre di buon umore? Perché sei sempre disponibile? Perché sei così forte nei momenti di prova?». Allora sarà l’inizio di un dialogo, non propaganda. Semmai, irradiazione. Tutti sono candidati alla nostra amicizia. Ci sono periferie che aspettano il messaggio, pregiudizi da superare, persone che sentono troppo la lontananza della Chiesa. E la nostra audacia non apparirà come presunzione o arroganza, ma sarà unicamente la gioia di comunicare quello che abbiamo incontrato, l’umiltà della condivisione.
Al termine di questa Visita Pastorale ho incontrato, ahimè, pochissime persone, anche se erano tutte, in questi giorni, nel mio cuore e nella mia preghiera; anche nelle mie chiacchiere, quando mi chiedevano «come va?». «Sono a Novafeltria… Sapeste», rispondevo. E raccontavo le tante cose belle che ho incontrato. So che ci sono anche i problemi, le difficoltà, ma voi mi avete scelto di farmi vedere le cose più belle.
Desidero rivolgere un saluto a tutti coloro che sono impegnati nell’educazione. Proprio l’impegno educativo mi è sembrato la caratteristica di Novafeltria. Educare è anzitutto far crescere, perché ognuno dia il meglio di sé. Per sbocciare c’è bisogno di attenzione, di stima; senza questi atteggiamenti le potenzialità, i valori, i talenti, restano serrati, chiusi, implodono. Educare vuol dire anche introdurre nella realtà, nella concretezza della vita, con le sue problematiche, senza scansare i sacrifici che ciò comporta. Introdurre non vuol dire “mettersi al posto” di qualcuno, semmai “accompagnarlo”, dargli una mano. Poi, lo si affida alla sua responsabilità. Non vale tanto l’autorità, quanto l’autorevolezza. Ecco perché parlo di accompagnamento, di “dare corda” come si fa con gli aquiloni. Educare alla libertà, al prendere iniziativa, a guardare l’educatore Gesù (nel libretto che alla fine donerò a ciascuno di voi sono contenute le opere di misericordia accompagnate da un piccolo commento fatto in forma di preghiera… troverete una pagina dedicata a Gesù educatore; contiene dieci spunti). Educare vuol dire anche crescere insieme; a volte l’educatore si sorprende di essere cresciuto nell’educare. I bambini e i ragazzi che mi pongono le loro domande, mi mantengono giovane, mi costringono ad imparare anche le nuove tecnologie. Guai, se l’educatore si sentisse arrivato. La maturità, poi, è un mito. Dico ad insegnanti, allenatori, dirigenti sportivi, animatori, catechisti e soprattutto ai genitori: coraggio!
Un saluto particolare ai giovani. Mi hanno fortemente colpito con la loro lettera inviatami il giorno prima di venire a Novafeltria. «Stare nella Chiesa – mi hanno scritto – ci piace, se questo non significa solo entrare in chiesa». I giovani sono anche molto esigenti. Vogliono una Chiesa che sia accogliente verso tutti, che sappia parlare con un linguaggio vicino alle persone comuni. Gesù non respinge nessuno, nessuno che voglia camminare con lui. Hanno espresso anche perplessità, richieste di chiarimenti importanti. «Stare al passo con i tempi». Suppongo che non intendano l’appiattirsi alla mentalità corrente, annacquando le esigenze del Vangelo o abbassando il progetto dell’Altissimo, progetto che ci ha dimostrato nella sua Parola e anche nella Creazione. Ahimè, non è mancato, in passato, che i cristiani si siano adeguati alla mentalità corrente e alle pretese del potere. Una volta erano le pretese degli imperatori, oggi sono le pretese di certe lobby o di centri di potere che condizionano mentalità, culture, mode. C’è una cosa che mi ha molto colpito nella lettera dei giovani. Essi hanno centrato uno dei punti essenziali della nostra fede: la speranza cristiana. La speranza è un aspetto della nostra fede che celebriamo oggi, in modo speciale, con la solennità dell’Ascensione del Signore. «Sentirci dire – hanno scritto – che non tutto finisce con la morte, anzi che la morte è l’inizio di una nuova vita, più vera e piena nelle braccia di Dio, ci illumina e ci conforta». Non mi aspettavo, in una lettera così impegnata anche sui temi della educazione, della socialità e della società, una sciabolata di luce così accecante. I giovani vedono nel Vangelo che gli viene raccontato la dimensione del Cielo. Siamo fatti di Cielo, siamo fatto per il Cielo. Davvero le parole dei nostri ragazzi sono in sintonia con la liturgia. «Padre – abbiamo pregato – nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te». E poi: «Egli, il Signore Gesù, ci ha preceduti nella dimora per darci la serena fiducia che, dove lui è capo e primogenito, saremo anche noi sue membra».
Per voi giovani, per noi adulti, per tutti il richiamo degli angeli, i «due uomini in bianche vesti» (At 1,10), a non stare con la testa per aria, tra le nuvole, ma a scendere nel mondo, nella città degli uomini. È il richiamo all’impegno, al mettersi insieme, perché la volontà di Dio si compia in cielo come in terra.
Grazie all’amministrazione comunale, ai militari, a tutte le persone del servizio pubblico. Grazie alle tante associazioni e alle realtà culturali e di categoria. Grazie alle scuole, che hanno accolto benevolmente la mia presenza e il mio omaggio: per quello sono andato, non per fare propaganda. La cortesia è molto più della tolleranza, ma più di tutto è l’amicizia. Invito a lavorare insieme, ognuno col proprio dono, per il bene comune. Non pensiamo, come cristiani, a costruire una società parallela; vogliamo concorrere a costruire insieme la città degli uomini, sapendo che ogni battezzato, dove vive, lavora, soffre, insegna, impara, è la Chiesa, un “io plurale”. Come ognuno dei punti della superficie della sfera è in grado di reggere tutto l’intero, così ognuno di noi è la Chiesa. Con quale forza? Con la forza dell’impegno e della coerenza, ma non senza la forza che viene dall’alto di cui ci ha parlato oggi il Vangelo, che ci fa compiere cose grandi, più grandi di noi.
C’è chi prega insieme a noi, anzi per noi. Quelli che pregano per noi non sono retrovia, sono le braccia alzate, le mani giunte, le dita che snocciolano i grani del Rosario: quelle dei nostri anziani, dei nostri ammalati. Quasi un ricamo che avvolge Novafeltria e fa piovere benedizioni.
Un saluto grande ai bambini e ai ragazzi. Sono solito dividerli in due categorie. Ci sono i “ragazzi uffa”, quelli sempre scontenti, quelli per cui non individui mai il gioco adatto, quelli che non cominciano mai dalla materia più impegnativa, e ci sono i “ragazzi urca”, quelli che fanno le cose con slancio, con interesse, con curiosità, con entusiasmo. Ne ho trovati tanti a Novafeltria di “ragazzi urca”!
A loro e a tutti faccio la consegna finale di questa Visita Pastorale: «Siate fra la gente della vostra cittadina lievito che fermenta!». Così sia.

Omelia nella S.Messa alla GMG diocesana

Carpegna, 12 maggio 2018

At 1,1-11
Sal 46
Ef 4,1-13
Mc 16,15-20

(da registrazione)

Nei discorsi che ha tenuto durante l’ultima cena, Gesù ci ha preparati ad una modalità diversa di presenza tra noi. Da una presenza “di fuori”, storica, spazio-temporale, visibile, con tutti i suoi vantaggi e i suoi svantaggi (quanti hanno potuto gustare la presenza di Gesù visibile: mille persone? Quando un cantante, una personalità, il Papa incontrano le persone c’è solo quel gruppo che lo può abbracciare, toccare, sentire), ha annunciato una presenza “di dentro”, secondo lo Spirito, dandoci il suo respiro.
A dire il vero, un estremo tentativo di trattenere la presenza di Gesù visibile l’ha compiuto, ad esempio, Maria di Magdala, quando l’ha incontrato risorto nel giardino. Lei si sentì riconosciuta da lui, perché la chiamò per nome: «Maria…» e lo abbracciò; non lo voleva lasciar partire e Gesù le ha detto: «Non continuare a tenermi stretto così» (cfr. Gv 20,16-17). Sarà stata un po’ delusa. Lo saremmo stati tutti. Ma adesso è possibile trattenere Gesù in un modo nuovo, diverso.
Così anche gli Undici, sul monte, quando volevano trattenerlo e lui è apparso nella forma misteriosa del passaggio. Il linguaggio è tutto particolare; andrebbero fatte molte spiegazioni riguardo a questo “sparire” di Gesù. Attenzione, «tutto ciò che fu visibile del nostro Redentore – la sua tenerezza, la sua capacità terapeutica, la sua forza che infonde coraggio, il suo corpo – è passato nei segni sacramentali» (San Leone Magno). Quando io ricevo i sacramenti, incontro Gesù. Gesù Risorto si fa presente, agisce. So che molti restano scandalizzati, perché i segni sono così modesti che sbalordiscono. Possibile che il vescovo Andrea, insieme ai suoi colleghi sacerdoti, prenda in mano una fettina di pane, pronunci delle parole e Gesù decida di venire ad abitare nel dono di quel pane spezzato? Sì, Gesù si fa davvero presente. Eppure, il segno effettivamente è molto piccolo. Pensiamo alla semplice goccia d’acqua con cui si battezza un bambino; tramite essa, quel bambino viene tuffato addirittura nella Trinità: «Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Pensiamo al matrimonio. Due creature che vengono davanti all’altare e si promettono fedeltà per tutta la vita, che sono disposte a fondare una casa, a costruire futuro, e magari sono ancora impelagate in un mutuo per decine di anni… con la forza del sacramento potranno dire: «Ti amo per sempre».
C’è un’altra cosa importante che ha scritto Papa Francesco nella sua ultima lettera. Faccio un esempio. A volte si pensa di venire in chiesa, di concentrarsi, di creare un’atmosfera dentro di noi… Tutto questo può essere merito nostro. Invece c’è un momento in cui Gesù opera. È lui che agisce, anche se noi non sentiamo nulla, anche se il sacerdote fosse indegno… Gesù opera in noi. Allora, non è solo un’atmosfera. Pensiamo alla Confessione. Possiamo chiedere perdono a Dio quando vogliamo, lo possiamo fare tutte le sere con l’esame di coscienza e con l’Atto di dolore, promettendo di far meglio l’indomani. Dio ci perdona sicuramente. Ma c’è un momento in cui la nostra richiesta di perdono e la sua volontà di perdonarci si fa visibile, concreta. C’è uno, fuori di me, che mi dice: «Io ti perdono nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Non mi faccio io il mio perdono. E come è stato concreto il mio peccato, ad esempio lo schiaffo che ho dato (in senso morale), il mio dirmi prepotente, superbo, ecc. Così diventa concreto il perdono.
I sacramenti sono la presenza di Gesù Risorto. Noi diciamo che i sacramenti hanno anche un significato “epifanico”: fanno brillare quello che c’è già dentro di noi. Consideriamo il Battesimo. Con esso è come se il sacerdote aprisse una conchiglia, forzandola: dentro c’è una perla. Il sacramento è opera del Signore e mostra quello che è latente, che ha bisogno di essere manifestato (“epifania”). Allora tutti si fa festa per quel bambino, perché vediamo la perla.
Attorno a questo altare c’è una “epifania”, cioè si realizza sacramentalmente il destino dell’umanità: essere la famiglia dei figli di Dio riuniti attorno alla mensa. Un lembo di Cielo si crea. Va al di là del toccare e del vedere, ma è reale.

Omelia in occasione del funerale di mons. Pietro Corbellotti

Monte Grimano, 18 aprile 2018

2Cor 4, 14 – 5, 1
Sal 22
Gv 6,51-59

(da registrazione)

Il mio primo pensiero è rivolto ai miei fratelli sacerdoti: siamo una vera famiglia! La mancanza di don Pietro ci rende davvero più tristi.
Poi, il pensiero va ai familiari, ai parrocchiani di Monte Grimano Terme, di San Donato e di Montelicciano e a tutta la realtà dell’Istituto diocesano Sostentamento Clero, al collaboratore e amico fraterno Giampiero Piscaglia e a tutti i collaboratori, i consiglieri e i consulenti.
Ho pensato di partire con la meditazione, prima di attardarmi sulle letture bibliche offerte dalla liturgia, delle seguenti parole del Vangelo di Marco: «Li chiamò per mandarli a predicare e perché stessero con lui» (Mc 3,13-14). È finita la lunga giornata di predicazione con parole e opere, la lunga giornata di don Pietro, una giornata spesa interamente per il Signore; ma adesso egli vive in pienezza la chiamata a stare con lui, una chiamata già iniziata, già in essere dal primo istante del suo cammino vocazionale, quando, da ragazzo, lasciò il territorio della Carpegna per entrare in Seminario. Ripensiamo così alla vita, alla morte e al sacerdozio di don Pietro; sacerdozio che il Signore pensa come svolto nello stare sempre con lui.
Quello di don Pietro è stato un sacerdozio a contatto con la gente, un servizio quotidiano, concreto, generoso, veramente umano e cristiano, verso tante persone. Oltre 54 anni proprio qui, a Monte Grimano, verso innumerevoli volti, tante famiglie, da fratello tra fratelli. Quanti incontri, quanti episodi, quanti ricordi potrebbero donarci anzitutto i parrocchiani di Monte Grimano; materiale prezioso, da non abbandonare all’oblio.
Un sacerdozio speso, per oltre trent’anni, a servizio di noi sacerdoti, ricoprendo l’incarico di presidente dell’Istituto diocesano Sostentamento Clero, prima come fondatore e poi guida, insieme al collaboratore e amico Giampiero Piscaglia. Compito, quello nell’Istituto, che don Pietro iniziò e svolse con grande dedizione e amore. E la sua opera non può che continuare a dare frutti importanti.
Non un prete da scrivania (l’ho visto poche volte seduto alla scrivania), eppure ugualmente immancabile in ufficio, addetto ai doveri del suo incarico. Mattine spesso iniziate ai piedi della Madonna delle Grazie, nel vicino Santuario a Pennabilli. Oggi sono presenti qui molte persone di Pennabilli; ho ricevuto le condoglianze del Sindaco, Mauro Giannini, che mi pregava di estendere ai presenti.
Don Pietro arrivava a Pennabilli dopo una lunga traversata di questo Montefeltro incantevole, ma severo e aspro nei mesi invernali. Sempre presente. Uso questo aggettivo dopo aver chiesto a varie persone un attributo che qualificasse la personalità di don Pietro. Alla fine, ne ho scelto uno, quello che ho sentito più mio: quello di essere presente. Presente, sempre “sul pezzo” – come si suol dire – con autorevolezza e, quando necessario, anche con autorità. Situazioni concrete, a volte interlocutorie, soprattutto con i custodi e gli affittuari dei beni della Chiesa, beni custoditi con diligenza, appunto perché non propri, ma della comunità. Mai esoso, soprattutto con chi realmente era in difficoltà, ma esigente, questo sì. Presente alla vita diocesana, vicariale e di presidio; immancabile agli incontri di formazione e di discernimento comunitario. Presente con i suoi appelli ripetuti alla cura del bene più prezioso che abbiamo, i nostri preti giovani; con le visite ai sacerdoti anziani e anche col farne memoria al Vescovo («Eccellenza, non si dimentichi!»). Immancabili le soste nella Casa del Clero a Rimini, dove diversi dei nostri confratelli sono stati e sono ospiti. Si faceva presente sempre con un dono, con una parola di simpatia, di incoraggiamento, di affetto, al punto da stupirmi, le prime volte (il mio primo approccio con lui mi parve un incontro con una persona piuttosto burbera). In realtà ho potuto constatare il suo animo semplice, delicato, grande. Ha voluto bene ai suoi vescovi, senza adulazione. Per quanto mi riguarda, devo dire di averlo fatto un po’ soffrire, quando gli ho chiesto, dopo tanti anni di fedele servizio, di lasciare l’incarico all’Istituto. Ne ho patito anch’io, ma poi, sia lui che io, siamo stati contenti per le soluzioni adottate. Io in particolare mi sono sentito incoraggiato dalle sue parole pronunciate appena qualche ora prima della sua morte, che a me pareva del tutto remota, ma forse che lui presentiva come vicina, imminente. Mi accolse con parole molto lusinghiere che non oso dire in pubblico, ma molto dolci. Invece, ho il dovere di riferire il suo saluto: «Mi raccomando, mi saluti tutti i preti», cosa che faccio con tutto il cuore.
Le letture bibliche che abbiamo ascoltate ci fanno rivedere la vita di don Pietro come il miracolo della vita cristiana. San Paolo: «Piano piano il nostro uomo esteriore si va disfacendo, ma quello interiore si rinnova di giorno in giorno… Quando verrà disfatto il nostro corpo, nostra abitazione sulla terra, riceveremo un’abitazione da Dio, una dimora eterna» (2Cor 4,16.5,1). Ecco, noi abbiamo assistito, in parte, a questa vicenda, abbiamo visto in don Pietro l’estenuarsi delle forze, ma il crescere dello spirito nella comunione con Dio. Abbiamo constatato, come si constata per ogni uomo, la fragilità della nostra natura, dell’abitacolo della nostra anima, ma insieme, accanto, il progredire dell’uomo interiore.
E poi sentite Gesù: «Io sono il pane vivo disceso dal cielo, se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui» (Gv 6,48-49.54-56). Questo ritorno della dimora, della casa, dell’abitazione mi ha fatto tanto pensare, tra le righe, anche alla sua ultima vicenda del restauro della palazzina Carboni a Pennabilli; un progetto che ha seguito, che ha amato profondamente e che ha consegnato, con un sorriso straordinario, il pomeriggio del 4 febbraio, quando insieme abbiamo tagliato il nastro e siamo entrati nella nuova sede dell’Istituto. Ma quello che promette Gesù a don Pietro e a tutti noi è molto di più, non si può neanche paragonare. Le parole di Gesù valgono per ogni credente, dal pane della Parola, portato dal Signore, al pane della vita, da lui lasciato nel Sacramento. Pane che è promessa di vita, attuazione di reciproca inabitazione, pegno di resurrezione. Parole che sono per ogni fedele, per tutti noi, ma soprattutto per ogni sacerdote, perché il prete è associato a Cristo, immedesimato con lui: agisce in persona Christi, ripete e prolunga Cristo, ripresentandone il prodigio stupendo. Egli, il sacerdote, per la vita del mondo sfama generazioni di uomini. La Chiesa, d’altronde, non ha altro pane per la fame delle anime. Artefice di questa moltiplicazione nel tempo e nello spazio dell’Eucaristia è ogni sacerdote, è stato don Pietro. Noi celebriamo sul suo altare, grandezza e potenza sovrumana di questo uomo, fragilità e debolezza da un lato, sublimità e poteri dall’altro. Il sacerdote, nel sacramento della Riconciliazione, perdona i peccati. Viene da ricordare quello che dicevano i contemporanei di Gesù: «Chi ha dato una tale autorità agli uomini e li ha resi degni di ricevere il sacramento del pane di vita per il tempo presente e per il futuro?». Debolezza umana e forza divina. Così il sacerdote, così don Pietro.