Omelia nella Solennità di Pentecoste

Pennabilli (RN), Cattedrale, 31 maggio 2020

At 2,1-11
Sal 103
1Cor 12,3-7.12-13
Gv 20,19-23

Spirito Santo, sei inafferrabile! Nel contemplarti la mente si smarrisce e le parole sono insufficienti. Ci confonde la ricchezza che affiora nei testi liturgici. La Prima Lettura ci fa contemporanei e ci fa entrare dentro a quella “casa di fiamma” che è il cenacolo. In quella casa gli apostoli ci vengono raffigurati come ubriachi, ubriachi di gioia: così li vede la folla di Gerusalemme. Infatti, un vento coraggioso li ha spinti ad uscire e a proclamare parole inaudite. Poi il Salmo: «Del tuo Spirito, Signore, è piena tutta la terra». Tutto il mondo è gravido dello Spirito, che è anima di ogni cosa; il Signore si è preparato un popolo, in una terra nuova e in un cielo nuovo. Siamo noi che non ce ne accorgiamo (cfr. 2Pt 3,13; Is 43,19).
La Seconda Lettura ci parla dello Spirito che suscita carismi e doni. Ai piedi della croce rivendichiamo l’unità nella Chiesa, a Pentecoste viene in evidenza la diversità come ricchezza. Poi, il Vangelo: lo avevamo letto la II domenica di Pasqua. In quell’occasione ci eravamo fermati perlopiù a meditare e commentare l’esperienza di Tommaso. Veniva spontaneo rivederci in lui, nella sua difficoltà a credere. Questa volta ci soffermiamo sull’apparizione senza Tommaso. Vi invito a fare una “zoomata” sul catenaccio che teneva chiusa la porta del cenacolo. È evidente che raffigura quello che sentono gli apostoli in quel momento, prima dell’effusione dello Spirito Santo. Ma quel catenaccio è pure metafora della paura che paralizza, che rende esitanti, che toglie la libertà. La paura toglie la voglia di fare, di proporre iniziative, di raggiungere mete. Può anche avere la forma di una strana timidezza, per il timore del giudizio degli altri. Una volta si denunciava questo timore come “rispetto umano”, la paura di testimoniare la fede sul posto di lavoro o con i vicini di casa; non è tanto il pudore di non voler manifestare i propri sentimenti, ma è principalmente paura di essere giudicati. Dietro la barricata sta sempre il nostro io, che vuol fare bella figura. Questa riflessione vale per la nostra vita personale, per le nostre piccole paure, ma più in generale vale per la Chiesa di oggi. A volte sembra mancare l’audacia di percorrere vie nuove e di seminare il Vangelo. Ho visto persone ritrarsi nel cammino della vita spirituale perché spaventate dalle esigenze di Dio, esitanti per la paura che il Signore chieda troppo. Ma il Signore non porta via, anzi offre, dona. Ho visto vocazioni rattrappirsi, rinsecchire, per la paura di non riuscire, per la paura del “per sempre”. Ho visto situazioni peggiorare, incancrenirsi, perché non c’era il coraggio di prendere decisioni, per paura di mancare di riguardo a qualcuno. Quante barche sono rimaste ancorate nel porticciolo e non hanno preso il largo! La causa è sempre l’io che ha paura, si difende, si trincera, chiude con il catenaccio. Oggi, a Pentecoste, il messaggio è proprio questo: non avere paura. Il Signore dà, non toglie; incoraggia e fa compagnia… Risuonano le parole che abbiamo riascoltato nel Centenario della nascita di San Giovanni Paolo II: «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Lui solo sa cosa c’è nel cuore dell’uomo».
Ecco, la Pentecoste. Gesù entra e fa il dono più grande. Tutta la storia della salvezza, dalla prima pagina della Bibbia fino all’ultima, non è altro che preparazione, annuncio e conferma dell’effusione dello Spirito. Il disegno di Dio si completa nella Pentecoste. Affermo – ma non si possono fare classifiche di questo tipo – che la Pentecoste è la festa più grande: è l’autocomunicazione di Dio. Il Padre invia il Figlio, il Figlio effonde lo Spirito già nel momento altissimo e tremendo della crocifissione. La Pentecoste in Giovanni è anticipata nel momento in cui Gesù «consegna lo spirito e tutto è compiuto» (cfr. Gv 19,30). E ci fu effusione di acqua e di sangue, i due simboli dello Spirito. Gesù era innalzato da terra, era inchiodato sulla croce. Nel cenacolo si certifica questa effusione: «Ricevete lo Spirito…». Gesù alita, soffia sulla comunità messianica. Una comunità timorosa, impacciata, perplessa. Come sul monte dell’Ascensione, benché dubitassero, ha affidato loro il suo Vangelo: «Andate in tutto il mondo…» (cfr. Mt 28,19). Il Signore entra a porte chiuse, effonde lo Spirito e manda in missione. «Come il Padre ha mandato me – dice Gesù – io mando voi». Come l’ha mandato? Gesù è stato mandato come il figlio del carpentiere, il figlio di una fanciulla di Nazaret, «senza apparenza né bellezza (cfr. Is 53,2). Come furono mandati i discepoli? Tra loro non vi erano sapienti, nobili, potenti (cfr. 1Cor 1,26-27). Così il Signore manda noi, così come siamo, perché a nostra volta comunichiamo lo Spirito col dono di noi stessi. Signore, rinnova dentro di noi i tuoi doni, riverbero dell’unico dono, il dono del tuo Amore. Così sia.

Veglia di Pentecoste

30 maggio. Veglia di Pentecoste. Chiusura dell’anno pastorale 2019-20. Tutta la Diocesi di San Marino-Montefeltro è idealmente riunita per la conclusione dell’anno pastorale. Solo una rappresentanza potrà partecipare di persona nella cattedrale di Pennabilli (causa Coronavirus), e tutti in streaming, dalle ore 21.

È stato un anno davvero particolare. Il Vescovo Andrea Turazzi ha scritto: «Con tutti abbiamo sofferto; come tutti abbiamo sentito la solitudine; per tutti abbiamo pregato. Con gratitudine abbiamo imparato ad apprezzare il dono della fede e del Battesimo». Era appunto del Battesimo che quest’anno si sarebbe dovuta acquisire una rinnovata consapevolezza attraverso varie iniziative e alcuni obiettivi: per i genitori e le comunità la centralità della Pastorale battesimale, per gli adulti l’urgenza della formazione nei “laboratori della fede”, per tutti la presa di coscienza della dignità del laicato e la dimensione vocazionale-battesimale della vita cristiana. A fine anno ci si ritrova su questi argomenti con poche verifiche. «Eppure, mai come in questi mesi – aggiunge mons. Vescovo – abbiamo centrato la sostanza del cammino proposto. In effetti, si potrebbe cominciare dalla famiglia: è la realtà che ha portato di più il peso della pandemia (malattie, distacchi, bambini a casa, condivisione di spazi ed ansie), ma è stata, la famiglia, la risorsa che ha assicurato la tenuta sociale ed ecclesiale di questa emergenza (tanti in casa, mai troppi; aiuto affettivo e sostegno reciproco, ecc.). In famiglia si è pregato: famiglia “Chiesa domestica”. L’uso dei mezzi di comunicazione ha tenuto vivo il legame all’interno delle comunità: conforto e presenza, aiuto alla preghiera, nuove possibilità di scambio e di missione. La Chiesa è stata presente, una presenza discreta e capillare. Sono affiorate nuove forme di servizio e di ministerialità. Fra i tanti bollettini, protocolli e report c’è stata la continuità del servizio della Caritas. «Non si può che intonare davvero il “Magnificat” –scrive il Vescovo –, senza dimenticare chi non è più tra noi».

Nel contesto della preghiera in cattedrale si rinnoveranno le promesse battesimali e verranno condivise alcune testimonianze. I responsabili dei settori della pastorale formuleranno una preghiera intonata all’attuale momento di vita.

A tutti sarà possibile unirsi in streaming
sulla pagina Facebook della Diocesi Diocesi San Marino – Montefeltro
e sul canale YouTube “Multimedia San Marino-Montefeltro”

Ufficio Comunicazioni Sociali
Diocesi San Marino-Montefeltro

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Omelia nella Veglia di Pentecoste

Pennabilli (RN), Cattedrale, 30 maggio 2020

Rivolgo prima di tutto un saluto affettuoso a chi partecipa a questa Veglia in streaming: «Sentitevi dentro, partecipi di quello che viviamo ora nella nostra cattedrale».

1.

Nei nostri programmi era prevista per oggi, 30 maggio, l’assemblea di fine anno pastorale, dentro lo splendore della Pentecoste, con la presenza di Maria. Un’assemblea che qualificherei “quasi sinodale”, con un duplice scopo. Il primo è quello di raccogliere i frutti che il Signore ha fatto crescere nella nostra Chiesa per dirgli il nostro grazie, per dire con riconoscenza che c’è davvero il Signore in mezzo a noi. Gli Ebrei si chiedevano: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?» (Es 17,7). Poi hanno potuto vedere i prodigi dell’esodo… Allo stesso modo noi vediamo prodigi nella nostra amata Chiesa diocesana unita alla Chiesa universale. Il secondo scopo dell’assemblea sarebbe stato quello di fare il punto della situazione. La pandemia ha imposto una sterzata, ma possiamo dire che abbiamo vissuto alla grande! Ne è prova quello che ci hanno detto gli amici che hanno raccontato la loro testimonianza. In un recente articolo ho scritto che in questo periodo abbiamo assistito alla «rivincita degli infinitamente piccoli». Ognuno nel suo posto, ognuno con la sua sensibilità, con le sue possibilità, ha cercato in questi mesi di testimoniare, di amare, di capire quello che il Signore voleva insegnarci attraverso questo avvenimento.
In questi anni, come Chiesa diocesana, abbiamo preso l’impegno di mettere a fuoco il cuore, il centro della nostra fede. Qualcuno pensa sia una cosa un po’ astratta: non accetto questa obiezione. È la cosa più concreta che ci sia. Ogni volta che viviamo la Parola riconosciamo il Risorto e la sua presenza, come è stato per i discepoli di Emmaus, come è stato per Maria di Magdala, come per i sette apostoli sul lago… Abbiamo imparato ad accoglierlo nei segni della sua presenza (i sacramenti) e nella frazione del Pane (l’Eucaristia).
Puntiamo su quello che è essenziale della nostra fede. Il problema davanti a noi è grande: lo smarrimento della fede in tanti. Qual è il nucleo della fede? Abbiamo sdoganato una parola che sembrava appannaggio degli “addetti ai lavori”: la parola kerygma, l’annuncio che Gesù è vivo, è in mezzo a noi, ci è vicino, ci accompagna e ci salva. Una parola accompagnata da “potenza da parte di Dio”. Allora siamo stati confortati dal sapere che non siamo nel “dopo Gesù”, siamo nel pieno della presenza di Gesù. Attraverso vari incontri, ascoltando tante persone, abbiamo preso la decisione di rifare, in qualche modo, l’iniziazione cristiana. Abbiamo incominciato mettendo a tema “la vita nuova”, la vita da risorti, che scaturisce dal Battesimo. Non si trattava di fare una campagna annuale sul sacramento del Battesimo, ma piuttosto di vivere in profondità e consapevolezza il mistero pasquale. E lo si vive attraverso i segni che Gesù ci ha dato: il primo di essi è il Battesimo. Molti sono battezzati senza avere mai deciso di volerlo essere. Ci siamo proposti di curare con più impegno e intelligenza la pastorale battesimale: si è aperto davvero un mondo! Il 98% degli italiani, secondo la statistica dell’ultimo censimento (2011), sono battezzati. Tante coppie vengono a chiedere il Battesimo per il loro bimbo; spesso per tradizione, per fare una festa di famiglia al “nuovo arrivato”… Viviamo bene queste occasioni! In Diocesi già varie parrocchie hanno un gruppo accanto al parroco che aiuta nella catechesi prebattesimale e nell’accompagnamento delle giovani famiglie. Un tempo sembrava fosse sufficiente il parroco, ma le cose cambiano quando, insieme al parroco, una coppia di sposi è presente alla preparazione dei genitori. Una coppia sa intrattenere le famiglie, sa come si tratta un bambino, ma soprattutto è in grado di far nascere relazioni.
Davanti a noi, per il prossimo futuro, dobbiamo mettere a fuoco un’altra dimensione fondamentale: la missione. Siamo missionari! Nella lettura evangelica dell’Ascensione abbiamo letto che i discepoli «dubitavano…» (qualche traduzione riporta: «Alcuni dubitavano…» cfr. Mt 28,17). Eppure, Gesù affida loro la cosa più preziosa: il Vangelo. Non fa prima un ripasso dalle beatitudini fino alla fine del Vangelo: si fida. E gli apostoli sono stati formidabili. Quando si riceve fiducia esplode il meglio di sé. È il segreto dell’educazione, rapporto che fa crescere.
Cosa vuol dire essere missionari? Si tratta di animare ambienti, cultura, politica, società, con il lievito e il sale del Vangelo. In quest’opera saremo corroborati da un sacramento: la Confermazione. Negli anni successivi dovremmo ripensare la nostra vita di Chiesa come comunione nello splendore della Trinità. La Trinità non è un teorema teologico, ma la vita stessa di Dio partecipata a noi. Noi siamo chiamati a vivere e a tessere rapporti a mo’ della Trinità.

2.

Quando è nata la Chiesa? C’è chi dice che è nata a Pentecoste, epifania della Chiesa, con porte e finestre spalancate e Pietro con gli apostoli che proclamano la risurrezione di Gesù (cfr. At 2,1-15). Qualcun altro dice che l’inizio della Chiesa è in Galilea, dove il Signore ha chiamato i Dodici, le colonne fondamento (cfr. 1Tm 3,15; Ef 1,20) del nuovo popolo di Dio. Altri dicono che la Chiesa è nata formalmente con l’invio missionario di Gesù, perché la Chiesa è sacramento di unità del genere umano con Dio e degli uomini fra loro (cfr. Mt 28,18-20; cfr. LG 1).
Io propendo per un’altra opinione: la Chiesa è nata con il “sì” di Maria (cfr. Lc 1,34-38). Nel momento del “sì” di Maria il Verbo si è fatto carne, ha unito a sé la natura umana. La Chiesa è questo, l’umano e il divino insieme. La Chiesa è il Corpo Mistico di Cristo. Stiamo attenti a non dare un significato troppo debole alla parola “mistico”: è “vero corpo”! Ricordate san Paolo, quando viene fermato sulla via di Damasco: «Saulo, Saulo… perché mi perseguiti?». Paolo non capiva; non credeva di perseguitare Gesù, ma la Chiesa. La Chiesa è il Corpo di Gesù. Col Battesimo i credenti diventano realmente le membra di Cristo. Come le sue membra umane, anche le membra mistiche, che siamo noi, sono chiamate a partecipare alla sua azione redentrice: «Tu sarai le membra della redenzione». Guai profanare il Corpo Mistico, creare disunità dentro la Chiesa! Soffro quando nella Chiesa c’è disunità; è la stessa sofferenza che sento per la profanazione del Corpo Eucaristico. Siamo scrupolosi nel custodire le Sacre Specie – è giustissimo –, ma siamo altrettanto scrupolosi nel custodire l’unità della Chiesa? La prima forma di rottura dentro al Corpo Mistico è il peccato. Quando siamo in peccato mortale profaniamo il Corpo Mistico del Signore. Si può profanare il Corpo Mistico anche con la chiacchiera, con le divisioni, con le critiche e con la disobbedienza ai vescovi…

3.

Dedico l’ultimo pensiero personalmente a voi che fate parte delle équipe pastorali. Ho tre parole da dirvi. La prima: grazie. Grazie per quello che fate, a volte senza avere riconoscimenti particolari. Vi incontrate, fate programmi, lavorate, pubblicate, forse ricevete critiche, oppure fate cose buone e nessuno se ne accorge. Grazie davvero, ve lo dico a nome di Gesù! Vi incoraggio a continuare ad impegnarvi, a famigliarizzare tra voi, non perché diventiate un gruppo chiuso, ma perché acquisiate sempre più competenze; per questo vi invito a partecipare ai convegni, agli incontri regionali e nazionali (la Diocesi sarà contenta di dare un contributo economico per questo). La seconda: cercate il gioco di squadra. È molto bello che la Veglia di questa sera sia stata organizzata da tre Uffici (Ufficio Catechistico, Ufficio Liturgico, Caritas). Ringrazio il parroco della cattedrale di Pennabilli che si è messo a disposizione. Abbiamo ricevuto, sia a livello di Consiglio presbiterale che di Consiglio pastorale, l’invito a ridimensionare il numero delle iniziative, a concentrarsi solo su alcune, ma frutto dell’intesa degli Uffici.
La terza: fare tutto con spirito di servizio. Dico ai sacerdoti presenti, e lo dirò a tutti: siate più attenti agli Uffici pastorali, perché hanno un compito importantissimo: aiutare la Chiesa diocesana ad essere presente su tutta la realtà; cogliere le esigenze che emergono; offrire una parola sapiente per ciascun ambito: l’evangelizzazione, la catechesi, il culto a Dio, la carità, la famiglia, i problemi sociali e del lavoro, la scuola e la cultura, i giovani, le vocazioni, lo slancio missionario ad gentes, la salute, la comunicazione. All’interno di questi settori, poi, ci sono tante altre specificità. A volte, c’è una fluttuazione di nomi: si parla di Centro diocesano, di Ufficio diocesano, di Servizio diocesano. Preferisco maggiormente la parola “Servizio” alla pastorale.
«Lo Spirito Santo guida la Chiesa verso la verità tutta intera (cfr. Gv 16,13), la unifica nella comunione e nel servizio, la costruisce e la dirige mediante i diversi doni gerarchici e carismatici, e la arricchisce dei suoi frutti» (LG 4). Così pensiamo la Chiesa, la nostra Chiesa!

27 maggio – Allarga la tua tenda

Uno dei primi apostoli che abbiamo incontrato ci disse che era difficile parlare dello Spirito Santo, però non lo si può tacere. Fin dai primi tempi della vita della Chiesa ci si è serviti di immagini. Ne abbiamo già viste diverse: il fuoco, il vento gagliardo, la colomba. Questa sera ci parlerà dello Spirito Santo l’apostolo Pietro. Ironia! Pietro ha le chiavi in mano, ma tutto è spalancato: porte e finestre. Un terzo dello spazio e del colore della Pala descrive quello che sta fuori dal cenacolo, come a dire che tutto è diventato cenacolo. Lo Spirito ormai abbraccia ogni cosa: «Spiritus Domini replevit orbem terrarum (lo Spirito del Signore ha riempito la faccia della terra)».
Si intravvedono paesaggi di montagna, vegetazioni che si stagliano su di un cielo terso, guglie ed edifici che svettano sulla città… Tutto sembra dire che il potere delle chiavi non è dato per chiudere, ma per aprire: «Allarga la tua tenda Israele», così cantava un antico profeta.
Lo Spirito Santo ha spalancato il cenacolo sulla città e costringe i discepoli ad aprirsi, ad uscire fuori, a parlare in lingue diverse in modo che tutti possono capire. Ognuno che passa per la piazza sente gli ospiti del cenacolo parlare nella propria lingua e si domandano: «Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei? E com’è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa?». Tra la gente si diffondono stupore e perplessità. Qualcuno sussurra: «Questi che parlano, forse si sono ubriacati. Pietro – che Gesù ha costituito capo del collegio apostolico, pastore del gregge – va verso la folla e dice: «Non siamo ubriachi; sono appena le nove del mattino! Vi annuncio che si sono adempiute le profezie, promesse ai nostri padri. Lo Spirito di Dio è sceso sul mondo! Noi ne siamo testimoni. Dio ci ama immensamente e vuole che lo diciamo a tutti: agli Ebrei e agli stranieri». «È nata la Chiesa – dice Pietro: “Lo Spirito Santo, sceso visibilmente nel cenacolo dove noi eravamo rinchiusi per paura, ci dice di gridare la sua presenza al mondo intero”. Dio ha mandato a noi il suo Figlio: è Gesù di Nazaret, ucciso dal nostro rifiuto e poi risorto. Lui ci dona lo Spirito Santo che ci unisce e ci fa essere un segno per l’unità di tutti gli uomini, un vessillo innalzato per i popoli, proprio come aveva predetto Isaia».
«Vedete quanto amore?», dice Pietro. «Capite perché non possiamo tacere? Su questa salvezza indagarono i profeti, che predissero la grazia a noi destinata, cercando di scrutare a quale momento o a quali circostanze accennasse lo Spirito di Cristo che era in loro. E fu loro rivelato che non per se stessi, ma per voi, per tutti, si trovano ad essere ministri di quelle cose che vi sono state annunziate. Lo Spirito Santo da allora non ha smesso di plasmare la Chiesa. Molti la criticano o non la capiscono. Ci sono anche persone che la contrappongono a Gesù: “Gesù sì, la Chiesa no”. Succede perché non sanno andare in profondità, dentro al mistero che anima la Chiesa. Un paragone: il carbone e il diamante hanno la stessa composizione chimica ma, per effetto della pressione e della temperatura, il carbone opaco e nero si trasforma in un diamante trasparente e splendente. Così è avvenuto e avviene nella Chiesa. La Chiesa è un popolo radunato dall’Amore e trasformato dallo Spirito. Poi, come il cemento unisce le pietre, così la Chiesa è formata dai cristiani in unico edificio spirituale. Ne consegue che la Chiesa è il popolo del Messia, che ha per legge il comandamento dell’amore, ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, ha Cristo come capo, per finalità il Regno di Dio».
Pietro ci ha ricordato che la Chiesa è essenzialmente missionaria, partecipe ad ogni vicenda umana, tanto da poter dire che ogni gioia, ogni speranza, ogni dolore… in fondo gli appartiene. La Chiesa è cattolica, perché abbraccia tutti gli uomini e tutto l’uomo, tutte le sue componenti; si fa dialogo ed incontra ogni cultura ed ogni persona, anche di convinzione diversa; è disponibile verso tutti coloro che, pur credenti, non conoscono ancora il Signore Gesù. Verso tutti la Chiesa è impegnata a raccogliere i segni della presenza dello Spirito Santo.

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Nella giornata di domani dedichiamo la nostra preghiera alle missioni e ai missionari. Domandiamo al Signore che la tenda della Chiesa si allarghi sempre più. Continuiamo il gioco del “prediletto” della Madonna nella nostra famiglia.

26 maggio – Come colomba

Giacomo, detto il Maggiore, figlio di Zebedeo, fu chiamato da Gesù insieme al fratello Giovanni. Fu testimone privilegiato di alcuni episodi importanti della vita di Gesù: ha assistito al miracolo della risurrezione della figlia di Giairo, fu presente alla trasfigurazione sul monte Tabor e fu accanto a Gesù nel momento terribile del Getsemani. Sarà il primo degli apostoli a dare la sua vita per il Signore nell’anno 44, sotto la persecuzione di Erode Agrippa; quindi, fu il primo degli apostoli a ricongiungersi con il Maestro.
«Qui nel cenacolo – dice Giacomo il Maggiore – abbiamo pensato alla discesa dello Spirito Santo su Gesù al momento del Battesimo nel fiume Giordano. Era impossibile non ricordare quell’episodio di cui siamo stati anche noi testimoni. I Vangeli che raccontano il momento del Battesimo del Signore offrono testimonianze che concordano nel raccontare la presenza miracolosa dello Spirito su Gesù, ma oscillano su alcuni particolari. Ad esempio quello della colomba. Qualcuno dice che fu Giovanni Battista a vedere i cieli aperti mentre lo Spirito si posava su Gesù come una colomba; qualcun altro assicura che è stato Gesù a notare la colomba. Luca afferma esplicitamente che la colomba è lo Spirito Santo in apparenza corporea».

Vorremmo fare una domanda all’apostolo Giacomo: perché la colomba diviene simbolo dello Spirito Santo?
«Incontriamo il simbolo della colomba tre volte nelle Sacre Scritture», così esordisce Giacomo. «La prima quando la legge prescrive che la presentazione di un neonato al tempio sia accompagnata dall’offerta di un agnello oppure di una colomba o di una tortora. Maria e Giuseppe quando hanno portato Gesù al tempio hanno dato l’offerta dei poveri, la colomba. La colomba sta a significare un essere indifeso. Ritroviamo il simbolo della colomba nel Cantico dei Cantici. L’amato chiama la sua amata paragonandola alla colomba: “O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia… mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce”. Qui la colomba è simbolo di amore tenero».
«Dopo il diluvio – continua Giacomo – Noè mandò alcuni uccelli ad esplorare la distesa fangosa che emergeva poco a poco dalle acque. Il corvo non tornò; la colomba sì. Noè attese altri sette giorni e di nuovo fece uscire la colomba dall’arca e la colomba tornò a lui sul far della sera; ecco, essa aveva nel becco un ramoscello di ulivo.
La colomba annuncia che Dio ha deposto definitivamente la sua ira e ha deciso di offrire agli uomini un’alleanza di cui l’arcobaleno sarà il segno definitivo. Il Signore, come un guerriero, ha appeso al chiodo il suo arco. La colomba ritorna nell’arca mentre il corvo non si fa più vedere. Proprio per questa sua fedeltà diventa messaggera del rinnovamento del mondo dopo il diluvio. Il ramoscello di ulivo, appena germogliato, dimostra che il diluvio non ha reso sterile la terra ma l’ha purificata, l’ha, per così dire, creata di nuovo dall’acqua».
Caro Giacomo, sei stato molto convincente. Ora comprendiamo perché lo Spirito Santo viene raffigurato con la colomba. La colomba, poi, ci fa ricordare anche i frutti dello Spirito. Ce li ha elencati l’apostolo Paolo nella Lettera ai Galati: amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé. Nove frutti di un unico Frutto.

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L’impegno per la giornata di domani è: fare pace di cuore con chiunque ci ha creato o ci crea qualche difficoltà. Continuiamo il gioco del “prediletto” della Madonna nella nostra famiglia.

25 maggio – Fuoco

Mattia è l’apostolo che ha preso il dodicesimo posto nel gruppo, il posto lasciato libero da Giuda Iscariota. È la prima volta nella Chiesa che viene conferito il ministero ad un uomo sulla base dei requisiti che dimostra e che fanno prudentemente presumere ad un’autentica elezione divina. Tutto è successo nei giorni immediatamente precedenti la Pentecoste: Mattia viene ordinato apostolo perché è ritenuto un uomo giusto ed affidabile, perché ha seguito Gesù fin dall’inizio ed è un testimone della risurrezione. Per questi segni di vocazione, unanimemente riconosciuti, Mattia viene proposto e poi sorteggiato. Mattia ci parla di un altro simbolo dello Spirito Santo: il fuoco. Dicono gli Atti degli Apostoli che, durante la Pentecoste, si posarono come delle «lingue di fuoco» su Maria e su ciascun apostolo.

«Muovevo i primi passi alla sequela di Gesù – ci dice Mattia – quando udii Giovanni Battista annunciare: “Io vi battezzo con acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me, cioè il Messia, è più potente di me e io non sono degno neppure di sciogliere i legacci dei suoi sandali; ebbene, lui vi battezzerà in Spirito Santo e Fuoco”». «Fin da allora – dice Mattia – collegavo la realtà dello Spirito con il fuoco.
Il fuoco è una realtà che brucia quello che deve essere purificato e lascia intatto ciò che gli resiste, come i metalli preziosi: l’oro, l’argento, ad esempio. Noi, nel cenacolo – continua Mattia – abbiamo sperimentato il legame tra Spirito e Fuoco. Quelle lingue su di noi avevano veramente l’aspetto del fuoco! Ci è parso che quel Fuoco, senza dividersi nella sostanza, fosse tutto in tutti. La stessa presenza ha cominciato ad ardere in ciascuno, nel mio cuore, nel cuore di Pietro, di Giovanni, di Andrea, in tutti… Il Fuoco è un segno della comunione visibile che lo Spirito genera tra noi. Lo stesso Fuoco, nello stesso istante, nelle persone riunite insieme nel cenacolo.
L’apparire del Fuoco in forma di lingue ci spinge a parlare. I primi a sorprendersi della franchezza e della scioltezza delle nostre lingue siamo proprio noi. È un parlare non comune, quasi estatico, un parlare che non viene da noi». «Noi siamo plebei illetterati – ammette Mattia – ma parliamo con una forza che viene da altrove. La stessa che dà forma e contenuto alle nostre parole. Il fuoco indica l’amore; le lingue, il coraggio e la libertà nella testimonianza». Dobbiamo ringraziare Mattia per questo tassello che ci offre per completare il mosaico che ci dispiega chi è lo Spirito Santo.

Facciamo eco a quanto ci ha detto Mattia, ricordando i sette doni che lo Spirito Santo mette in ciascuno di noi, lingue dell’unico Fuoco effuso nei cuori. Parliamo di sette doni, ma il dono è unico: l’Amore, che pur si posa su di noi in maniera settiforme. Ecco i sette doni.
Sapienza: l’amore che dà sapore ad ogni tratto e ad ogni momento della nostra vita.
Intelletto: l’amore che aiuta a leggere in profondità ciò che accade nelle nostre relazioni con Dio e con gli altri.
Consiglio: l’amore che ci suggerisce decisioni e soluzioni più giuste e convenienti.
Scienza: l’amore che sorregge la fatica dell’apprendere e ci sorregge nel cammino verso la verità.
Fortezza: l’amore che rende decisi quando c’è da lottare e pazienti quando c’è da soffrire.
Pietà: l’amore che suggerisce parole e gesti migliori per esprimere i sentimenti verso Dio nella preghiera e verso gli altri nella carità.
Timor di Dio: l’amore che custodisce e difende l’amicizia con il Signore, come le palpebre con la pupilla. Il timore non è la paura di Dio. Al contrario, è l’amore che scaccia ogni paura.
Nel definire i sette doni la prima parola è sempre: amore!

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Per la giornata di domani proponiamoci di essere testimoni coraggiosi di Gesù, quando è necessario anche con le parole. Continuiamo il gioco del “prediletto” della Madonna nella nostra famiglia.

Omelia nella Messa crismale

Pennabilli (RN), cattedrale, 28 maggio 2020

Is 61,1-3.6.8b-9
Sal 88
Ap 1,5-8
Lc 4,16-21

1.
«Canterò per sempre l’amore del Signore. Il Signore ha trovato me/ con il suo santo olio mi ha consacrato/ la sua mano e il suo braccio mi accompagna/. E io canto: tu sei mio Padre/, mio Dio e roccia della mia salvezza». Così parafrasando il Salmo responsoriale.

Cari fratelli presbiteri,
è per questo che siamo qui: per cantare all’amore del Signore, per la predilezione con cui ci ha scelti, per la decisione con cui ci ha inviati, per la certezza con cui ci accompagna mediante il suo Spirito: «Lo Spirito del Signore è su di me». Ognuno lo canti con gratitudine. È in mezzo a noi il Signore Gesù: egli «è colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre» (Ap 1,5-6).
Cari fratelli e sorelle presenti, pregate con noi, grati per il Battesimo e per l’unzione che ci ha resi popolo sacerdotale, profetico e regale. Pregate per noi, perché sappiamo vivere il sacerdozio ministeriale a vostro vantaggio.

2.
Nella liturgia dell’Ascensione abbiamo riascoltato con quale tono perentorio il Signore ha inviato i discepoli. Erano ancora scossi, increduli e perplessi: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra, andate dunque!» (Mt 28,18-19). Satana aveva tentato di lusingare Gesù sul monte altissimo delle tentazioni, promettendo gloria e potere (cfr. Mt 4,1-8). È il Padre che dà a Gesù il vero potere sul monte Calvario, per la sua obbedienza e spoliazione sulla croce. Andate, dunque, «non abbiate paura, io ho vinto il mondo (cfr. Gv 16,23)». Ricordate la visione di Paolo dalla quale ha inizio il suo ministero in uno dei luoghi umanamente più impossibili e refrattari al Vangelo: Corinto (cfr. At 18,9-13)!
La nostra missione è la stessa di Gesù: su lui, prima che su noi, scese lo Spirito per fasciare ferite, asciugare lacrime, spezzare catene, annunciare la grazia del Signore. Lo Spirito ora si posa su «vasi di creta» (2Cor 4,7), su strumenti fragili, bisognosi di incoraggiamento, di motivazioni solide e di compagnia. La buona notizia affidata alla nostra responsabilità è «potenza di Dio» (Rom 1,16), brilla di luce propria al di là delle nostre meschine presunzioni!

3.
Qualche tempo fa papa Francesco ha messo in evidenza le amarezze che possono condizionare la vita e la missione dei presbiteri. Prima di rinnovare le promesse sacerdotali guardiamole con serenità per poi superarle. Stride che chi porta il lieto annuncio, la gioia del Vangelo, lo faccia con animo amareggiato. Non è l’apostolo un servitore della gioia (cfr. 2Cor 1,24)? Seguiamo con parole nostre, passo passo, le riflessioni di papa Francesco.

4.
La prima amarezza può affiorare sul nostro cammino di fede. C’era dell’amarezza anche nei discepoli di Emmaus: «Noi speravamo… ma con tutto ciò sono passati tre giorni…» (cfr. Lc 24,21). È l’amarezza che affiora pian piano sui fallimenti, le delusioni, le fragilità, l’irraggiungibilità della meta. Talvolta, viene a causa di situazioni di deserto: aridità nella preghiera, apparente inefficacia della grazia, ricadute… Bisogna guardare dentro a questa amarezza; non è detto sia una colpa: è quello che sentiamo. Va accolta: può essere una grande occasione. La radice sta nel confondere attese e speranza.  Un conto sono le attese, un conto la speranza. Le attese nascono dai nostri progetti, dai nostri calcoli, da noi stessi. Inutile dire che qui il nostro io è al centro e magari sogna ricompense, avanzamenti, gratifiche… Vien da chiedersi: «Che cosa cerco veramente?». È necessario essere schietti con se stessi. È una situazione pericolosa sia quando le attese sono compiute: «Anima mia, hai a disposizione molti beni per molti anni, riposati, mangia e bevi e datti alla gioia» (Lc 12,20), sia quando arrivano le delusioni. La speranza, invece, attende, ma attende da un Altro. Sboccia quando non ci si difende più e ci si arrende, riconoscendo il proprio limite. Non si guarda a se stessi. Si capisce che non ci si salva da sé. Nasce allora l’abbandono fiducioso: «Come un bimbo in braccio a sua madre» (Sal 131,2). Un autore spirituale antico – l’autore della “Nube della non conoscenza” – scriveva ai principianti nel cammino spirituale: «Quando ti accorgi di non potercela fare in nessun modo a ricacciare quei pensieri, mettiti tutto accovacciato dinanzi a loro, come un soldato povero e debole, sopraffatto in battaglia e ragiona così dentro di te: “È da pazzi continuare a lottare con loro, ormai sono perduto per sempre”. In questo modo ti abbandoni a Dio, mentre sei nelle mani dei tuoi nemici. Ti prego di prestare molta attenzione a questo espediente. Infatti, se tu lo metti in pratica, va a finire, secondo me, che ti sciogli in lacrime. Sono peraltro certo che questo stratagemma, se lo si intende bene e per il verso giusto, non è altro che la vera e la piena conoscenza di quel che sei in realtà: un essere miserabile e corrotto, ancor peggio che niente. Una tale conoscenza e coscienza di sé è l’umiltà stessa e questa umiltà fa sì che Dio in persona, nella sua potenza, scenda a vendicarti dei tuoi nemici e che nel suo amore infinito ti risollevi a sé per asciugare i tuoi occhi spirituali così come fa un padre con il proprio figlio che sta per finire nella fauci dei cinghiali o di orsi inferociti (Anonimo, La nube della non conoscenza, Áncora, 1981, p. 191).

La mia concittadina, santa Caterina Vegri (1413-1463), ha scritto un’operetta ascetico-mistica intitolata “Le sette armi spirituali”. Le prime due armi, indispensabili per la vittoria, sono la diffidenza di sé, la confidenza in Dio.

5.
C’è amarezza nella vita del prete quando si isola dagli altri. Solitudine ed isolamento sono due distanze di natura diversa. La solitudine cristiana è quella di chi – chiusa la propria stanza – si intrattiene con il Padre nel segreto (cfr. Mt 6,6). Ma allora è una solitudine desiderata, cercata, perché virtù. È la solitudine creata in noi dalla vita interiore e necessaria alla vita interiore. È virtù che fa spazio, assicura condizioni, crea capacità di accoglienza, di accumulo e di custodia, come una conca con l’acqua che sale pian piano e trabocca. E di che cosa se non di amore? Solitudine piena d’amore, per amore, per l’Amore! Ma poi dona, effonde vita: è una benedizione! Come i nevai sulle cime dei monti che diventano torrenti e dissetano le valli… Ben diverso da questa solitudine evangelica è l’isolamento. L’isolamento è un dramma quando riguarda la vita del prete. Un prete isolato prima o poi si spegne.
Può essere isolato rispetto alla realtà stessa della grazia: non sente d’essere circondato “da amici celesti”. Ritiene che la sua vicenda, le sue afflizioni, non tocchino nessuno. Tiene lontano lo Spirito Santo.
Può essere isolato rispetto alla storia. Tutto sembra consumarsi qui e ora: vede solo se stesso. Non ha l’abitudine a mettersi nei panni degli altri. Ogni cosa si apre e si chiude con lui, dimenticando il senso continuo della storia del popolo di Dio a cui appartiene: come se nulla ci sia stato prima e nulla dopo. Un sintomo di questo isolamento è la tendenza a non considerare chi l’ha preceduto, a non far crescere quello che è iniziato prima di lui. Accade, talvolta, che entrando in una comunità, faccia “tabula rasa” di quello che c’è, senza preoccuparsi di continuare il bene che non ha iniziato lui. Personalizza troppo la sua impronta, senza tenere conto di chi sta intorno e di chi verrà dopo. Non si sente parte di un cammino comunitario.
C’è un isolamento anche rispetto agli altri. Si manifesta come incapacità di instaurare relazioni significative di fiducia e di condivisione. Gli altri sono antagonisti. Gli succede di “paragonarsi” con gli altri. Il paragone è un demone che porta all’autoreferenzialità o alla tristezza. Ricordate Saul allorché sentì le fanciulle della città che gli attribuivano mille, mentre a Davide attribuivano diecimila (cfr. 1Sam 18,7)? Quando mi isolo i problemi sembrano unici e insormontabili: «Nessuno può capirmi… ». Questo pensiero finisce per ingigantirsi e rinchiude sempre più nel proprio io. Il demonio non vuole che mi apra, che parli, che condivida… Il prete isolato si tira fuori da tutto, amaramente. Forse è anche bravo e geniale, ma si avvita su se stesso: non ha la dimensione del “noi”.

6.
Ci sono, poi, le amarezze nella vita del prete date talvolta dal rapporto con i pastori. Si perdona il vescovo se sbaglia; si tollera se ha sensibilità diversa, ma fa soffrire quando è autoritario, magari in forma delicata: allorché ha fretta di imporre progetti, ha ansia per le iniziative facendole diventare il metro della comunione. Ma la comunione non coincide con l’unanimità delle opinioni. È vero, i preti devono essere in comunione col vescovo e il vescovo con i preti: non è questione di democrazia, ma di paternità.
Un altro atteggiamento del pastore che può suscitare amarezze è la non equità: la tentazione di circondarsi dei “suoi”, dei “vicini”, con il rischio di non riuscire a distinguere tra chi compiace e chi consiglia in maniera disinteressata. Il pastore deve tenere conto dell’opinione di tutti, salvaguardando la rappresentatività del gregge, senza preferenze. Questi atteggiamenti del pastore fanno soffrire il gregge che spesso accetta senza esternare nulla. Il Codice di Diritto Canonico dice: «I fedeli hanno il diritto, anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri pastori il loro pensiero su quel che riguarda il bene della Chiesa» (can. 212 § 3).
Ma c’è un’altra situazione nella quale il pastore può essere motivo di amarezza per il suo gregge: quando, preso dai molti uffici, dalle emergenze e dai problemi gestionali, trascura il “munus docendi”. Egli è maestro della fede, del retto credere… È suo compito vegliare «sulla integrità della fede, sulla santità della vita, sulla devozione autentica e sulla carità fraterna» (cfr. Messale Romano, Messa per la Chiesa locale, Post Communio).
Il popolo di Dio ha il diritto di avere dei preti che insegnano a credere e a pregare; i presbiteri hanno diritto di avere un vescovo che insegni a sua volta a credere e a sperare nell’unico Maestro, «via, verità e vita».
C’è abbondante materia per l’esame di coscienza del vescovo. Ma c’è anche l’invito ai presbiteri perché siano la sua consolazione. Così sia.

24 maggio – Vento impetuoso

Bartolomeo, proviene da Cana in Galilea, il paese dove Gesù andò per la festa di nozze in cui cambiò l’acqua in vino. Bartolomeo è l’amico di Filippo, del quale il Signore disse: «Ecco un vero israelita nel quale non c’è inganno». Alle parole del Maestro, Bartolomeo rispose con la professione di fede messianica: «Rabbi tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re di Israele». Notate: tre giorni dopo la chiamata di Natanaele, si celebrarono le nozze di Cana. «È difficile raccontare quello che ho provato nel momento della effusione dello Spirito Santo», dice Bartolomeo. «Hanno detto bene quelli che hanno parlato prima di me paragonando lo Spirito Santo al soffio del vento, colto nella sua potenza irresistibile, come una misteriosa forza di vita (tra l’altro è attraverso il vento che si diffonde il polline delle spore)». «Bisogna sperimentarlo – continua Bartolomeo –, questo soffio impetuoso, spesso continuo, nel deserto, per notti e giorni, dal sibilo a volte furioso e terrificante… Quella volta, nel cenacolo, udimmo questo vento fortissimo, immagine di una potenza divina. Era lo Spirito di Dio Creatore e Conservatore della vita. Il vento è come il respiro: “Se ritiri il tuo respiro, (le creature) muoiono e tornano nella polvere; mandi il tuo alito, – dice il Salmo – e vengono creati e rinnovi la faccia della terra”. Abbiamo imparato dalle Scritture che le azioni dello Spirito di Dio, sono le azioni stesse di Dio. I nostri profeti non hanno avuto bisogno, come i sacerdoti e i profeti pagani, di assumere droghe o di bere bevande inebrianti per cercare l’esperienza di Dio. La presenza dello Spirito di Dio la si sperimenta nella preghiera, nel silenzio e nell’interiorità. Se ascoltassimo quella voce!». Capitò al profeta Elia, mentre era in fuga dalla regina Gezabele, di raggiungere il deserto e, dopo il deserto, il monte Oreb e sentì come un grande frastuono. Ma Dio non era nel frastuono. Sentì la potenza di un vento gagliardo, ma Dio non era in quel vento gagliardo. Sentì come un terremoto, ma Dio non era nel terremoto. E poi ci fu un soffio leggero, impercettibile; in quel silenzio – raccontano le Scritture – Elia incontrò il Signore».
«Nel cenacolo – conclude Bartolomeo – si è sentita questa presenza sconvolgente. Anche la gente che passava accanto ne ha avuto esperienza diretta: “Venuto quel fragore, la folla si radunò e rimase sbigottita”. La voce dello Spirito si fa sentire forte e discreta nello stesso tempo!». Giovanni nell’Apocalisse scriverà: «Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese». Una parola che ripeté per ben sette volte, dopo aver interloquito con ciascuna delle sette Chiese dell’Asia Minore.

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Un impegno importante per la giornata di domani è ascoltare le buone ispirazioni dello Spirito Santo, attraverso cui Dio si fa sentire. Traduciamole subito in azioni concrete. Continuiamo il gioco del “prediletto” della Madonna nella nostra famiglia.

23 maggio – Spirito creatore

Tommaso non è solo l’apostolo che non voleva credere a Gesù, che ha avuto mettere le sue mani sulle ferite e il dito nella piaga del cuore. È anche l’apostolo che ha espresso solidarietà a Gesù nell’ultimo viaggio verso Gerusalemme con le parole: «Andiamo anche noi a morire con lui». Fu in seguito, proprio per la domanda che rivolse a Gesù, che il Maestro ebbe modo di dire: «Io sono la via, la verità e la vita». Dobbiamo avere molta gratitudine per Tommaso.
Lascio a lui la parola. «Sono l’apostolo che non voleva credere alla risurrezione di Gesù. Volevo capire, rendermi conto di persona. Per questo ho voluto mettere la mia mano nelle ferite dei chiodi. Ho sempre diffidato del misticismo e dello straordinario. D’altra parte, è un fatto unico nella storia delle religioni; Gesù, venendo da un altro mondo, non reca ai suoi alcun messaggio dall’aldilà, non svela loro segreti dell’altro mondo. Parla di impegno. Appare soltanto. Neppure adduce delle prove. Ma ci ha resi vedenti e credenti. Non è la nostra fede che lo ha risuscitato, ma la prova della sua risurrezione che ha smosso la nostra incredulità. Un nostro profeta, durante una intensa esperienza di preghiera, ha potuto prevedere gli effetti dello Spirito su Israele, riguardanti gli ultimi tempi, cioè, i tempi del Messia. Questo profeta si chiama Ezechiele». «Ezechiele racconta – è sempre Tommaso che parla – che la mano del Signore, un giorno, fu sopra di lui e lo trasportò in una pianura piena di ossa aride. Le ossa erano in grandissima quantità, coprivano tutta la grande vallata. Erano rinsecchite al sole. Il Signore chiese al profeta: “Potranno rivivere?”. “No, rispose Ezechiele, è impossibile!”. Il Signore soggiunse: “Queste ossa raffigurano il mio popolo: gente senza speranza, schiacciata sotto il peso dei loro peccati. Ma tu profetizza, annuncia loro: “Ossa aride ascoltate la Parola del Signore; il Signore dice: io farò entrare in voi lo Spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo Spirito”». «Ezechiele – ci racconta Tommaso – profetizzò e vide un movimento di ossa che si accostavano l’una all’altra, ciascuna alla sua corrispondente. Sopra le ossa rispuntarono i nervi, la carne e la pelle, ma ancora non vi era spirito di vita in loro. Il Signore lo invitò a pregare di nuovo: “Spirito, vieni, soffia dai quattro venti su questi morti, perché rivivano”. Ezechiele pregò e vide che lo Spirito entrava in quei cadaveri e che si alzarono in piedi e ricominciarono a vivere. Erano un esercito grande, sterminato. Come le stelle del cielo».
«Quella visione – conclude Tommaso – si è realizzata proprio qui nel cenacolo. Anche noi eravamo senza speranza, terrorizzati, oppressi dai nostri peccati… È scoccato il momento dello Spirito Santo: segno che Gesù è veramente il Messia». «Ora io credo – dice Tommaso – e ripeto: mio Signore e mio Dio!».

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Nella giornata di domani, nei momenti di difficoltà, di avvilimento, di cattivo umore, sentiamo in noi la presenza dello Spirito Santo che ci fa rivivere. Continuiamo il gioco del “prediletto” della Madonna nella nostra famiglia.

22 maggio – La profezia del cuore di carne

A questo punto si inserisce nella conversazione anche l’apostolo Matteo. Il suo Vangelo pare sia stato redatto la prima volta in lingua aramaica, parlata dagli ebrei del suo tempo; anche lui è molto vicino alla tradizione ebraica.
Matteo passò dal banco delle imposte alla sequela del Maestro che gli aveva detto: «Vieni e seguimi». Il banchetto che festeggiò la sua conversione e la sua vocazione divenne un segno dell’amore misericordioso di Gesù e della forza dello Spirito che rinnova i cuori.
«Lo Spirito Santo – dice Matteo – crea davvero un cuore nuovo, cioè, un cuore libero per amare. Rende capaci di compiere le opere della fedeltà, come succede alle fanciulle sagge che fanno corona allo sposo ed hanno sempre le lampade con abbondanza di olio, o come succede al fedele amministratore che, in attesa del padrone, sa trafficare i talenti ricevuti». «Sono esempi che prendo dal mio Vangelo», soggiunge Matteo.
«Ci sono due profezie – continua – che noi leggiamo in sinagoga e che ci parlano dello Spirito Santo e della sua azione su di noi. La prima, assai suggestiva, è nel libro del profeta Ezechiele: “Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati: io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti”». Lo Spirito, dentro di noi, compie questa opera: sostituisce il cuore, dal cuore di pietra al cuore di carne.
«La seconda profezia – incalza Matteo – è di Gioele: “Dopo questo, io effonderò il mio Spirito sopra ogni uomo e diventeranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni. Anche sopra gli schiavi e sulle schiave, in quei giorni, effonderò il mio Spirito”. Ecco la Pentecoste, realizzazione delle profezie!».

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Nella nostra casa abbiamo la Bibbia? Propongo di metterla in evidenza, per fare in modo che diventi il libro attraverso cui lo Spirito Santo torna ad ispirarci.
Continuiamo il gioco del “prediletto” della Madonna nella nostra famiglia.